di Henri Barbusse
Henri Barbusse (1873-1935) è stato uno scrittore francese, noto per romanzi importanti quali L’Enfer (1908) e Le Feu (1916). Ma soprattutto, alla testa del movimento Clarté, è stato un militante e promotore della sinistra intellettuale europea dopo la prima guerra mondiale. Riportiamo il primo capitolo del suo Le Couteau entre les dents (1923), ricco di spunti di discussione ancora attuali e precedenti l’adesione finale dell’autore allo stalinismo.
Abbiamo spesso, i miei compagni ed io, parlato agli intellettuali del loro dovere sociale. Mi accingo a farlo oggi con accresciuto fervore. Al punto in cui siam giunti della mischia delle cose e delle idee, bisogna parlare sempre più chiaramente, sempre più fortemente, e, secondo la vecchia espressione alla quale l’intensità degli avvenimenti dà tutto il suo vigore originario, ognuno di noi deve assumere le sue responsabilità. Gli intellettuali – parlo di quelli che pensano, non dei giocolieri e dei ciarlatani, parassiti e sfruttatori dello spirito – sono i traduttori dell’idea nel caos della vita. Sieno essi dotti, filosofi, critici o poeti, il loro compito eterno è di fissare e di mettere in ordine la verità innumerevole, per mezzo di formule, di leggi e di opere. Essi ne individuano le linee, le direttive; essi hanno il dono quasi divino di chiamare finalmente le cose col loro nome. Per essi, la verità si confessa, si ordina e si aumenta e da essi esce fuori il pensiero organizzato, a rettificare e a dirigere le credenze ed i fatti. Per questa sublime utilità, i lavoratori del pensiero sono sempre all’inizio di quel dramma interminabile che è la storia degli uomini.
Il loro primo dovere è oggi di applicarsi tutti a questo dramma umano che precipita verso nuovi scioglimenti. L’onestà professionale comanda loro di comprenderlo in tutta la sua grandezza, di sollevarsi tutti al disopra delle considerazioni accessorie nelle quali tanti spiriti restano ancora impaniati, per discernere le alte semplicità che si delineano e iniziare di là l’opera effettiva del pensiero. Certo, non è facile alzare la testa fuori delle contingenze che si succedono vertiginosamente, strapparsi al compitamento dell’immediato. Ma un comandamento superiore ci grida di farlo. La questione sociale che non è, lo sappiamo, tutta la questione umana, ma che è, fra i problemi del nostro destino, quello nel quale possiamo intervenire efficacemente, deve essere messa ormai al suo vero posto: nel campo delle cose positive, del realismo, e restarvi fino alla fine. Questa affermazione è una vittoria dello spirito. È la prima tappa sicura di un progresso vivo. Essa spazza tutto, e traccia una via dove si può camminare. Ci fu un tempo in cui le scienze fisiche e naturali erano impacciate di metafisica e di religione. Tali confusioni hanno prodotto il loro ristagno, la loro sterilità ridicola e mostruosa per migliaia d’anni. L’investigazione delle scienze applicate ha cominciato ad accumulare resultati regolarmente solo quando ha chiarito il suo scopo e lo ha ristretto all’osservazione e alla sperimentazione metodica dei fatti positivi, eliminando qualsiasi misticismo e ponendo la patetica e vertiginosa ricerca delle cause prime e dell’essenza dell’essere, su un altro piano di ricerche. Da quel momento, essa è giunta a disciplinare, a domare con la classificazione, il disordine apparente dei fenomeni, a stabilire la scala delle leggi, a tesoreggiare definitive certezze. «Sapere, è prevedere e potere», ha detto uno di quelli che per i primi hanno veduto questo grandioso rimpicciolimento del metodo scientifico. E deve ormai accadere lo stesso, per la scienza sociale. In questi giorni in cui le crisi penetranti hanno precisato la realtà, dobbiamo finalmente collegare le une colle altre le forme della conoscenza, e delimitare saggiamente e solidamente il nostro ideale. Non si tratta di una nuova religione. Non si tratta di paradiso terrestre, nè di qualche cosa di magico o di soprannaturale. Non si tratta neppure di attuare «la felicità degli uomini», nè di far sbocciare improvvisamente quaggiù l’amore e la fratellanza. Queste parole, prese nel loro senso integrale, si applicano a forze ideali e sentimentali, a entità che superano il campo e le risorse della scienza sociale. Queste cose profonde emanano dall’immensa vita interiore di ciascuno – e devono rimanerci. Molti nobili spiriti mescolano ostinatamente il progresso sociale al progresso morale. Essi non ammettono una rivoluzione temporale che non fiorisca su una rivoluzione spirituale e sentimentale, la quale modifichi fondamentalmente la natura umana: «Per cambiare le cose, dicono, bisogna cambiare l’uomo». Questo prestigioso ingrandimento sposta il problema e lo getta nel vago e nell’impossibile. Senza dubbio, se tutti gli uomini fossero buoni, la società diverrebbe per ciò solo perfetta, ma nulla permette di credere che la bontà possa mai diffondersi tanto da prendere naturalmente la direzione delle cose. Gli esempi tratti dagli annali dei fatti provano invece che l’uomo è assai poco perfettibile nella sua essenza individuale, e che le predicazioni morali, sentimentali ed estetiche che hanno talvolta sollevato le masse non si sono fissate, oppure si sono ben presto deformate nell’uso, fino a divenire contrarie a se stesse – in mancanza di criterio stabile, di basi positive. Questa concezione sentimentale, nella quale si ostinano – senza affratellarsi – i moralisti nebulosi e i teorici libertarii, non ha socialmente che un valore momentaneo di opposizione, di resistenza al male, un’influenza distruttiva, utile, ma provvisoria. Sulla soglia dell’attuazione, «a pie’ d’opera», la confusione da cui è contaminata la paralizza. Conserviamo una pietosa speranza nell’abbellimento futuro della natura umana, ma aspettando, sappiamo constatare quanto sia derisorio il far balenare soltanto questa soluzione paradisiaca agli occhi di una umanità che ogni giorno soffre e si lacera più profondamente – e che il destino che essa si è foggiato minaccia di annientamento.
Se essa soffre, se si dilania, se si uccide, ciò è perchè vi è costretta dalle leggi. Ci troviamo di fronte a cataclismi generali, ad anomalie pubbliche, collettive, che derivano dalle leggi che sono collettive, in quanto sono leggi. Ci troviamo di fronte a istituzioni temporali. Bisogna prendere di mira queste stesse istituzioni, direttamente, scientificamente, e non indirettamente, mettendo in causa gli arcani dell’anima e del cuore. Bisogna astrarre definitivamente da ciò che è veramente individuale nell’individuo, ammettere in teoria e in pratica che c’è un abisso fra l’uomo e il cittadino, e che la definizione adeguata della società è l’insieme dei cittadini e non l’insieme degli uomini. La correzione delle disposizioni legali collettive spetta al buon senso, che è collettivo, perchè comune a tutti. Queste sono dunque le condizioni della lotta che occorre comprendere e praticare con previsione: restare nel campo positivo e – usiamo la parola nel suo vero senso – nel campo superficiale del destino pubblico, sottomettere al controllo della ragione un insieme universale di regole che, per quanto sieno talvolta terribili, sono artificiali, create dagli uomini e modificabili da essi a loro piacere; concepire l’ordinamento della vita generale secondo le necessità metodiche dell’interesse generale, che si confonde esattamente, in questa regione dell’armonia collettiva, con la ragione e la giustizia. Il progresso sociale, concepito sotto questa luce semplice e misurata, appare come possibile, attuabile, e anche se è tuttora lontano, si può dire che è vicino: esso è di questo mondo. Ogni spirito sano può impadronirsene anticipatamente, e non c’è più protervia nell’usare la grande parola di verità e nel pretendere di possederla, dacchè la si pone in questi limiti effettivi e ragionevoli. E ciò basta a sconvolgere da cima a fondo l’ordine esistente. Il «non si può mai sapere!», così onorevole, così grave, quando si applica all’enigma di Dio o ai rapporti profondi del mondo esterno e del mondo psichico, è ridicolo dinanzi alle imposizioni del buon senso come dinanzi ai segni stabiliti dell’aritmetica e dell’algebra. Quella umiltà si sbaglia di obietto e ci sarebbe da riderne se non fosse una malattia epidemica. Pur non essendo necessario che l’uomo di pensiero entri nell’azione, egli deve entrarci almeno col pensiero. Gli intellettuali debbono abituarsi a vincere la loro diffidenza, la loro paura della verità pratica, e mettere il realismo dove deve essere. Questa non è che logica: un’idea giusta porta conseguenze realistiche, se no, non è, socialmente, che una menzogna. Distoglierla da quelle conseguenze o distinguerle male, ritenere che il compito si fermi al di qua, è commettere una colpa contro lo stesso pensiero. La maggior parte degli uomini, gli intellettuali alla testa, professano disprezzo per la «politica». Sembra che questo sia, ai loro occhi, un ordine di cose di una specie particolare, la volgarità del quale li disgusta.
Questo errore che, nelle condizioni in cui oggi si svolge la lotta ineguale del bene e del male, diventa una cattiva azione, non è che un segno di miopia aristocratica, oppure un pretesto troppo spiegabile e poco scusabile per restare comodamente rifugiati nelle frasi e nelle nuvole. Quanto ad allargare a tutta l’attività politica, le tare, i tranelli, le meschinità e le mancanze di certe politiche o di certi politicanti, è un sofisma puerile indegno del pensiero. Se il mondo vivente deve ordinarsi diversamente o deve restare com’è, ciò avverrà per misure politiche, e tutte le parole non cambiano nulla a questa evidenza. Fare della politica, è passare dal sogno alle cose, dall’astratto al concreto. La politica è il lavoro effettivo del pensiero sociale, la politica è la vita. Ammettere una soluzione di continuità fra la teoria e la pratica, lasciare ai loro soli sforzi, anche con una cortese neutralità, quelli che attuano, e dire «noi non conosciamo costoro», è un abbandonare la causa umana.