di Mauro Baldrati
Ieri mattina sono uscito di casa verso le 10,30. Prima di partire per la quotidiana passeggiata nel parco fluviale, sono entrato nel giardinetto condominiale, dove ho piantato una pesca nettarina e una ghianda in due vasi. Sono nati un pesco, che ha quattro frutti di piccole dimensioni rispetto a quelli in commercio, e una quercia, che cresce molto più lentamente rispetto al pesco.
Ho controllato i terricci: ancora umidi. Li ho invitati a “tenere botta”, ho detto loro “siete bellissimi”, e mi sono avviato verso il cancelletto.
Quando stavo per uscire è arrivata una ragazza. Camminava svelta, aveva una faccia sorridente, si è avvicinata dicendo “scusi, scusi”, e ha attraversato il cancello, senza esitare, coi suoi modi sciolti.
Era un po’ anomalo questo suo entrare di getto, senza chiedere permesso, eppure non mi dava nessun fastidio. Recepivo, per così dire, quella sua naturalezza, quella sua agilità. Era alta circa un metro e 65, di corporatura robusta, con grossi seni. Indossava una maglietta bianca attillata e panta dello stesso colore. I capelli, neri, erano tagliati a caschetto.
“Sa dov’è l’Ufficio del Lavoro?” ha detto, con accento straniero. Forse latino americano. L’Ufficio del Lavoro. Ma cos’è? Le ho detto che all’incrocio giù in fondo, sulla destra, c’era un’agenzia interinale, altri uffici del lavoro non li conoscevo.
“Ah!” ha detto lei. “Io cerca lavoro, pulizie, tutto!”
Ho ripetuto che non sapevo di altri uffici del lavoro, mentre lei ripeteva che cercava “lavoro, lavoro.” Non c’era nulla di ansioso nelle sue parole, nessuna urgenza. Era in cerca. Era in movimento. E aveva fiducia. In se stessa, forse.
Poi, d’un tratto, mi ha abbracciato. Così, si è avvicinata e mi ha buttato le braccia al collo. Doveva alzarsi sulle punte, per avvicinarsi con la faccia. Perché voleva parlarmi. Voleva sussurrarmi in un orecchio. Ho sentito il suo alito caldo, la sua voce che bisbigliava: “Ti lascio il mio numero di telefono. Lo vuoi il mio numero di telefono? Eh? Puoi chiamarmi quando vuoi…”
Io sentivo i suoi seni, grossi e morbidi contro il petto. Sentivo tutto il suo corpo che aderiva al mio. Si muoveva svelta, come un animaletto. Le ho detto “no, no, scusa, non sono interessato a quella cosa lì”. Avevo capito che si stava offrendo, stava cercando di prostituirsi.
Lei si è staccata, ha fatto come una giravolta, come un passo di ballo, ha detto qualcosa che non ho capito e mi ha di nuovo abbracciato. “Dai, ti lascio il mio numero. Scrivilo. E poi chiamami.”
Chissà perché mi è venuta in mente quella canzone di Blondie, “Call me”, che mi piaceva un sacco (la canzone e anche lei, Debbie Harry). Mi divertiva quella sua mobilità, quel suo bisbigliarmi all’orecchio, anche altre parole che non capivo. E mi piaceva il suo calore, il contatto dei suoi seni contro il petto.
Però, insomma, non avevo intenzione di beneficiare dei servizi di una prostituta, anche se, mi pareva, non professionista; anche se, in qualche modo, c’era un che di allegro e di gioioso nel suo agire.
Così mi sono divincolato, lentamente, ridendo, dicendo “no, grazie, lascia stare, non sono interessato”, e ci siamo staccati.
Lei sembrava aver capito. E’ uscita dal cancelletto, ha detto “Va bene. Grazie. Allora ciao.”
“Ciao” ho detto, e mi sono avviato con passo veloce verso il baretto, per il caffè mattutino.
Camminavo sciolto, ridacchiando tra me, ripensando alla ragazza. Mi sono girato, era sparita.
Sono arrivato al baretto, ho ordinato il caffè americano. Mi sono sfilato gli occhiali da sole e, come faccio sempre, ho inserito la stanghetta nell’orlo della maglietta.
E qui ho sentito qualcosa di strano. Qualcosa di anomalo.
Non c’era il doppio contatto: con l’orlo della t-shirt e con la collana. Cerco sempre il doppio infilo, perché gli occhiali sono più stabili. Ma non c’era la collana. La collana d’oro di mia nonna, che porto sempre al collo, non c’era.
Un attimo vuoto mentale. Com’era possibile? Quella mattina avevo fatto la doccia, ma non l’avevo sfilata. Non lo faccio mai. Eppure non c’era. E doveva esserci. Doveva.
Era stata la ragazza, certo. Un colpo di mano incredibile. La collana di mia nonna, del peso di un etto, aveva un meccanismo di chiusura complesso: una minuscola levetta che andava spostata per sfilare il microscopico occhiello. Spesso dovevo provare più volte, per riuscire ad aprirla. Lei nel primo abbraccio, mentre mi sussurrava nell’orecchio, aveva osservato il meccanismo, e nel secondo l’aveva aperto.
Una professionista. Non solo per la destrezza, ma anche per la qualità dell’approccio. La trappola chimica per un maschio. Infallibile.
L’allegria è svanita di colpo, come se una folata d’aria gelida cacciasse via un dolce tepore. Un vortice di sensazioni: essere preso in giro, essere caduto come un dilettante in suo potere, mentre mi manovrava come un burattino, mentre mi ipnotizzava come un cobra. Una predatrice e la sua vittima. Una dose di rabbia, ma non potevo non ammirare la sua precisione e la sua determinazione. E anche il suo coraggio.
Fatto sta che dovevo presentare la denuncia. Metti il caso che venisse ritrovata una collana così e così esisteva la possibilità – remota – di ritrovarla. E la collana della mia amata nonna volevo ritrovarla. Continuavo a toccarmi il collo, era atroce sentire quella pelle liscia, senza la presenza della catenella. Avevo anche guardato le quotazioni dell’oro, risultava avere un valore di circa 3000 euro. Un bel colpo, sia per me sia per la ladra. Ma era soprattutto il valore affettivo che mi faceva soffrire.
Il pomeriggio sono andato alla stazione dei carabinieri, dove mi ha ricevuto una ragazza bionda, piuttosto carina e dai modi insolitamente marziali, la quale, non appena ho precisato che la ragazza mi aveva abbracciato, ha detto: “E lei aveva un orologio?”
Aveva già capito. Tutto già schedato, verificato, archiviato. Mi ha mostrato un sacco di foto di donne, tutti primi piani, ma era impossibile capirci qualcosa. Ho scoperto di non ricordare quasi nulla della fisionomia della ragazza, a parte i seni (che però non ho descritto), i capelli neri e la maglietta bianca
La cosa più buffa, diciamo così, era che tutte le foto erano raccolte in una cartella dal titolo “Tecnica dell’abbraccio”.
Quando sono uscito dalla caserma, e sono risalito in macchina per fare la spesa all’Esselunga, continuavo a pensare alla tecnica dell’abbraccio. Una forma di alta specializzazione. La predatrice individua la vittima. La predatrice deve avere la certezza quasi assoluta che l’attacco andrà a buon fine. In questo sta la sua professionalità. Il suo successo. Se non è sicura della vittima, per la tipologia della stessa, per le condizioni ambientali, non attacca.
E con me aveva capito che andava sul sicuro. Mi aveva valutato, e aveva deciso che ero una vittima affidabile.
E allora non ho smesso di chiedermi: perché?
Perché?
Perché IO?