di Gioacchino Toni
Mark Cousins è conosciuto per la realizzazione di due monumentali opere sul cinema: The Story of Film: An Odyssey (2011), quindici ore di documentario in altrettanti episodi, e La storia del cinema (Utet, 2017), volume di oltre cinquecento pagine. Più recentemente Cousin ha presentato al Festival di Cannes The Eyes of Orson Welles (2018) e il libro Storia dello sguardo (Il Saggiatore, 2018). In quest’ultima prova editoriale l’autore nord-irlandese passa in rassegna alcuni tra i momenti più significativi della storia visiva riflettendo sulle modalità con cui il modo di guardare è mutato nel corso dei secoli e sui motivi per cui ciò è accaduto. L’atto del guardare è indagato dallo studioso sia ragionando su alcuni momenti visivi dalla sua storia personale, sia attraverso le tappe che nel corso dei secoli hanno condotto all’attuale modalità di guardare. Lungo un percorso che si sofferma sulla questione del potere dello sguardo e delle immagini nella prima modernità del Cinque e Seicento e sul ruolo della visione nel mondo di Versailles e nell’epoca illuminista, Cousin giunge a ragionare sul diffondersi della fotografia e del cinema per poi arrivare ai nostri giorni.
L’analisi dello sguardo novecentesco si apre con la celebre immagine che mostra una mano armata di rasoio che si appresta a lacerare l’occhio di una donna tratta da Un chien andalou (1929) di Luis Buñuel. La scena in cui, attraverso un montaggio alternato, si passa dall’occhio femminile alla lacerazione del bulbo oculare di un vitello morto, viene efficacemente scelta da Cousin come «metafora del violento accrescersi del volume delle immagini osservabili in quegli anni». La diffusione di apparecchi fotografici leggeri e relativamente economici che si ha in apertura di Novecento inaugura una crescita esponenziale delle immagini disponibili che raggiungerà numeri incredibili ai nostri giorni. E se in apertura del XX secolo «lo tsunami delle immagini era più simile a un’invasione dell’occhio piuttosto che a una fuoriuscita da esso», sostiene Cousin, ben presto «le persone comuni, quelle che gran parte della storia dell’umanità erano state esclusivamente consumatrici visive, iniziarono a produrre immagini». L’inizio del Novecento presenta anche altri cambiamenti importanti nella storia dello sguardo; nella narrazione proposta da Cousins l’atto del vedere si incontra con i ragionamenti di Albert Einstein su spazio e tempo, con le particolari fotografie di Arthur Eddinghton, con gli studi sui colori e la luce di Niels Bohr, con le ricerche sulla visione microscopica e atomica, fino a giungere all’accresciuta importanza della visione negli ambiti politici e sociali nel XX secolo.
Una parte del volume è dedicata alle pratiche di sorveglianza visiva che vantano una lunga storia. Lo studioso ricorda il millenario ricorso a nicchie di osservazione nei palazzi del potere, l’istituzione di agenzie e apparati di controllo della popolazione nella Francia della Rivoluzione, il controllo della corrispondenze nel Regno Unito negli anni Quaranta dell’Ottocento, la schedatura fotografica delle suffragette inglesi negli anni Dieci del secolo successivo, le censure delle lettere dal fronte nel corso dei due grandi conflitti mondiali, la diffusione delle riprese a circuito chiuso negli anni Sessanta e Settanta e via dicendo. Se la visione votata al controllo ha una lunga storia, resta il fatto che negli ultimi decenni questa ha raggiunto livelli prima impensabili; se per gli Stati Uniti si parla di una media di una videocamera di sorveglianza ogni dieci abitanti, a ciò si devono aggiungere i sistemi di localizzazione satellitare, le mappature fotografiche disponibili in internet.
Nella parte finale del volume, l’autore, oltre a denunciare i pericoli insiti nell’ipertrofia visiva contemporanea, intende però evitare il catastrofismo mettendone in evidenza anche aspetti positivi.
Forse guardiamo troppe cose, questo tipo di sguardo sta sostituendo altri generi di esperienze vitali, più naturali o capaci di arricchirci? Le nuove scoperte riguardanti la neuroplasticità sembrerebbero indicare che chi ha usato gli smartphone a partire dalla preadolescenza e che, grazie alla fibra ottica e ai satelliti, ha una sensazione più limitata dell’altrove, stia subendo dei mutamenti celebrali. Se ciò fosse vere si tratterebbe di una notizia preoccupante, forse, ma probabilmente è troppo presto per fare valutazioni del genere e gli interessati dovrebbero cercare di non abbandonarsi a millenarie fobie legate allo sguardo. Sì, c’è un’inondazione in corso; sì, vediamo nei modi più svariati, come mai prima d’ora, ma si tratta di un cambiamento anche tipologico? Il vedere così tante cose minaccia le nostre coscienze o le innalza a un nuovo livello?
Storia dello sguardo non ha il rigore di un saggio vero e proprio sull’argomento; si tratta piuttosto di un affascinante racconto sulla visione che, nonostante la mole, si legge tutto d’un fiato e che non manca di fornire acute suggestioni che invitano all’approfondimento.
Un’ultima annotazione a proposito dell’insolita copertina dell’edizione italiana dotata di occhi da pupazzo mobili e in rilievo: ecco, verrebbe da dire che questa copertina proprio non si guarda. E se il “fastidio” provato nell’osservare la copertina fosse generato non tanto dal suo aspetto kitsch, ma dal sentirci guardati da essa? Torna allora alla memoria la vicenda del celebre dipinto Colazione sull’erba (1863) di Manet respinto dalla giuria del Salon non tanto per la presenza di un nudo contemporaneo (privo del consueto filtro mitologico), quanto piuttosto per l’ostentata fuoriuscita dalle consuetudini pittoriche; pare persino essere il quadro a osservare, indispettito, lo spettatore. Alla critica dell’epoca era così stata sfacciatamente tolta l’esclusiva dello sguardo indagatore. Ecco allora che gli occhi kitsch con cui l’edizione italiana del libro di Cousin ci osserva sembrano volerci ricordare che proprio noi che, attraverso le pagine del libro, ci apprestiamo ad indagare la storia dello sguardo, siamo a nostra volta (sempre) osservati. Quei banali occhi da pupazzo ci svelano allora la mise en abyme che si cela dietro l’angolo (dell’occhio).