di Mauro Baldrati
Sono in possesso del contrassegno automobilistico per disabili, il tagliando azzurro che permette di parcheggiare nei posti riservati e di viaggiare nelle corsie degli autobus. L’ho ottenuto a fatica, con grande dispendio di tempo e di energie. Il primo anno mi è stato rifiutato. Il secondo, con le stesse condizioni di salute, accettato, per un anno. Il terzo, sempre nella medesima situazione (sono portatore di una malattia autoimmune che non ha guarigione), finalmente per cinque anni. Ma con un duro prezzo da pagare: il deferimento (termine quanto mai appropriato) alla commissione medica per il rinnovo della patente. Un tunnel lungo, oscuro e maleodorante del quale scriverò in futuro.
Un paio di mesi fa dovevo sottopormi a una delle frequenti visite mediche conseguenti alla mia malattia, per cui ho preso la macchina e ho guidato fino all’ospedale. Ho parcheggiato in uno dei posti a noi riservati, che ho trovato libero per miracolo. Perché, va detto: moltissimi parcheggi sono occupati abusivamente da chi non ne ha diritto.
Sono tornato dopo un paio d’ore e, con stupore, ho trovato il minaccioso avviso della multa sul parabrezza. Possibile? Uno scherzo?
Mi sono avvicinato, con un senso di timore misto a rabbia, ho guardato bene e ho notato che il tagliando disabili non c’era. Sì, non era sul cruscotto. Dannazione, l’avevo posizionato, ne ero sicuro. Poi l’ho visto: era caduto sulla pedana del posto di guida. Allora ho capito. Talvolta col colpo d’aria della portiera che si chiude tende a cadere.
Ho sfilato la multa dal tergicristallo. 46 euro. Fuck! Mi sono guardato intorno, cercando non so cosa, non so chi. Perdio, non avevo usurpato un diritto altrui. Era solo uno stupido errore. Per cui, vibrante ci senso civico, sono tornato a casa e ho telefonato ai Vigili Urbani di Bologna. Va detto che ogni telefonata qui descritta si intende con un call center con attese piuttosto lunghe per via dei “premi 1, premi 2” ecc.
Ha risposto una signora gentile che ha ascoltato la mia storia. Mi ha chiesto gli estremi della multa e ha detto che non dovevo preoccuparmi. In effetti ero in possesso del diritto di parcheggio, per cui esibendo il tagliando potevo fare ricorso al Prefetto. Ma prima dovevo aspettare l’arrivo del verbale vero e proprio, perché si trattava di un atto giudiziario. “Quando lo riceve ci ritelefoni” ha detto, “che le spieghiamo come fare. E stia tranquillo” ha aggiunto, “andrà tutto bene.”
Rinfrancato, ho riposto il tagliando della multa e sono passato ad altre storie.
Dopo circa un mese e mezzo è arrivata la famigerata busta verde degli atti giudiziari. L’ho ritirata alla posta, dopo la consueta fila, poi sono tornato a casa a telefonare ai Vigili Urbani.
Mi ha risposto un’altra signora abbastanza gentile, che mi ha chiesto i dati del verbale, poi ha detto: “Attenda in linea, devo verificare la sua situazione e parlarne coi colleghi.”
E’ seguita un’attesa piuttosto lunga, durante la quale sentivo rumori di fondo e voci lontane che dicevano “disabile” e “contrassegno”.
Finalmente la signora è tornata. Un po’ esitante. Ha detto: “Senta… ecco, abbiamo guardato il verbale, e ci sentiamo di escludere che il Prefetto possa accogliere il suo ricorso. C’è l’indicazione NEC, ovvero Non Esibiva il Contrassegno, e questo non permette l’accettazione del ricorso. Mi dispiace. Inoltre se non viene accettato la multa raddoppierà.”
Sono rimasto senza parole. Ma allora l’altra signora, così positiva, così ottimista? Ho detto che, insomma, il mio errore era solo di forma, non chiedevo né un perdono né il beneficio di un diritto che non avevo, ma eventualmente solo uno sconto, tipo dimezzare la multa…
“Sì, lei ha ragione” ha detto. “Ma non possiamo fare nulla purtroppo. Però le consiglio di fare ricorso al Giudice di Pace. E’ più malleabile del Prefetto. Ha più margine di manovra. Si metta in contatto, lo trova in internet. Andrà bene, vedrà.”
Il Giudice di Pace. Chissà perché ero convinto di avere letto un articolo dove si diceva che i giudici di pace erano stati eliminati. Bah. Fatto sta che mi sono attaccato al telefono e per una giornata intera, mattino e pomeriggio, sono rimasto in attesa ascoltando che “tutti gli operatori sono occupati.” Niente da fare. Nessuna risposta. Così ho rotto gli indugi, la mattina dopo mi sono alzato presto, ho attraversato tutta la città e sono andato dal Giudice di Pace, in via Barontini 16.
Il Giudice di Pace. Ma è un tribunale? mi chiedevo, mentre entravo nel palazzo. Sulla porta un tipo in bermuda e ciabatte infradito fumava una sigaretta con aria corrucciata. Il piano terra era deserto. Gli uffici erano tutti vuoti. Una postazione col cartello “informazioni” risultava chiusa: “Rivolgersi all’uff. n. 13 al primo piano.”
Sono salito al primo piano e ho raggiunto l’uff. n. 13. Una decina di persone in attesa. Tutti con aria truce. Tutti con fasci di documenti. Tutte donne meno un pachistano che per due volte ha tentato di saltare la fila, stoppato da una signora bionda che lo ha strigliato. Il contanumeri era guasto. Ho chiesto chi era l’ultima poi mi sono seduto con pazienza e, come tutti a questo mondo, ho iniziato a smanettare col telefono.
Molta pazienza. Circa tre ore. Ognuno aveva dei casi complessi, sentivo parlare di “cancelleria” e “marche da bollo”. Finalmente è toccato a me. Titubante, per il mio caso così banale in confronto a tutte quelle storie delle quali intuivo la complessità e la pesantezza, ho raggiunto il banco dove una signora di mezza età mi ha accolto con un sorriso benevolo. Meno male. Ho detto della multa, del tagliando, dei vigili, ma lei ha tagliato corto: “Prenda il modulo nella scatola marrone.” Ho individuato la scatola tra altre scatole di vari colori e ho preso il modulo. “GIUDICE DI PACE DI BOLOGNA. Opposizione a sanzione amministrativa”.
“Lo compili” ha detto la signora. “Scriva le sue motivazioni e poi lo spedisca. Quant’è l’importo del verbale?” Ho detto 46 euro. “Allora deve pagare il contributo unificato” e ha indicato col dito una tabella col contributo di 43 euro.
Subito non ho capito.
Poi ho capito.
“Cioè, vuol dire che… per fare ricorso su 46 euro ne devo pagare 43?” Lei ha annuito. “E’ il contributo unificato” ha detto.
Ero ancora confuso. Ma… le ho chiesto se, in caso di ricorso respinto, i 43 euro mi sarebbero stati restituiti. Lei ha detto “non lo so.” Di nuovo ci sono rimasto. Come sarebbe non lo so? “Perdio” ho detto, “non ha senso questa cosa.” Lei ha detto “è vero. Non le conviene mica.” Ho insistito. Ma possibile che non possa sapere nulla di questo dettaglio? Non è una bazzecola. Il ricorso non ha nessun senso! “Scusi, ma non può informarsi?” le ho chiesto.
Allora lei, con pazienza, ha girato il modulo e mi ha fatto leggere una riga: “ATTENZIONE: Il personale di cancelleria non può fornire informazioni nel merito del ricorso.”
Fine della storia. Ogni altra considerazione era inutile. Un cerchio chiuso, una forza centripeta che tutto polverizza. Un ordine e un contrordine che nega l’ordine stesso. Una follia amministrativa che rende vano qualunque tentativo di dimostrare, e tanto meno di affermare.
Sono uscito con un senso di confusione e di impotenza che mi tagliava le gambe. Il cittadino, questa entità che tiene in piede tutta l’impalcatura, tutto il sistema burocratico bizantino corrotto autoritario incomprensibile, vale meno di zero. Qualunque tentativo di ottenere, di dimostrare, seguendo le vie ufficiali, è destinato a un lungo, sanguinoso fallimento. Non c’è che la via traversa. Non c’è che il corridoio preferenziale, la parentela, lo scambio, la piccola grande menzogna.
Non c’è altro.
Non c’era altro che pagare la multa.
La multa a un disabile perché ha parcheggiato nello spazio riservato ai disabili.