di Sandro Moiso
Piergiorgio Bonetti, Per non dimenticarci. L’emigrazione dalla Valle Trompia tra Otto e Novecento, Comunità Montana di Valle Trompia, 2019, pp. 368, 15,00 euro
Paese di santi, poeti e navigatori, ma soprattutto di emigranti è stata e continua ad essere l’Italia.
Eppure questo semplice ed elementare dato sembra sparire del tutto dalla coscienza “nazionale” ogniqualvolta, in tempi recenti, il discorso sfiora anche soltanto il tema dei migranti e delle migrazioni contemporanee.
E come se, al di là delle strumentalizzazioni leghiste e sovraniste, una parte consistente della popolazione italiana, a Nord come a Sud, volesse allontanare da sé lo spettro o il ricordo di un’età di miseria, difficoltà economiche, ricerca di una diversa fortuna oppure di un semplice lavoro che spinse tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ma poi ancora nel secondo dopoguerra, milioni di Italiani ad emigrare in America, in Australia e nel resto d’Europa.
Spettro che ancora si aggira, evidentemente, nella coscienza profonda della nazione e che agita i sonni di coloro che con l’accensione di un mutuo bancario per l’acquisto di una casa in cui vivere oppure che attraverso i “facili” acquisti on line si illudono di aver raggiunto lo status di ‘benestanti’.
Pur sapendo di non esserlo davvero.
Come afferma l’autore del testo nella sua Introduzione:
Negli ultimi venticinque anni l’esplosione del fenomeno immigratorio nel nostro paese, ma soprattutto nelle zone industrializzate del nord dell’Italia, fra le quali la Valle Trompia, ha creato delle tensioni sociali nei confronti degli immigrati, richiamando però allo stesso tempo a molte persone un passato emigratorio non lontano che ha coinvolto direttamente il nostro territorio. Partendo da questo stimolo, dieci anni fa, mi sono posto l’obiettivo di indagare in merito all’emigrazione dalla nostra valle, sia all’interno dello Stato che all’estero […] Per inquadrare la mia ricerca territoriale nel quadro nazionale, ho iniziato il mio studio facendo riferimento ad alcune pubblicazioni di rilievo in questo campo.
Ho poi intrapreso un lungo percorso di ricerca, durato otto anni, che mi ha portato ad esplorare gli archivi storici dei diciotto Comuni attualmente presenti nella valle, comprendenti anche i documenti dei piccoli Comuni soppressi, principalmente nelle categorie esteri, pubblica sicurezza e stato civile. […] Per integrare i freddi dati statistici e cercare di delineare un quadro significativo delle vicende umane, che hanno costituito il fenomeno migratorio, ho ricercato negli archivi comunali le lettere degli emigranti inviate ai sindaci e soprattutto ho effettuato interviste a persone anziane […] E’ stata questa la parte più interessante del mio lavoro, in quanto mi ha messo in diretto contatto con quelle persone che in una società ancora legata alla dimensione paese, non ancora invasa dai mass media e non favorita da trasporti veloci, per motivazioni a volte diverse ma in genere basate sul bisogno, hanno trovato il coraggio di ricercare il benessere anche al di là dei confini nazionali. In questo modo i numeri sono diventati speranze, fatiche, guadagni, delusioni, orgoglio, malinconia e tanto altro.1
Aggiungerei lotte, spesso antifasciste e di classe, considerato che, durante gli anni del regime, emigrazione e dissidenza perseguitata spesso coincisero in molte storie personali, come attestano le biografie di alcuni valtrumplini che all’estero divennero combattenti nella guerra civile spagnola o militanti e organizzatori dei partiti della sinistra francese, come le vite di Pietro Mosè Guerini e di Pietro Angelo Gatta, solo per citarne due, ben dimostrano.
Lotte che prendevano evidentemente origine non solo dalla collocazione politica dei soggetti, ma spesso dallo loro collocazione di classe: operai, minatori, braccianti, talvolta lingére (appartenenti cioè a sacche di nuovi salariati inurbati, spesso sospesi tra occupazione precaria e marginalità sociale). Destino che accomunava questi ultimi, e in grande anticipo, al nuovo proletariato migrante di questi ultimi decenni.
E’ davvero impossibile qui anche solo riassumere la materia complessa e profondamente umana che costituisce l’anima e lo scopo ultimo della ricerca di Bonetti: la ricerca di una memoria, collettiva e individuale, che diventa radice ultima per la comprensione degli effetti dello sradicamento e, allo stesso tempo, della ricostruzione di un immaginario comunitario successivo sia all’abbandono del territorio di origine che al rientro (quando ciò è avvenuto) nello stesso dopo anni di esperienze “altre”.
Memoria, esperienza, vita che, come sottolinea nella sua bella e densa Presentazione Franco Ghigini, spesso trova la sua sintesi in quel canto popolare di cui la Valle Trompia può vantare un grande e significativo patrimonio.
Per avere una storia ci vuole qualcuno che la scriva affinché altri la possano comprendere e narrare. Per avere un’epica ci vuole qualcuno che la canti.
Nell’essere consapevole interpretazione di un vissuto condiviso e nel sostanziarsi di un’esecuzione collettiva il canto popolare è fervido “luogo” di socialità. Ma chi canta non s’impegna solo a spiegare: affidandosi a una rigorosa linearità testuale esprime bisogni, desideri ed emozioni […] Fra i repertori tradizionali lombardi spicca quello, in Valle Trompia, dei cantori e suonatori della Famiglia Bregoli di Pezzaze. Valorizzato in successive ricerche etnomusicologiche […] esso è significativo della variegata tipologia vocale alpina. Si riconoscono antiche ballate e canzoni novecentesche da foglio volante, canti lirici e satirici, canti sociali e politici. Inoltre, vi sono le vivaci musiche da ballo: valzer, mazurke, polke o marce, monfrine o tarantelle. In tale composito repertorio a distinguersi, per eloquenza storia e forza espressiva, è però il corpus dei canti di miniera ed emigrazione, cui doverosamente in queste pagine s’accenna in calce alla serie dei documenti orali. Formalizzatosi nel Novecento, si diffonde con gli spostamenti nei cantieri dei grani trafori italiani ed esteri. Accompagnate dal suono delle fisarmoniche , la spre voci dei Bregoli, appunto minatori ed emigranti, denunciano una drammatica condizione lavorativa e sociale […] “Usìi dall’avansamènto” è la cronaca, dall’esemplare e quasi cinematografica concisione narrativa, di un crollo in galleria e insieme l’asserzione lapidaria di una tragica sorte: “Sangue bresciano ridotto sei così / chi alla tua Brescia a nà siere i all’estero morir”. “Cara moglie” è il rabbioso e accorato messaggio alla persona più amata: “Cara moglie di nuovo ti scrivo / di non darla né ai preti né ai frati / e dalla pure ai più disperati / che nel mondo la pace non han”. “Santa Barbara”, invocazione alla protettrice dei minatori, si risolve in una reiterata denuncia: “Non c’è più medici / nemmeno i professori / che fan guarire / i miei polmoni”. Infine, c’è lo sfrontato e orgoglioso manifesto di “A i dìs che i minatori son lingéri”, a confermare quanto sopra segnalato in merito alla peculiare antropologia dell’emigrante: “Minator io vòi sposar / perché il mondo mi fa girar / e invece il contadin / dove nasce ti fa morir”. Sono canti, quelli dei Bregoli, che si configurano in autentici inni popolari. Essi dicono della tangibile coincidenza di esperienze personali con vicende più grandi. Dicono che l’emigrazione è sì fenomeno interregionale, nazionale e internazionale, ma precisamente condizione di classe. L’epica dei minatori e degli emigranti diviene così epica del proletariato, degli sfruttati del mondo.2