di Valerio Evangelisti
[E’ uscito da pochi giorni il volume di Johm Womack Jr. Morire per gli indios. Storia di Emiliano Zapata, ed. Odoya, pp. 514, € 25,00. Questa è la mia prefazione.]
Il libro di John Womack jr. è ancor oggi considerato, in Messico e fuori, il testo fondamentale e imprescindibile su Emiliano Zapata. La sua lettura ha potentemente contribuito a forgiare il mito del grande rivoluzionario, servendo da complemento scritto al celeberrimo film di Elia Kazan Viva Zapata!, del 1952. Malgrado lo stile divulgativo, che a tratti pare romanzato, poggia su una solidissima base documentaria, ed entra di diritto nella letteratura scientifica, non fosse altro che per i contenuti che propone in appendice. Tra cui il celeberrimo Plan de Ayala, il progetto di riforma agraria divenuto una sorta di bibbia dei contadini del Morelos.
Da allora (ma in Messico da molto prima) Emiliano Zapata è diventato un simbolo di ribellione egualitaria, e la sua immagine, elegante e accigliata, appare in un’infinità di lotte sociali. Da quella, è ovvio, dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale, protagonista di una fortunata sollevazione nel Chiapas (e soprattutto nella zona indigena della Selva Lacandona), a tanti conflitti minori. L’aggettivo “zapatista” indica, in Messico e non solo, una sinistra libertaria diretta espressione delle classi povere, specialmente rurali.
È sempre stato così? No, in realtà. Nel 1915 i volontari anarcosindacalisti della Casa del Obrero Mundial di Città del Messico – i “Battaglioni Rossi” – si scontrano con successo con l’armata di Zapata, in nome del socialismo e contro i campesinos ignoranti e reazionari del Morelos. Gli uni inalberano il vessillo rosso o rosso-nero, gli altri gli stendardi della Vergine di Guadalupe. Ciò significa qualcosa? No, per nulla. Gli operai urbani si sono fidati delle promesse vagamente socialiste del presidente Venustiano Carranza, e soprattutto del suo braccio destro, Àlvaro Obregón. Solo un anno più tardi, a dispetto del sangue versato, vedranno i loro scioperi repressi dal governo con la violenza, e la propaganda sindacale punita addirittura con la pena di morte. La Casa del Obrero sarà sciolta, i suoi dirigenti arrestati.
Questo conflitto doloroso non è collegato a ideologie di sorta. Carranza e Obregón sono uomini di Stato, impegnati a edificare un Messico moderno. Zapata è invece l’anti-Stato. Nel Morelos sotto il suo controllo l’organo fondamentale è il Comune, regolato da una sorta di democrazia diretta. I caudillos locali non devono imporre la loro volontà ai cittadini, ma solo interpretare i desideri del popolo, consultato per via assembleare. Collettiva è anche la redistribuzione delle terre, sottomessa alla discussione tra gli interessati. Come avveniva, in parte, prima che una classe di privilegiati si impadronisse, con artifici legali o con la forza, dei terreni dei contadini poveri o di quelli coltivati assieme dalle famiglie.
Uno storico non precisamente progressista, Enrique Krauze, ha desunto da ciò che Carranza fosse interprete della modernità, e che invece Zapata rappresentasse l’estrema difesa di un mondo antico prossimo al tramonto. Le cose non sembrano stare così, visto che Carranza, nella riforma agraria da lui promossa, dovette incorporare, per renderla efficiente, non pochi punti del Plan de Ayala. Semplicemente, Zapata, fin dall’inizio della sua quasi decennale avventura, seppe prestare ascolto ai bisogni profondi del mondo rurale in cui era nato, tanto da attirarsi l’ironia di Pancho Villa, su cui la terra non esercitava particolare attrazione.
Molte cose differenziavano Zapata da Villa o da altri capi rivoluzionari. Un forte misticismo, per esempio, che cozzava con l’anticlericalismo sfrenato di buona parte dei riformatori, da Francisco Madero a Plutarco Calles. Un costante amore verso i più poveri. Un rigore morale esibito persino nell’immagine di se stesso che Zapata esibiva (in nessuna delle sue molte foto accenna a sorridere).
Quell’immagine era largamente voluta e curata. Sappiamo, da molte testimonianze, che il capo del Morelos rideva fino alle lacrime quando leggeva racconti umoristici; che amava il cognac e l’alta cucina francese; che giocava scherzi a volte di dubbio gusto (come convincere a fare il torero qualcuno che nulla sapeva di corride); che era un donnaiolo scatenato, tanto da avere in un decennio una ventina di mogli e una quantità di figli. L’astemio Pancho Villa era, al confronto, un modello di austerità.
Ciò malgrado, il lato mistico di Zapata esisteva ed era fortissimo. Prorompeva quando parlava della terra, dei diritti dei contadini, dell’equità a cui doveva conformarsi la vita sociale. Un rappresentante del mondo antico o un profeta, forse troppo in anticipo sui tempi? Il libro di Womack jr. contiene in sé la risposta.