di Mauro Baldrati
Scriveva Alberto Moravia nell’introduzione a un altro romanzo breve di Dostoevskij (L’eterno marito): “Il romanzo dell’Ottocento era pudico nelle cose del sesso fino al silenzio più totale e impudico fino all’inverecondia sulle cose del sentimento; il romanzo del Novecento è invece molto sobrio per non dire taciturno sui sentimenti e invece molto esplicito sul sesso”.
Fino all’inverecondia: questa definizione sembra scritta apposta per Notti Bianche. Infatti il sentimento costituisce il nucleo centrale di quest’opera giovanile (Dostoevskij aveva 27 anni), viaggia sulle righe con una intensità selvaggia tale da “bucare” la pagina stessa. Forse è proprio per il fatto di essere stato scritto in giovane età, quando ancora l’autore “credeva”, si infiammava su temi letterari e sociali, che la famosa potenza narrativa dostoevskiana raggiunge queste vette. In alcuni punti sembra addirittura un poema romantico, con cieli fiammeggianti e oceani in tempesta. L’autore stesso sembra rendersene conto, quando fa dire al suo narratore che è “patetico”, o addirittura “ridicolo”. Si susseguono i racconti, le invocazioni, le invettive, si versano fiumi di lacrime, in uno scambio passionale tra il vagabondo notturno e la ragazza Nasten’ka; si passa dalla disperazione alla gioia più travolgente, risucchiati da una sorta di tornado sentimentale bipolare; ci si contraddice, ci si illude, nel turbine della passione, delle speranze e delle delusioni.
Possiamo dire che gli argomenti del racconto sono tre: la solitudine, la fantasticheria e l’amore.
Il narratore è un uomo che vive completamente solo a Pietroburgo. La sua solitudine è assoluta, totalizzante. Non ha rapporti con nessun essere vivente. La sua vita è fatta di osservazione e di voli di fantasia. A volte durante il suo peregrinare per la città ha delle visioni, delle percezioni. Sembra che certe case gli parlino. Sembra che città sia un organismo vivente. La sua sfrenata fantasia lo porta a costruire un mondo immaginario, in cui si immerge fino a perdere ogni contatto con la realtà. Ma non si dilunga con queste fantasticherie. Non le descrive, non le analizza, e quindi non rende il testo una pedante indagine onirica. Gli sta a cuore soprattutto il procedimento, il divenire, ovvero la sostituzione della realtà con un’altra immaginaria e idealizzata. Una fantasia negativa quindi, che lo porta a separarsi sempre più dal mondo. Ma non ne va fiero. Non è contento né soddisfatto, benché talvolta venga travolto da un senso di gioia assoluta. Si rende conto dello spreco della sua esistenza e del suo tempo: “Che cosa ho fatto dei miei anni? Dove ho sepolto il mio tempo migliore? Ho vissuto o no?” (pag. 75 edizione Einaudi ET classici 2014). Probabilmente il giovane Dostoevskij ha attinto dal giovanissimo, dall’adolescente solitario che è stato, quando la mente ipercinetica viaggia sulle fantasie che sembrano voler divorare il tempo e lo spazio.
Poi, durante il suo girovagare notturno, incontra una ragazza. E’ sola, come lui, in piedi sul ponte sulla Neva, e sta piangendo. A un tratto viene inseguita da uno strano, minaccioso uomo in frac, che il narratore mette in fuga brandendo un bastone. Nasce un’amicizia particolare, fatta di storie personali, di racconti, di confessioni, speranze e delusioni. E’ lei la vera narratrice. E’ lei che ha una storia forte, una storia avvincente. Una storia reale.
Nasten’ka vive con la nonna in una piccola casa. E’ una vita ai minimi termini, fatta di cose minuscole. La nonna è cieca, spaventata, e proibisce alla nipote di uscire, addirittura di leggere, perché potrebbe incappare in avventure disdicevoli. Per tenerla sotto controllo cuce addirittura il suo vestito con quello della ragazza, come due gemelle siamesi. Poiché la casa ha un mezzanino libero, e la nonna è povera, arriva un inquilino. E’ un uomo serio, riservato, gentile, persino servizievole: le porta a teatro, a vedere Il barbiere di Siviglia, che nella Russia dell’epoca era di gran moda. Subito in lei scatta l’amore. “Lo amo, Dio quanto lo amo!” grida tra le lacrime durante le quattro notti che compongono il romanzo. L’amore nasce così, di colpo, generato da un nulla, perché in una vita fatta di niente basta un piccolo particolare per scatenare una tempesta.
Le storie si susseguono, si alternano. Anche il narratore ha vissuto un amore infelice. I due si confidano segreti, si ringraziano a vicenda per il dono reciproco.
Ma l’amore, si sa, è contraddittorio. E’ sfuggente. E’ reticente. A un certo punto l’inquilino se ne va, lascia Pietroburgo. Lei gli scrive, ansiosamente. Lui non risponde. Lei gli dà un appuntamento. Non viene. Lei si dispera. Si illude. Forse non ha letto la lettera. Il narratore cerca di consolarla, la rassicura, mentre con la stessa passione si è già innamorato di lei.
Le notti si susseguono, in un turbine caotico di invocazioni e delusioni, per l’avvento del carne e del sangue nelle loro vite minuscole che si avvitano in uno spazio ristretto e senza luce.
E alla fine le cose cambiano. Per Nasten’ka almeno. L’inquilino ritorna, l’abbraccia, le giura eterno amore. Si sposeranno, finalmente. E lei è felice. Il narratore, innamorato “ma anche” amico, rimane, pare, con un palmo di naso (non accusatemi di spoiler, non esiste per un autore come D.). E non sappiamo – ma lo sospettiamo? – se tornerà alla sua solitudine e alle sue fantasticherie. Forse no. Forse quello che Nasten’ka gli ha regalato è più forte di qualunque involuzione: “Dio mio! Un intero attimo di beatitudine! E’ forse poco, sia pure per tutta la vita di un uomo?”
Notti bianche è un testo sovralimentato, di una intensità fuori dal comune, stupendamente in controtendenza rispetto all’omologazione contemporanea, all’impoverimento della lingua, al cinismo dei sentimenti di una civiltà al tramonto. E’ una formidabile palestra mentale e letteraria, necessaria per tutti i lettori, indispensabile per chi vuole scrivere.
Dunque, scrittori e aspiranti tali, con solo leggete, ma studiate Dostoevskij!