di Sandro Moiso
Stan Steiner, La Raza. Messicani negli USA, Jaca Book, Milano 2019 (prima edizione italiana 1972), pp. 398, 25,00 euro
Certo molta acqua è passata sotto i ponti da quando l’autore, l’americano Stan Steiner, diede alle stampe per la prima volta, nel 1969-70, questa ricerca sulla popolazione di origine messicana presente negli Stati Uniti. Eppure, a distanza di decenni il testo, appena ripubblicato da Jaca Book, non solo ha mantenuto intatto il suo valore documentario, ma sembra avere acquisito una vitalità ancora maggiore dovuta alle nuove e necessarie letture che è oggi possibile dare del suo contenuto e alle riflessioni che da tutto ciò possono scaturire alla luce dei cambiamenti intervenuti nella pratica delle lotte sociali e della loro organizzazione.
Negli anni Settanta fu infatti grande l’attenzione riservata, dai movimenti e dalla cultura dell’epoca, ai fenomeni di lotta ed auto-organizzazione che caratterizzavano i movimenti di protesta e di lotta delle cosiddette minoranze etniche negli Stati Uniti. Black Panthers, Young Lords, Brown Berets, movimenti di liberazione dei nativi americani furono dunque conosciuti, indirettamente sostenuti ed apprezzati nelle loro manifestazioni di lotta (spesso accompagnate dall’uso delle armi).
Ma fu, allora, una lettura ancora sostanzialmente terzomondistica, quasi folkloristica e colorata di esotismo, che non giungeva a cogliere l’estrema attualità e validità di tali forme organizzative e, soprattutto, che non era in grado di coglierne la modernità delle proposizioni, spesso ancora scambiate per semplici nostalgie e memorie del passato.
Steiner (1925 – 1987) è stato insegnante e scrittore, oltre che ricercatore e membro della Società di Storia degli Indiani d’America, del Consiglio Nazionale della Gioventù Indiana e dell’associazione di Storia del West. In tali vesti ha anche pubblicato una raccolta di Scritti e discorsi degli Indiani-americani (con S. Hill Witt – Jaca Book 1974, ultima edizione 2017) e, soprattutto, Uomo bianco scomparirai. Riflessioni e profezie degli Indiani nordamericani sul destino della nostra civiltà, ancora per Jaca Book nel 1995.
Tali ultime due raccolte non si ponevano soltanto un compito di valore esclusivamente documentaristico, ma anche, e soprattutto, quello di fornire alla riflessione collettiva un punto di vista altro sui problemi sociali e ambientali che affliggono la nostra società. Un punto di vista sostanzialmente esterno ai valori e all’immaginario che reggono il paradigma dello sviluppo capitalistico. Ancora oggi estremamente utile e tutt’altro che superato e, tanto meno, inadeguato.
Punto di vista altro che si manifesta anche nel testo appena riproposto da Jaca Book e che, come si è affermato più sopra, porta ancora con sé validi motivi di riflessione su una società divisa in classi in cui, però, spesso i meno abbienti finiscono col condividere con i propri oppressori gli stessi miti e gli stessi valori. Da qui la validità di una testimonianza di una comunità oppressa (quella dei Messicani e dei Latinos emigrati negli Stati Uniti), ma ancora orgogliosa della propria identità e dei propri valori.
Stiamo attenti però, e questo va detto per non rischiare di ricadere negli attuali tronfi e devianti dibattiti su Popolo e Nazione che piacciono tanto ai sovranisti quanto, ancora troppo spesso, a certe frange dei loro oppositori, l’identità e i valori di riferimento sono antecedenti alla forma Stato e alla Nazione. Risalgono alle comunità contadine e indie di un passato che per mille rivoli è giunto fino al cuore della modernità capitalistica.
Un passato in cui il benessere sociale e individuale non si misurava monetariamente (alti stipendi e benefit dovuti alla posizione nella scala gerarchica delle aziende) oppure con il lusso acquisito con una effimera ricchezza (automobili, oggetti di valore oppure conti in banca e consumismo sfrenato), ma attraverso la disponibilità dei beni comuni più importanti (acqua, terra, cibo) per ogni singolo elemento (soggettivo o collettivo) della comunità.
E’ una comunità orgogliosa quella che si racconta nel libro di Steiner. Orgogliosa anche se povera o forse orgogliosa proprio perché ancora povera. E proprio nel Prologo, l’autore ce ne dà un’idea attraverso una storia narrata da Cleofas, il poeta del villaggio di San Cristobal da cui proviene, dal volto scavato dall’aridità e dai venti freddi della sua terra d’origine, ma non duro.
C’erano una volta due uomini. Uno di loro aveva le tasche colme di denaro. Era ricco. L’altro non aveva nient’altro che tortillas nelle sue mani. Era povero. Questi due uomini viaggiavano insieme. Ed essi andavano in molte città, e ogni volta che andavano in un ristorante, l’uomo con le tasche piene di denaro consumava un pranzo abbondante. Quello povero, invece, si sedeva fuori e mangiava le sue tortillas, perché non aveva altro da mangiare.
Ed essi giunsero in un deserto. Era un vero deserto. Non vi era alcuna città e neppure un ristorante!
E l’uomo ricco, con le tasche piene di denaro, era sempre più affamato e non aveva niente da mangiare. L’uomo povero, invece, mangiava le sue tortillas. Le tortillas erano molto seche e molto dure ormai. Ma erano ancora buone da mangiare.
“Mi venderesti una delle tue tortillas?”, chiese l’uomo ricco a quello povero.
“Mangiati il tuo denaro”, rispose l’uomo povero.
E il ricco morì, mentre invece il povero riuscì ad attraversare il deserto.
Ma, come dice ancora Cleofas all’autore, ridendo, questo esempio non può essere compreso dall’Anglo (americano) perché egli comprende solo “Denaro! Denaro! Denaro! Denaro! Denaro! Denaro! Denaro! Denaro! Denaro! Denaro!”1
Non si confonda il lettore, non vi è senso di vendetta nella narrazione, ma piuttosto la sottolineatura di un modello sociale che ha fatto del denaro la misura di ogni cosa. Modello totalmente estraneo al narratore quanto il modello di vita di cui è rappresentante Cleofas può essere totalmente alieno per l’Anglo.
Paradigmi sociali, economici e ambientali totalmente avulsi l’uno dall’altra e che l’ormai decrepito discorso sui modelli di sviluppo e sottosviluppo, fatti per troppo tempo propri da una Sinistra che sta scomparendo con loro, non può più spiegare e nemmeno comprendere.
Un discorso che possiamo ritrovare in tutte le culture altre una volta messe a confronto con il modo di produzione e consumo di stampo capitalistico.
Mi permetto, a questo punto, un breve excursus in un’altra cultura apparentemente così lontana da quella d’origine dei Messicani d’America, quella dei Lapponi, per citare un brevissimo esempio dalla testimonianza di Johan Olafsson Turi, un vecchio del popolo Sami, le cui testimonianze furono raccolte all’inizio del ‘900 dalla danese Emilie Demant, che trascorse due anni con lui nel 1907-1908 a Kautokeino.2
Sono un lappone, ho fatto tutti i mestieri dei Lapponi e conosco ogni aspetto del mio popolo. E ho capito che […] (il lappone) non capisce molto quando sta dentro una stanza chiusa, quando il vento non gli soffia nel naso. Se ci sono pareti ed è chiuso sopra la testa, i suoi pensieri non riescono a scorrere, né si trova bene nei boschi folti dove l’aria è calda; ma quando è in montagna , allora sì che il suo cervello è davvero limpido […] Non ho mai sentito dire che i Lapponi siano venuti da qualche altro posto. Abitavano ogni parte della Lapponia, e quando dimoravano sulla costa non c’era nessun altro abitante, nemmeno là, e loro vivevano bene a quei tempi. E vivevano ovunque anche sul versante svedese, a quei tempi non c’erano stanziali in nessun posto; e loro no sapevano che esistessero altri uomini.
Penso che all’inizio vivessero pescando e cacciando uccelli, renne selvatiche, orsi e ogni animale selvatico. Questo lo credo perché sui laghi in cui i Lapponi di oggi non pescano più, i luoghi adatti alla pesca hanno nomi lapponi […] E poi non si è mai sentito dire che i Lapponi abbiano dovuto emigrare per trovare lavoro. 3
Qui la rivendicazione dell’altro riguarda il nomadismo in terre ritenute estreme per le condizioni climatiche ed atmosferiche, ma rimane indiscusso l’orgoglio di appartenenza ad una comunità che, in questo caso, non conosceva confini, autonoma e indipendente in tutti i sensi. Altra, ancora una volta, rispetto all’esistente successivamente imposto come unico modello di vita.
Anche in questo caso, comunque, testimonianza di un popolo espropriato e ridotto a ruoli marginali, così come gli uomini e le donne appartenenti alla Raza, la comunità chicana originaria, dopo aver visto i territori della California, del Texas, del Nevada, dell’Arizona , dello Utha e di parte del Nuovo Messico espropriati dai nuovi conquistatori yanquis con le guerra della metà dell’Ottocento poi si tovarono ad essere trattati come migranti e impiegati nei lavori più umili e sfruttati sul suolo degli Stati Uniti.
Certo, oggi sappiamo che rispetto alle testimonianze e alle memorie raccolte da Steiner molte trasformazioni economiche e sociali sono avvenute, mentre il confine tra Stati Uniti e Messico non è più soltanto un terreno di scontro quotidiano tra migranti e muri veri e apparati repressivi messi in essere dal governo degli Stati Uniti, ma anche quello, forse peggiore, tra le differenti affiliazioni dei narcos. Inevitabile sviluppo di un sottosviluppo affascinato dalla ricchezza e dal denaro facile. Una sorta di peste Anglo diffusasi tra comunità impoverite dalla perdita della memoria e dal diffondersi di nuovi lavori sempre sospesi tra legalità relativa (maquiladoras) e illegalità totale (traffico di stupefacenti, prostituzione), le cui prime vittime sono soprattutto le donne (specialmente se giovani).
Eppure, eppure….
Nell’America di Trump e in un Occidente ridotto al lumicino delle sue promesse, anche di Sinistra, ritrovare la memoria e le esperienze di lotta e organizzazione dei messicani immigrati negli USA degli anni ’70 può avere una grande importanza ancora oggi.
Non solo per i Chicanos che in seconda o terza generazione hanno perso la memoria dei loro avi e dei loro predecessori e della loro organizzazione politica, spesso antagonista al sistema, nei barrios, portata avanti nel nome di Zapata, Villa o Cesar Chavez, ma anche per noi.
Troppo spesso inchiodati da una concezione del mondo che non dovrebbe più appartenerci, ma che attraverso infinite e spesso invisibili maglie ideologiche ancora ci opprime.
Non in nome di una predicazione evangelica che per troppo tempo ha giustificato le imprese del colonialismo e del capitalismo, ma della riscoperta di valori comunitari che della condivisione piena dei mezzi di produzione e riproduzione e del rispetto degli elementi fondamentali dell’ambiente che ci circonda (l’acqua, soltanto per citarne uno) facevano il loro modello costituente.
Senza Stato, senza Denaro, senza Partito o altra rappresentanza che non fosse quella diretta della comunità stessa e dei suoi membri. E in cui era fondamentale il contributo delle donne, attraverso la cui schiavitù e distruzione dell’autonomia è passata anche quella della comunità di origine.