di Jack Orlando
Nel solco della devastazione sociale portata avanti negli ultimi decenni, quelli delle riforme strutturali a tutto vantaggio della messa a profitto della vita, si rendono ineludibili certi nodi dolorosi che lo Stato non è in grado di sciogliere e ai quali il Mercato è ben lungi dal potere offrire una soluzione.
Nel cuore della progressista Europa e dell’opulento vecchio Occidente, un giorno ci si è accorti che si è ricominciato a morire di banali infezioni in corsie di ospedali sovraffollati, che i cassonetti sono diventati risorsa per la sopravvivenza di innumerevoli anziani, che la notte c’è chi muore di freddo su un marciapiede e chi di eroina a diciassette anni.
Il livello di ricchezza che si alza per la “upper class” vuol dire fame e povertà per tutti gli altri.
Così, come sono tornati ad affacciarsi al nostro tempo i fantasmi della penuria, della sopravvivenza e della frustrazione, sono tornati anche gli spettri della rabbia popolare, delle classi pericolose e della loro possibile organizzazione.
È proprio attorno ai bisogni materiali che da dieci anni a questa parte si sono coagulati i conflitti più serrati, quasi sempre a livello locale, tra le strade e le case dei quartieri popolari dove si fanno i salti mortali per mettere assieme pranzo, cena e tetto. Eppure ogni lotta particolare, all’interno del suo contesto specifico, contiene in sé un germe universalistico che trova riscontro in ogni altra vertenza similare, laddove la liberazione dal bisogno materiale coincide con l’aspirazione ad una vita dignitosa.
Il fattore probabilmente più instabile e propulsivo di questo genere di conflitti, agiti specialmente dalle fasce proletarie e sottoproletarie della popolazione, è quello della casa.
Che siano le reti mutualistiche per la difesa degli appartamenti sotto sfratto, i comitati autonomi contro gli sgomberi delle case popolari o i movimenti per il diritto all’abitare che fino a poco tempo fa sono riusciti a offrire risposte concrete e conflittuali tramite l’occupazione di stabili vuoti, quel che è certo è che il tema abitativo è tra quelli più sentiti, nonché una contraddizione insanabile del Sistema Italia. E tutto ciò è particolarmente visibile in quelle città come Roma o Messina, con una storia alle spalle fatta di speculazioni immobiliari, abusi edilizi, baracche e illegalità abitativa diffusa.
Ed è nella città siciliana sullo Stretto che Pietro Saitta ha portato a termine uno studio etnografico assai interessante della lotta per la casa e dei meccanismi di (micro)potere che la muovono.
Prendere le case (Ombre Corte, Verona 2018, pp. 199, euro 17,00) è infatti un’indagine compiuta all’interno di un comitato autonomo di sottoproletari in lotta per avere una casa dignitosa, che mette in luce tanto le distanze e i rapporti tra il mondo dell’amministrazione statale e quello popolare subalterno, quanto le tensioni che soggiaciono al continuo trattare tra l’anima militante più ideologizzata ed i soggetti di riferimento che praticano la lotta.
Di analisi socio-antropologiche dei movimenti sociali ne sono state prodotte parecchie nel tempo, questa ha il suo primo punto di interesse nel doppio sguardo dell’autore: da un lato vi è l’occhio scientifico e distaccato del sociologo che viviseziona i processi di una comunità, dall’altro quello del militante impegnato nella vertenza; ne emerge una sorta di diario di bordo di un’esperienza politica messa però sotto una lente d’ingrandimento e scandagliata a fondo per comprenderne i limiti e le dinamiche.
Uno dei grossi ostacoli su cui molte di queste lotte (e non solo) si sono arenate è la mancanza di una comprensione reale della propria dimensione e la conseguente incapacità di porre una linea strategica che garantisca loro possibilità di evoluzione. Questo, banalmente, anche per mancanza di formazione di quei militanti che si trovano a tessere le fila dei conflitti, avvezzi ad una sorta di antintelletualismo e disinteresse verso l’approfondimento teorico e la sfera della formazione culturale in generale. Quadri senza formazione, azione senza linee guida che non sia quella del più scarno empirismo.
Si pone qui invece la centralità della figura di un intellettuale organico, ossia di quel soggetto/strumento in grado di offrire profondità concettuale ad una dimensione di lotta, osservandola e ponendola a critica utilizzando concetti e categorie proprie di discipline che non siano quella della militanza e del suo mondo. Usare il sapere accademico, scientifico o umanistico, per potenziare e contribuire ad un ars politica fondata anzitutto sulla prassi e che di sola prassi non può vivere. D’altronde anche l’azione migliore non può essere compresa del tutto se non è messa a critica secondo un metodo scientifico.
Vi è poi tutto un dispiegarsi di tensioni collettive ed individuali tipiche di ogni comunità umana e che all’interno dei contesti conflittuali sono quasi sempre ignorate o mistificate: la relazione tra militante e sottoproletario è anzitutto viziata da una forma di utilitarismo che spinge il primo ad utilizzare la fauna dei quartieri per una volontà di potenza congenita ad ogni progetto politico ed è disposto a penetrare e torcere anche la sfera intima dei suoi sodali pur di subordinare ogni energia alla dimensione collettiva ed alla costruzione di soggettività autonome e comuniste. Di contro c’è l’utilitarismo di chi si avvicina a queste esperienze con l’esclusivo interesse di proteggere i propri benefici acquisiti o ottenerne di nuovi, che poco o niente ha a che spartire col background dei suoi referenti politici e che spesso è in netta contrapposizione ideologica. Due anime profondamente diverse di uno stesso percorso e la cui armonia, o convivenza, è frutto di una constante contrattazione in termini di rapporti di forza.
Nelle occupazioni di Messina entrano in gioco i fantasmi, come attore sociale e strumento di contrattazione, presenze che abitano l’occupazione e che interagiscono con i suoi abitanti orientandone le scelte e schierandosi secondo gruppi di potere ed alleanze temporanee. Sono i fantasmi, tramite la bocca di chi riesce a parlarli, che sanciscono quali individui e quali condotte siano ben accetti all’interno dello spazio comune; e che gli spiriti esistano davvero o siano una mera suggestione o menzogna è, in fondo, di secondaria importanza nel momento in cui sono poco più che una finzione ma in grado di produrre effetti tangibili sulla realtà.
Ma al di là del caso specifico e della sua indubbia singolarità, i meccanismi di fondo che sottendono ad ogni progettualità autonoma e ad ogni vertenza che muova dal basso, si ritrovano tutti buttati nero su bianco con ironico cinismo, necessario a rivelare tabù e traumi nascosti, ma anche con una limpidezza scientifica che permette di prenderli, analizzarli, riderci su e poi rimetterli al lavoro nelle scadenze del conflitto.
Per un movimento che ormai stenta a potersi rappresentare in quanto tale e che si accartoccia ad ogni suo slancio sempre sulle stesse contraddizioni, ragionare e (auto)criticare chiaramente sé stesso e le proprie pulsioni è quanto di più necessario per trovare una nuova dimensione autenticamente rivoluzionaria, ovvero riuscire a gettare via l’acqua sporca delle scorie di lavoro, dei livori personali assurti a dimensione politica, della frustrazione di muoversi a tentoni nel vuoto e salvare il bambino, con tutto il suo patrimonio di pratiche, tradizioni e concetti in grado di riportare il conflitto al centro della scena.