di Sandro Moiso

Finalmente la carica politica e critica tipica del cinema di serie B, horror e splatter, degli anni Settanta e Ottanta è tornata. Alla grande direi.
Una serie come Zombie Nation (giunta alla sua quinta e ultima stagione), il film Hotel Artemis di Drew Pearce e soprattutto l’ultima prova cinematografica di Jim Jarmusch (The Dead Don’t DieI morti non muoiono), tutti piuttosto snobbati dalla critica, dimostrano che la lezione di Brian Yuzna, Wes Craven e, naturalmente, di George Romero non è andata perduta. Mentre il cinema dell'”assedio” di John Carpenter dimostra di avere ancora qualche cartuccia da sparare attraverso l’ultima prova del suo emulo Drew Pearce.

Pare anzi che la lezione originale si sia arricchita di una nuova consapevolezza e di una ferocia critica che sembrano perfino sopravanzarla.
Lo schema delle trame legate ai morti viventi, alla rivolta e ai suoi archetipi sembra ormai essersi liberato da qualsiasi pastoia narrativa tradizionale per dare vita, in tutti gli esempi citati, quasi sempre distanti mille miglia dalla tradizionale drammatizzazione tipica di una serie come Walking Dead 1, ad una distruzione radicale di qualsiasi giustificazione dell’esistente e dell’immaginario che lo sorregge.

Famiglia, Stato, Proprietà, Democrazia (rappresentativa), Ordine, Consumo, Lavoro, Patria non esercitano più alcun fascino su coloro che ne hanno compresa l’intima essenza e che sanno di poterne fare a meno. Anche soltanto per giustificare i meccanismi di trame narrative (cinematografiche e non) morte e sepolte.
Lo sguardo lucido impone di porsi al di fuori dei rimasugli hollywoodiani e perbenisti, in cui troppo spesso quei contenuti fingono di uscire dalla porta per poi rientrare alla grande da finestre panoramiche che mostrano sempre lo stesso paesaggio: datato e consunto. Non più adatto ai tempi.

Certo Romero aveva precorso i tempi con The Night of the Living Dead (1968) e Dawn of the Dead (1978): la questione razziale prima e la critica legata agli orrori della società dei consumi avevano trovato nel suo cinema strumenti espressivi e linguaggi nuovi.
Strumenti espressivi che, negli anni, altri registi avevano cercato di nascondere, riducendo la carica eversiva dei suoi film a puro motore di un horror basato sulla paura più antica della specie umana: quella della morte e del possibile ritorno in vita di coloro che già sono stati accolti tra le sue braccia.

Ma oggi quella carica eversiva è tornata, si è fatta strumento ideale per parlare di una società, di un modo di produzione e di un mondo che non potranno più sopravvivere a lungo, pena l’estinzione della specie nel suo complesso. Il capitalocene ha trovato la sua critica più radicale nel linguaggio e nelle forme espresse da Z Nation e dall’ultimo film di Jarmusch, mentre la rivolta di Los Angeles del 2028, contro la totale privatizzazione dell’acqua, fa da sfondo al carpenteriano assedio di una struttura medica clandestina della malavita organizzata in Hotel Artemis. Confermando l’attualità dei temi della guerra civile, dell’emergenza ambientale e della rapacità capitalistica in certo cinema amaericano.

Apparentemente lontane nella struttura narrativa e nelle scelte delle differenti regie, le tre vicende in realtà sono accomunate da una libertà creativa e da un radicalismo che infischiandosene altamente del perbenismo e di qualsiasi unitarietà o continuità formale, sfonda lo schermo per proiettare lo spettatore direttamente oltre lo stesso. Come i tagli operati da Fontana sulle sue tele imponevano di guardare oltre la miseria della rappresentazione pittorica tradizionale (anche delle avanguardie dei primi decenni del XX secolo).

Anche se il discorso su Zombie Nation dovrà essere ripreso in altre considerazioni future, vale qui però la pena di soffermarsi con maggiore attenzione su un film, quello di Jarmusch appunto, che, come era prevedibile, è stato largamente anticipato dalla critica prima del Festival di Cannes di quest’anno, per poi essere subito riposto nel dimenticatoio con il pretesto di una trama ritenuta “debole”.

Poiché la trama oppure la soluzione narrativa elegante, qualsiasi sia il finale, devono comunque tranquillizzare lo spettatore o il lettore, così come fino alla fine dell’Ottocento, e purtroppo ancora oggi, un bel tramonto sul mare o una marina tranquilla erano ritenuti preferibili per il grande pubblico, e per lo stesso mercato dell’arte, rispetto a dipinti troppo fortemente marcati dal colore, dalla distribuzione apparentemente casuali delle pennellate sulla tela e da tutti i mezzi con cui i profeti dell’arte moderna hanno cercato di svincolarsi dai limiti del naturalismo e del realismo e dai suoi contenuti intrinseci (il paesaggio, la famiglia, il lavoro, la natura stilizzata, il sentimento e poi aggiunga pure il lettore tutto ciò che gli viene in mente).

Certo nel corso del Novecento non sono mancate le polemiche sulla fine del romanzo, le sperimentazioni linguistiche e cinematografiche che hanno cercato di superare i limiti della narrazione lineare e del montaggio consequenziale, ma spesso, anche nei casi migliori, sono rimaste troppo spesso esperienze soggettive o riservate ad un ristretto numero di cultori. Spesso più attratti dall’originalità dell’opera e dai suoi risvolti estetici, che dalla sua intima essenza. Quando c’era.

Il film di Jarmusch riprende certamente alcune caratteristiche della sperimentazione teatrale e cinematografica del secolo scorso (ad esempio rivelare allo spettatore che i personaggi coinvolti sono ben consci di essere parte di un copione che conoscono bene o almeno in parte), ma va oltre.
Sfrutta il linguaggio dello splatter movie non per colpirci allo stomaco e alle budella, magari anche in quelli, ma per schiaffeggiare lo spettatore, ricordandogli che, potenzialmente, anche lui è già morto!

Tema che Jarmusch aveva precedentemente affrontato nel suo bellissimo Solo gli amanti sopravvivono (Only Lovers Left Alive, 2014), in cui, in una Detroit notturna e priva di vita economica e sociale, solo i vampiri possono considerarsi vivi a confronto degli zombie umani che vivono da morti convinti di essere ancora realmente in vita.

Alcuni lettori storceranno il naso nel vedere i film di Jarmusch oppure quello di Drew Pearce accomunati al cinema di serie B. Ci sono attori famosi (Bill Murray o Jodie Foster, senza contare Iggy Pop o la stessa Tilda Swinton) e costi di produzione non proprio bassi, ma ciò che conta è dato dal fatto che i codici e il linguaggio dei film horror di serie B si son fatti carne e sangue di una critica radicale che non può più accontentarsi di lemmi, parole, stereotipi, frasi fatte (alcune molto eleganti e raffinate) che potrebbero tornare ad imprigionare il significato in un significante che non lo rappresenta e non può più rappresentarlo con esattezza.

The Dead Don’t Die è una sorta di urlo grazie al quale tutti si devono riscoprire colpevoli.
Non banalmente, come vorrebbe il green capitalism, perché qualcuno non fa la raccolta differenziata oppure non consuma cibo a chilometri zero o altre amenità di questo genere ancora.
No, e non fa nemmeno discorsi come quelli un tempo fatti da ciò che si definiva come “Sinistra” o “sindacalismo”.

Il dramma e la commedia esplodono entrambi dall’ignoranza, dall’egoismo, dall’assuefazione ad un ciclo che non si potrebbe meglio definire che con lo slogan Lavora, consuma, crepa! Che non intende esaltare affatto le differenze di classe, etnia, genere, ideologiche tutte prodotte, ormai da secoli, dallo stesso modo di produzione condiviso, dall’assuefazione all’esistente e alle sue forme di organizzazione e di consumo.

O si è dentro o si è fuori ci dice Jarmusch e i ruoli affidati a Tom Waits (il vecchio eremita dei boschi, profondo conoscitore della Natura e nemico di ogni proprietà e di ogni ordine costituito, cui è affidato il ruolo un tempo svolto nelle tragedie dal coro) ) e Tilda Swinton (presenza aliena, in ogni senso, per una cittadina comune di appena 738 abitanti come Centerville, luogo ideale in cui si ambienta la, verrebbe da dire, non-vicenda) lo sottolineano con estrema chiarezza.

La distruzione dell’ambiente, la corsa all’arricchimento e all’estrattivismo, il fracking su larga scala, la paura di perdere o di non garantire il lavoro e lo sfruttamento premiati da dosi massicce di consumismo, sono le cause del ritorno alla non-vita dei morti. Ma questo avviene perché siamo già immersi in un mondo di non-morti o, meglio ancora, di non-vivi.
Ogni attività, non solo lavorativa e produttiva, è stata sussunta nella sua interezza dal Capitale e non si possono nemmeno più salvare singoli aspetti di una società totalmente integrata.

Privato e pubblico sembrano non più esistere come entità separate. Tutto si è privatizzato e tutto, allo stesso tempo, è diventato strumento pubblico di coinvolgimento dei singoli nelle attività legate ai cicli di valorizzazione e accumulazione del Capitale.
Così l’ambiente non è più comune all’Uomo e a tutte le altre specie, ma è soltanto un ulteriore strumento di arricchimento di poche società e pochi individui. E anche per questo, forse, si sta ribellando.

Se, poi, anche un possibile “eroe” viaggia su una Smart, il finale sarà inevitabile a meno che, saltando i condizionali e le forme tradizionali e consunte di narrazione dell’esistente, non si ricominci a distruggere tutto ciò che di questo è strumento e testimonianza, causa e conseguenza, salvezza o negazione soltanto parziale. Oppure si trovi rifugio nell’unico luogo di vita reale: la rivolta, implacabile e generalizzata.
Così come fa nel finale del film di Pearce il personaggio intepretato da Jodie Foster.
Hic Rhodus, hic salta.


  1. Che è comunque più appassionante e radicale negli albi a fumetti piuttosto che nella trasposizione televisiva, abbondantemente castrata per non dispiacere al pubblico delle serie televisive desideroso di complessificazioni psicologiche e narrative spesso inutili se non ridicole, tipiche anche dell’appena conclusa, per grazia di Dio, Game of Thrones