di Gioacchino Toni
Shahram Khosravi, Io sono confine, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 240 , € 18,00
«Le frontiere sono un problema per i poveri. Perché i ricchi possono sempre accedere a un mercato legale per superarle» Shahram Khosravi
Convinto che le “pratiche di frontiera” siano “pratiche coloniali” di controllo delle popolazioni, basandosi sulle sue esperienze di viaggio e sui “racconti di confine” altrui, l’antropologo iraniano Shahram Khosravi approfondisce non solo la natura dei confini ed il loro utilizzo politico, ma anche le modalità ed i significati della loro violazione da parte di esseri umani.
Oltre a mettere in luce come la regolamentazione della mobilità segua logiche di selezione sociale improntate alla discriminazione di sesso, genere, razza e classe («Supera il confine soltanto chi è utile, chi è produttivo»), l’autore si sofferma su come i confini siano anche spazi di opposizione e di resistenza. Se le frontiere finiscono per produrre nuove soggettività (segnalando «che chi sta dall’altra parte è diverso, indesiderato, pericoloso, contaminante, persino non umano»), non di meno anche chi viola tali frontiere, sottolinea Khosravi, produce a sua volta nuove identità.
Io sono confine è uscito in lingua inglese nel 2010 con il titolo ‘Illegal’ traveller. An auto-ethnography of borders proprio con l’intenzione di palesare, attraverso l’uso del termine “traveller” (“viaggiatore”) al posto di “migrante” o “profugo”, la ferrea distinzione gerarchica introdotta dall’attuale «regime delle frontiere alla mobilità»: esistono viaggiatori “qualificati” (turisti, espatriati, avventurieri) e viaggiatori “non qualificati” (migranti, profughi, persone prive di documenti).
Attraverso il libro, l’autore non intende raccontare il calvario di un profugo, bensì parlare politicamente dei confini e di coloro che li violano. Una volta constatato come l’industria delle frontiere sia ormai diventata un business di proporzioni colossali, l’antropologo iraniano invita a cogliere in ogni confine tra Stati anche, almeno in certa misura, un confine di classe. «Non sorprende che i più insanguinati siano quelli tracciati tra il mondo ricco e quello povero. Il regime delle frontiere punta a tenere le persone “al loro posto” all’interno della gerarchia di classe. Le pratiche di confine come modalità per tenere sotto controllo la mobilità dei lavoratori sono cruciali per preservare la sperequazione salariale tra cittadini e non-cittadini, tra il Nord globale e il Sud globale».
Se da un lato le frontiere impongono l’immobilità, dall’altro, sostiene Khosravi, «esiste un secondo meccanismo di controllo della società che opera attraverso una costante mobilità forzata. Le persone sono infatti costrette a un andirivieni infinito non solo tra paesi, legislazioni e istituzioni, ma anche tra campi di accoglienza e campi di espulsione, tra richieste d’asilo e ricorsi contro le deportazioni, tra riconoscimenti provvisori e ritorno alla clandestinità, tra un periodo d’attesa e l’altro. È una circolarità perpetua in cui si vive in uno stato di “non arrivo”, di radicale precarietà o, per usare l’espressione di Fanon, di “ritardo”».
Di fronte al tentativo neo-coloniale di presentare i “muri-frontiera” come naturali, senza tempo (negando così il loro essere soggetti al cambiamento storico), risulta indispensabile storicizzare ogni confine al fine di «denaturalizzare e politicizzare ciò che l’odierno regime delle frontiere ha naturalizzato e spoliticizzato».
Il meccanismo della frontiera, ricorda l’autore, non si esaurisce una volta che questa è oltrepassata; gli “indesiderati” continuano ad essere respinti anche dopo aver varcato il confine e a distanza di tempo.
«Il sistema dello Stato-nazione si fonda sul nesso funzionale tra un luogo determinato (territorio) e un ordine determinato (lo Stato), un nesso mediato da regole automatiche per la registrazione della vita, individuale o nazionale. Nel sistema dello Stato-nazione, la zoé, o nuda vita biologica, viene immediatamente tramutata in bios, la vita politica o cittadinanza. La naturalizzazione del collegamento tra vita/nascita e nazione è lampante nel linguaggio. I termini “nativo” e “nazione” hanno la stessa radice latina di “nascere”».
I confini «sono giunti a costituire un ordine naturale in molte dimensioni dell’esistenza umana. Non si tratta più dei semplici limiti di uno Stato». Essi giungono a plasmare l’immaginario, la percezione del mondo, il senso di comunanza e di identità. Tanto che la la condizione di profugo finisce per essere presentata «come la conseguenza di un modo di essere “innaturale”» e chi trasgredisce ai limiti posti dai confini spezza «il legame tra “natività” e nazionalità, mettendo in crisi il sistema dello Stato-nazione». Ecco allora che i migranti privi di documenti e i clandestini che violano i confini vengono percepiti e narrati come «contaminati e contaminanti proprio in quanto non classificabili».
Il discorso e la normativa politico-giuridica, continua l’autore, insieme all’essere umano politicizzato (il cittadino), costruiscono anche «un sotto-prodotto, un “residuo” politicamente non identificabile, un “essere non più umano”. Rimbalzati tra Stati sovrani, umiliati, presentati come corpi contaminati e contaminanti, i richiedenti asilo apolidi e i migranti irregolari sono esclusi e diventano gli scarti dell’umanità, condannati a vivere esistenze sprecate».
Zygmunt Bauman1 ha messo in luce come i moderni Stati-nazione si siano arrogati il diritto di distinguere tra vite produttive (considerate legittime) e vite da scartare (considerate illegittime). Tali “vite di scarto” rappresentano quell’homo sacer del presente di cui parla Giorgio Agamben2 e proprio in quanto tale, il migrante irregolare viene sottoposto tanto alla violenza dello Stato quanto a quella dei privati cittadini.
Il grande merito del libro di Shahram Khosravi è quello di non limitare il ragionamento al sistema di controllo della mobilità degli individui, ma di mettere in evidenza come la questione della mobilità degli esseri umani sia un terreno di conflitto.