di Luca Cangianti
Ogni grande battaglia, vinta o persa, si rivela sempre una prima parte di uno scontro finale dal carattere simbolico ed esistenziale ancor più profondo. It – Capitolo 2 si svolge 27 anni dopo quel settembre 1989 in cui il Club dei Perdenti sconfisse il mostro. Questo però è tornato a uccidere, e Mike, l’unico del gruppo che non ha abbandonato Derry, ricorda agli amici di un tempo il patto di sangue siglato ferendosi le mani: «Giuriamo che se It non è morto, torneremo anche noi.»
Purtroppo, a differenza della prima parte uscita, in sala nel 2017, questo secondo film del regista Andrés Muschietti gestisce con difficoltà la complicata struttura del capolavoro di Stephen King: i flashback sono lenti e ridondanti, i jumpscare ripetitivi e lo humour fiacco. C’è tuttavia almeno un aspetto importante che la pellicola riesce a ereditare con successo dal libro: la trattazione dialettica della memoria e il processo della sua rimozione.
I Perdenti da bambini hanno sconfitto It, ma non lo hanno ucciso; sono andati via dalla città, hanno vissuto la loro vita e non ricordano più come si sono procurati quella cicatrice sul palmo delle mani. Sono fuggiti, lasciando un lavoro incompiuto: il passato torna dunque a perseguitarli secondo una spettrale logica amletica. Mike, che non ha mai abbandonato il territorio, ha scoperto un rituale capace di uccidere il mostro, ma affinché funzioni bisogna ricordare; è necessario, come si dice nel romanzo, «completare l’opera di congiungimento del passato con il presente, in modo che il filo dell’esperienza formi un circolo.» It – il male archetipico che si nutre della nostra carne e del nostro materiale rimosso – può essere ucciso, ma non in ogni momento, solo durante una delle sue emersioni cicliche.
Si tratta di elementi tipici dell’immaginario horror che ritroviamo nei culti misterici fino alla fiction hollywoodiana, passando per Hegel, Marx e il pensiero psicanalitico.1 Nella Fenomelogia dello spirito, ad esempio, Hegel ripercorre in forma stilizzata la memoria storica umana fino al Sapere Assoluto che la contiene tutta: «Il vero è l’intiero. Ma l’intiero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell’Assoluto devesi dire che esso è essenzialmente Resultato, che solo alla fine è ciò che è in verità».2 Accennando alla metafora del viaggio il filosofo afferma inoltre: «Per giungere al sapere propriamente detto, o per produrre quell’elemento della scienza che per la scienza medesima è anche il suo puro concetto, il sapere deve affaticarsi in un lungo itinerario.»3 Alla verità hegeliana come totalità della memoria storica organizzata si può avvicinare l’elaborazione psicoanalitica: non a caso Freud paragona il lavoro dello psicanalista a quello dell’archeologo. Egli infatti connette il presente superficiale al passato ctonio mediante la terapia.4 Il capitale di Marx infine altro non è che un lungo viaggio nel sistema fognario capitalistico per ricostruirne la mappa e i meccanismi, rendendo visibile l’orrore dello sfruttamento.
La memoria ricostruita attraverso la fatica del lavoro analitico ci sottrae al dominio esterno della nevrosi. La memoria elaborata degli assalti al cielo falliti, delle rivoluzioni e degli amori traditi, dei sogni più eroici finiti nel fango sottraggono le soggettività collettive all’impotenza e le preparano a nuove avventure. Quando passano 27 anni il ciclo si compie: It riemerge, il Club dei Perdenti si ricostituisce. I volti possono cambiare, ma il grido è lo stesso: «Uccidiamo quel clown di merda!»
Sulle strutture della fiction fantahorror cfr. Luca Cangianti, “FantaMarx. Critica dell’economia immaginaria” in AA.VV., Immaginari alterati, Mimesis, 2018, pp. 94-96. ↩
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, La fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, vol. 1, 1973, p. 15. ↩
Ivi, p. 21. ↩
Cfr. Francesco Marchioro, Psicoanalisi e archeologia. Freud e il segreto di Atena, Sovera, 2017. ↩