di Sandro Moiso
Alessio Lega, La nave dei folli, Agenzia X, Milano 2019, pp. 374, 16,00 euro
“Ho la storia di un bel tipo da cantare / e vi prego di ascoltarla per un po’ / perché lui deve capire se può vivere o morire” (La mongolfiera – Ivan Della Mea)
Solo un altro cantautore poteva far stare in un libro l’esperienza musicale, politica, poetica e, soprattutto, di vita di un personaggio grande quanto quello di Ivan Della Mea.
Occorreva che qualcun altro, proprio come ha fatto l’autore del libro, Alessio Lega, ripercorresse le stesse strade, gli stessi festival, gli stessi circuiti politico-culturali, le stesse osterie e gli stessi viaggi massacranti attraverso l’Italia per poter dare vita a una biografia fatta di lotte, dolore, impegno culturale, delusioni, grandi bevute ancor più grandi mangiate, canzoni dialettali, folklore, ballate politiche, peso di ricordi famigliari disgraziati e molto altro ancora.
La lucidità, l’ironia, la tristezza, l’autentica auto-analisi contenuta in tante canzoni di Ivan, conosciute o meno oppure inedite, deriva da una trama di vita intensa e da un impegno continuo a fianco degli oppressi e da un rifiuto viscerale dell’esistente in tutte le sue forme: lavorative, famigliari, economiche e repressive. Una coscienza di classe che non poteva che derivare da una conoscenza diretta ed esperita delle ingiustizie ed ineguaglianze nascoste, nemmeno troppo bene, all’interno di una compagine sociale che osò definirsi “società del benessere”.
Una conoscenza del reale che non derivava dai libri, pur letti e rimasticati in grande quantità, ma direttamente dalla vita. Grande maestra e amica bastarda.
Come diceva Ivan: chi ha patito il freddo non può che essere comunista.
Dieci anni dopo la sua morte arriva dunque la prima biografia di un autore, cantante, militante, cultore della musica popolare che si apre su un’infanzia che sembra uscita da un romanzo di Dickens o di Zola, sullo sponde dei Navigli, di Brera e delle atmosfere nere di Scerbanenco.
Figlio della guerra, abbandonato in brefotrofio a Lucca, portato a Milano dove visse nel mondo dei barboni e dormì spesso in strada.
Poi vennero le utopie politiche, la ribellione, la scoperta di una sessualità liberata e liberatoria. Infine, ma allo stesso tempo, la musica e la letteratura.
E’ materia spesso ustionante quella racchiusa nel libro e nelle testimonianze in esso contenute, soprattutto in quelle di Ivan e del fratello Luciano, altro grande protagonista delle vicende politiche e culturali degli anni Sessanta e Settanta; è materia di riflessione, ma ancor più spesso è materia per una narrazione serrata e intensa che lascerà il lettore con il desiderio di andare avanti, senza interruzioni.
Come afferma l’autore nel Prologo:
Ecco lettori miei, il libro che segue è una passeggiata per la vita e le canzoni del Mea: Luigi Della Mea ribattezzatosi da solo Ivan, nato a Lucca nell’ottobre del 1940, morto a Milano nel giugno del 2009. E’ una passeggiata per una storia di vita che, soprattutto nei primi vent’anni, sembra eccessiva anche per essere un romanzo naturalista di Zola. Poi diventa un resoconto collettivo della canzone popolare e della partecipazione politica, lì l’individualità di Ivan sembra perdersi al servizio di una storia grande, che pure vuole essere raccontata. Questo libro è anche un percorso nell’opera di un intellettuale che consta di più di quindici dischi, una decina di volumi (fra romanzi, prose varie, versi, favole), innumerevoli articoli. Il culmine dell’arte di Ivan continuano a sembrarmi le sue canzoni, a quelle dedicherò la maggior parte dei miei sforzi […] Infine quello che vi accingete a leggere è una ricognizione su una vita che è stta straordinariamente fitta di intrecci, perché la vita di un artista impegnato politicamente già lo è di suo, perché il fratello di Ivan, Luciano, è stato un intellettuale centrale per la nascita della nuova sinistra in Italia e ha incessantemente creato relazioni, in quanto incapace fisicamente di stare da solo.
Perché la nostra storia si svolge per larga parte negli anni che, dal 1962 al 1980, hanno visto la più grande partecipazione collettiva che sia mai stata registrata: solo la capillare voracità della televisione e poi il colpo di grazia dell’informatica sono riusciti a domare quelli che Giorgio Gaber definì “anni affollati” […] Forse, come questo tempo, non servirà a nulla e tutto si perderà nel camposanto della dimenticanza. Ma noi, che stiamo aggrappati a un libro o a un disco, sacro o profano, alla Bibbia o al Capitale, a Proust o a Bulgakov, a Bob Dylan o a Violeta Parra, possiamo forse rinunciare all’idea che finché qualcuno racconta le nostre storie abbiamo sconfitto la morte?
In chiusura, a conferma di quanto detto del libro e tanto per dare un’idea delle “radici” e dell’infanzia di Ivan, e anche di cosa il lettore dovrà aspettarsi dalle pagine successive, credo sia giusto riportare una sintetica ed efficace raffigurazione delle figure del padre e della madre del cantautore:
Prima del 1940 le cose andarono così.
Federico detto Ghigo, il Della Mea padre, da quel che ne sappiamo sia da Ivan che da Luciano, era un poco di buono e ciò gli ha guadagnato l’indiscutibile onore di essere il protagonista assoluto della prima canzono scritta e incisa dal figlio. Carabiniere a cavallo, prima semplice poi promosso a brigadiere, superfascista, ladro delle contravvenzioni nonché forse delle buste paga dei suoi camerati, violento, amorale certificato, prodigo, sperperatore delle proprie come delle altrui sostanze, giocatore d’azzardo puttaniere. Una leggenda di famiglia vuole addirittura che usasse le figlie minorenni per adescare gonzi e ricattarli, alcolizzato, barbone, questuante molesto al punto che Luciano lo tenne all’oscuro del proprio matrimonio per impedirgli di importunare anche la moglie Livia con costanti richieste di denaro. Pare però che fosse un gran bell’uomo, finché ne ebbe voglia e possibilità, elegantissimo (“dannunziano” lo definisce Ivan) e dotato di una naturale simpatia: una vera canaglia, nato apposta per orvinare la vita a sé e ai suoi prossimi, cosa che fece puntualmente a partire dalla Gisella, la mamma dei Mea. Lei era una contadina giovane, sprovveduta e assai bella, tanto che un’altra leggenda non verificata vuole che nel 1919, a diciannove anni esatti, avesse conquistato il titolo di Miss Viareggio e poi se ne fosse tornata alla sua vita in una famiglia di mezzadri, giusto il tempo di mettersi nei guai. Ghigo che a vent’anni era una brillane guardia a cavallo, bello ed elegante, riuscì rapidamente a portarsela in camporella, pare che galeotto fosse stato un presente che lui le offrì: non uno scontato mazzo di fiori (robe da ricchi) ma un etto di prosciutto cotto, eh sì, perché per i contadini toscani il prosciutto crudo era sicuramente un alimento non consueto ma nemmeno sconosciuto visto che se lo facevano da soli, invece il prosciutto cotto lo si doveva comprare in bottega e questo ne faceva un genere di lusso. Fa tenerezza questa contadinella bella che si guasta la via per un etto di cotto.1
A. Lega, La nave dei folli, pp. 21-22 ↩