di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Sébastien Louis, Ultras. Gli altri protagonisti del calcio, Meltemi, Milano, 2019, pp. 398, € 25,00

Non di rado affrontato guardando ad esso attraverso il prisma della devianza, o raccontato in maniera apologetica, il mondo ultras è un fenomeno complesso che merita di essere studiato accuratamente non fosse altro perché si tratta di un’esperienza auto-organizzata che nel corso del tempo ha saputo coinvolgere decine di migliaia di individui tanto nelle aree metropolitane, quanto nelle piccole cittadine di provincia.

Sébastien Louis ricostruisce e racconta la storia del movimento ultras italiano attraverso un approccio pluridisciplinare avvalendosi, inoltre, di un importante lavoro svolto sul campo, fatto di assidue frequentazioni degli spalti, come testimoniano le interviste ai tifosi collocate in coda al volume.

Sin dal titolo il libro suggerisce una delle chiavi utili a comprendere l’incredibile longevità del fenomeno ultras italiano: il desiderio di protagonismo. Il non voler essere semplici spettatori dell’evento sportivo, insieme al bisogno di una socialità genuina, sono sicuramente tra gli elementi che hanno prolungato la vita di un modo ultras che, al pari della società italiana, è comunque cambiato parecchio nel corso dei decenni.

La nascita dei primi club di tifosi moderni risale all’inizio degli anni Cinquanta, a volte per volontà delle società sportive stesse, altre per l’iniziativa della stampa o di esercizi commerciali. Nel corso del decennio successivo, quando il calcio italiano avvia il suo processo di professionalizzazione, che lo porta a diventare un vero e proprio spettacolo di massa, sorge il bisogno di dar vita ai primi coordinamenti tra le tante associazioni di tifosi nate nel frattempo.

Nel corso degli anni Sessanta alcuni raggruppamenti di tifosi si contraddistinguono per l’esuberanza dei loro iscritti: si tratta di giovani che intendono manifestare il sostegno alla propria squadra criticando la passività degli altri club. È così che si pongono le basi che porteranno al futuro mondo ultras.

Se la nascita del termine “ultras” resta ancora terreno di contesa tra le tifoserie, è comunque attorno ai primissimi anni Settanta che fa la sua comparsa sulle pagine dei giornali e sugli spalti. Replicando il clima politico dell’epoca, scrive lo studioso,

gli ultras mescolano l’impegno militante e la fede per la loro squadra, adottando una retorica d’ispirazione politico-militare: brigate, commandos e, ovviamente, ultras. Sugli spalti, tifando, mostrano un’attitudine che è debitrice di quella sviluppata nel ventennio precedente da club di tifosi classici ma che si distingue per una serie di caratteristiche uniche: giovane età, forte senso d’identificazione con il territorio rappresentato dalla posizione sugli spalti, striscioni dai nomi guerreschi, una maniera di vestirsi del tutto originale e la volontà di seguire la partita in un modo molto più dinamico ed eclatante (pp. 38-39)

Nel corso della seconda metà degli anni Settanta si moltiplicano queste forme di aggregazione e se prima della nascita di questi gruppi gli incidenti all’interno degli stadi erano direttamente legati alle vicende sportive e all’arbitraggio, ora i fatti violenti riguardano sempre più spesso l’antagonismo tra le opposte fazioni di supporter. Nel corso del decennio sono frequenti anche le invettive dei gruppi ultras nei confronti di chi siede nelle tribune e se in generale le curve sono composte da un pubblico quasi esclusivamente maschile, in alcune tifoserie, come quelle del Torino o della Sampdoria, è presente una nutrita componente femminile.

Negli anni Settanta, ad incidere sull’immaginario e sulla condotta di questi giovani tifosi, argomenta l’autore, sono tanto l’estremismo politico italiano, quanto il fenomeno degli hooligan inglesi. All’inizio del decennio alcuni gruppi italiani inviano persino piccole delegazioni in Inghilterra per studiare un modello di tifo che verrà presto mitizzato, come testimoniano i tanti anglicismi introdotti sugli striscioni delle curve italiane.

Esistono comunque notevoli differenze tra i gruppi anglosassoni e quelli italiani; innanzitutto, sostiene Louis, mentre i primi provengono spesso dalla classe operaia, il movimento ultras italiano risulta invece più interclassista. Inoltre, continua lo studioso, mentre il ribellismo dei giovani britannici tende ad esprimersi attraverso subculture e contro-culture, in Italia riflette piuttosto il clima di tensione politica che vive il paese.

Sebbene siano diversi i militanti politici che frequentano gli stadi, le loro formazioni si disinteressano del mondo dei tifosi. Secondo lo studioso, tendenzialmente i giovani supporter sono in realtà scarsamente attivi politicamente, tanto che nei loro gruppi allo stadio convivono individui di diversa inclinazione politica.
Nel corso degli anni Settanta le denominazioni adottate dai gruppi del tifo organizzato più acceso tendono a rifarsi all’universo politico-militare dell’epoca al fine di mettere in scena una sorta di battaglia ritualizzata ma, più in generale, viene fatto ricorso ad ogni simbologia capace di risultare provocatoria senza preoccuparsi granché del significato d’origine.

Con la loro nascita, gli ultras cambiano la fisionomia degli stadi italiani; la curva diviene il simbolo di un modo diverso, estremo, di vivere la partita che permette agli adolescenti di viveresensazioni forti. «In più, la volontà di autonomia propria di questa generazione vi trova lo spazio per creare delle zone franche che permettano agli adolescenti di emanciparsi dal controllo familiare». (p. 56)
La curva diviene simbolicamente uno “spazio sacro”, un territorio da difendere dalle altrui intrusioni. La stessa polizia si limita a stanziare agli accessi delle curve entrandovi soltanto in caso di gravi disordini. In trasferta il settore occupato dagli ultras ospiti diviene a sua volta zona franca immediatamente delimitata simbolicamente dagli striscioni.

Nel decennio 1980-1989 le curve diventano il santuario dei gruppi ultras che v’impongono un codice di condotta. Quest’insieme di norme regola l’equilibrio del settore e i suoi rapporti con gli altri tifosi nel resto dello stadio. […] Il tifo è pianificato in modo razionale: all’inizio delle partite vengono eseguite delle coreografie che esigono un’organizzazione rigorosa. (p. 60)

Nel corso degli anni Ottanta, sostiene l’autore, non esiste più la spontaneità del decennio precedente: tutto è sottoposto a una rigida distribuzione dei ruoli. «A differenza di quello d’oltremanica, l’Italia propone un modello di organizzazione d’intrattenimento diretto con autorità dai leader che scelgono i canti e gli slogan da far intonare alla curva intera. Lo stesso avviene per quanto riguarda gli spettacoli colorati che prendono vita nelle curve, sono oggetto di una concertazione pianificata durante la settimana precedente la partita» (p. 61).

Dunque, in Italia, le curve occupate dagli ultras diventano nel corso del decennio «una zona libera e autogestita con regole di coabitazione che superano spesso i limiti della legalità. La curva accoglie tutti: dal proletario al figlio di buona famiglia, dall’imprenditore al delinquente. In curva, i comportamenti asociali – violenza, consumo di droghe e alcol – sono accettati e a volte anche valorizzati». (p. 62)

Anche grazie al successo della Nazionale ai Mondiali del 1982, la passione per il calcio aumenta in Italia ed i gruppi ultras si rafforzano, tanto che, ad esempio, la Fossa dei Leoni milanista passa dal migliaio di aderenti di inizio anni Ottanta ai 15.000 di inizio anni Novanta.
Per certi versi al drastico diminuire della militanza giovanile nelle formazioni politiche fa da contraltare l’incremento esponenziale dei giovani nei gruppi del tifo estremo organizzato. «Gli ultras che subentrano all’inizio degli anni Ottanta non sono imbevuti di politica come la generazione precedente. Il bisogno di associarsi a una causa, caratteristica comune a ogni generazione, si concretizza per una parte dei ragazzi nelle curve dello stadio». (p. 112)

Mentre gli effetti dell’eroina sui giovani degli anni Settanta e Ottanta si fanno sentire anche negli stadi, allo spontaneismo si sostituisce velocemente un’organizzazione sempre più strutturata militarmente ed economicamente. Agli slogan semplici e diretti degli anni Settanta, nel nuovo decennio si sostituiscono cori sempre più elaborati che, negli anni Novanta, arrivano ad essere essere sempre più autoreferenziali, volti a glorificare il gruppo o il movimento ultras.

A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta aumenta notevolmente il numero dei tifosi che seguono in trasferta la squadra e ciò determina un aumento degli episodi di violenza contro tifosi avversari, agenti e beni materiali. Il più delle volte gli scontri si danno fuori dagli impianti sportivi, soprattutto durante il corteo che porta dalla stazione allo stadio.

La rivolta generazionale che si esprime negli anni Settanta, attraverso un impegno politico di estrema sinistra o di estrema destra, lascia spazio nei decenni successivi a un attivismo sfrenato all’interno dei collettivi ultras, che diventano per alcuni una ragione di esistenza e che permette ai più attivi di assumere un ruolo da protagonisti, conquistando una visibilità che non avrebbero mai avuto nella vita quotidiana. L’appartenere a questa subcultura diventa quindi più importante del motivo per cui ci si reca allo stadio, i vari slogan dei diversi gruppi lo chiarificano: “Vivere Ultras per vivere”, “Tifosi del nostro ideale” o ancora “Sette giorni su sette ultras”. Per gli Ultras, l’incontro di calcio non dura soltanto novanta minuti ma tutta la settimana. (p. 82)

Negli anni Ottanta e Novanta al posto dei riferimenti politici, gli ultras manifestano sempre più spesso ed in maniera maniacale l’identità cittadina. A caratterizzare gli anni Ottanta italiani è anche il diffondersi di diverse sottoculture giovanili di provenienza anglosassone; gli stadi sono toccati soprattutto dal fenomeno degli skinhead.

È attraverso la musica che questo stile si diffonde nelle principali metropoli del Centro e del Nord del paese. Sin dal 1983 l’estrema destra cerca di imporre le proprie idee all’interno di queste formazioni, più per spirito d’imitazione del movimento inglese che per reale strategia politica. Come in Gran Bretagna, solo una minoranza di skinhead si schiera su posizioni neofasciste e la stampa gli affibbia l’appellativo di “naziskin”. Soltanto nella seconda metà degli anni Ottanta i primi skinhead entrano negli stadi italiani e all’interno del movimento ultras, essi trovano una dimensione ideale che regala loro una dimensione epica necessaria per uscire dalla cornice monotona della vita quotidiana. Gli ultras apprezzano gli skinhead per l’attaccamento radicale al loro modo di essere e per la loro predisposizione allo scontro. (pp. 116-117)

Se alcune tifoserie sono influenzate dal fenomeno dei Centri sociali legati all’estrema sinistra, è innegabile che nelle curve a diffondersi è soprattutto un immaginario neofascista. «Gli ultras sono più attratti da un’ideologia che propone l’appartenenza a una formazione, l’essere pronti a battersi per essa e che ripiega su una visione binaria della società. Il modello del gruppo di estrema destra è affascinante perché propone un’esaltazione della violenza e del campanilismo nonché una ribellione contro il “politicamente corretto”. Il ritorno trionfale dell’identità locale nel corso degli anni Ottanta contribuisce allo sviluppo di questo movimento». (p. 120) Non a caso si assiste ad un aumento importante di episodi xenofobi nel mondo sportivo, solitamente minimizzati dalle società, dai media e dalla politica che anzi, sempre più frequentemente, cavalca il nuovo clima che si è venuto a creare nel paese per ottenere consenso elettorale. In tal modo comportamenti discriminatori e xenofobi finiscono spesso per non suscitare nemmeno semplici reazioni di sdegno.

Le opinioni radicali espresse dagli ultras in un momento in cui il potere decisionale dei governi ha perso parte della sua importanza a favore del potere economico – con politiche che si susseguono e si somigliano nonostante le alternanze – sono un modo per rifiutare il sistema imposto. La tentazione di accontentarsi di risposte semplicistiche è molto forte all’interno di un movimento giovanile spesso manicheo nelle sue analisi e influenzabile dai responsabili che militano all’interno di formazioni radicali. (p. 128)

Secondo Sébastien Louis, occorre però ridimensionare l’idea secondo la quale alla fine degli anni Ottanta si ha un ritorno della politica negli stadi: generalmente la politica tocca soltanto una minoranza, mentre i più continuano a non esserne attratti.

Nel corso degli anni Ottanta, parallelamente all’aumentano dei sistemi di controllo e di repressione nei confronti delle frange violente del tifo, cresce l’astio degli ultras nei confronti delle forze di polizia che divengono un nemico comune a tutti i gruppi. Attorno alla metà del decennio successivo la repressione nei confronti dei gruppi ultras si intensifica, e per meglio sfuggire al controllo nascono, sul modello inglese, piccoli gruppi dall’abbigliamento meno connotato che, delegato alle formazioni classiche il compito di organizzare il tifo, si preoccupano di organizzare scontri sempre più violenti con i rivali.

Il volume ricostruisce puntualmente l’evolversi legislazione e delle modalità repressive a proposito del mondo ultras. «Per arginare la violenza e soddisfare l’opinione pubblica, dal 1989 in avanti entrano in vigore diverse leggi, senza che, la maggior parte delle volte, queste siano valutate per la loro lungimiranza. Addirittura alcune di queste misure talvolta contravvengono la Costituzione perché limitano i diritti dei cittadini». (p. 208)

Con l’inizio degli anni Novanta diversi gruppi storici cessano le attività, le curve si dividono in tante fazioni non di rado in lotta tra di loro per assicurarsi il controllo degli spalti e, in non pochi casi, dei redditizi traffici che vi ruotano attorno, come dimostrano diversi casi di cronaca recente.

Una parte degli ultras non si riconosce più quindi nella linea guida delle vecchie formazioni e preferisce creare nuove strutture. Si assiste all’unione di qualche pioniere con i giovani desiderosi di mettersi alla prova, in nome della famigerata mentalità ultras, una filosofia che lascia ampio spazio a una visione romanzata e mitizzata dei codici che regolano il movimento. (p. 234)

La svolta fondamentale che caratterizza gli anni Novanta, sostiene l’autore, è però legata all’accelerazione che prende il processo di spettacolarizzazione e mercificazione del mondo calcistico. Nel corso di tale decennio il calcio anglosassone si ristruttura in modo da aumentare notevolmente le capacità finanziarie delle squadre e da operare un ricambio di pubblico negli stadi.

In questa concezione mercantile del calcio, il tifoso è considerato consumatore e tutto viene pianificato per metterlo in condizione di spendere il massimo possibile in nome della sua passione, sul modello nordamericano della Nba. Il pubblico originario, proveniente principalmente dalla classe operaia, è escluso dagli stadi a causa dell’aumento vertiginoso del prezzo dei biglietti, e gli stadi inglesi oggi somigliano sempre più ad asettici centri commerciali. La ristrutturazione degli impianti in Inghilterra, all’inizio degli anni Novanta, in seguito al rapporto Taylor, corrisponde al passaggio da uno sport riservato a un pubblico essenzialmente popolare a un’attività riservata ai ceti che hanno goduto della ripresa economica. (p. 272)

Anche in Italia quello inglese diviene presto il modello da seguire: massimizzazione del profitto, diversificazione delle entrate e sviluppo degli investimenti, diventano le nuove parole d’ordine, mentre decine di club storici italiani falliscono uno dopo l’altro. A deteriorarsi è anche il rapporto tra ultras e giocatori, considerati ormai come mercenari.

Con la crescente deriva affaristica del calcio, gli ultras hanno sempre più la tendenza a considerarsi come i difensori di una certa idea di calcio […] Per gli ultras le “tradizioni” vanno rispettate, che siano i legami che uniscono la città alla squadra, i colori ufficiali della stessa o il rispetto della sacralità della domenica per giocare le partite. Il calcio che difendono è quello “popolare”, come amano definirlo, che si contrappone al modello commerciale anglosassone. Essi condividono la loro lotta contro la repressione e la commercializzazione a oltranza del calcio. Gli ultras hanno capito perfettamente che le manovre dei dirigenti sportivi mirano a riprendere possesso delle curve che sono state, per troppo tempo, lasciate nelle mani dei tifosi organizzati. Il calcio è ormai parte dell’industria del tempo libero. […] Per sviluppare la commercializzazione del prodotto calcio, in tutte le sue varianti, c’è bisogno di un pubblico docile. Gli ultras sono un ostacolo per questo tipo di industria; bisogna, dunque, sviare l’attenzione dell’opinione pubblica usando la sicurezza come solo e unico pretesto allo spiegamento massiccio delle forze dell’ordine per, in realtà, assicurarsi nuovamente il controllo delle curve. (pp. 286-287)

È in tale contesto che muove i primi passi il fenomeno del “calcio popolare” in opposizione al calcio professionistico.

La repressione implacabile negli stadi e gli innumerevoli scandali spingono gli ultras a disertare gli stadi dove si esibiscono le squadre professionistiche per impegnarsi in un’avventura ritenuta più umana; questi club appena nati rappresentano qualcosa di più di un semplice progetto sportivo. […] Al di là della mera pratica sportiva, organizzano dibattiti, eventi culturali, s’impegnano nella comunità locale. (p. 283)

Anche se quella degli ultras è una storia piena di contraddizioni e di pagine buie, resta il fatto che, pur nella sua radicale trasformazione, nel mondo del tifo più acceso italiano, indipendentemente dai giudizi di valore, è ravvisabile anche una risposta a due esigenze che nemmeno la repressione ha saputo cancellare: il desiderio di partecipazione ed il bisogno di socialità. Difficile dire se queste esigenze sapranno sopravvivere al processo di mercificazione che vorrebbe, in ultima istanza, trasformare gli appassionati ed i tifosi in consumatori, quando non direttamente in merci. Probabilmente il crescente successo dello “sport popolare” si spiega anche con quel bisogno di socializzazione e di protagonismo a cui il calcio spettacolarizzato e mercificato attuale sembra non riuscire più a rispondere.


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