Vocabolario Minimo, di autori vari, Wojtek Napoli 2019, pp.164 € 14

[E’ in uscita questa originale antologia per le edizioni Wojtek, racconti la cui genesi parte da una parola inventata. Gli autori sono i seguenti: Alessio Mosca, Francesca Corpaci, Simone Ghelli, Emanuela Cocco, Paolo Gamerro, Lorenzo Vargas, Claudia D’Angelo, Pierluca D’Antuono, Francesco Quaranta, Anna Adornato, Gianluca Bartalucci, Paolo Parente, Alfredo Palomba, Andrea Frau, Andrea Zandomeneghi, Federica Sabelli, Andrea Donaera, Luca Mignola, Guido Zanetti, Simone Lisi, Alfredo Zucchi e Stefano Felici. Di seguito pubblichiamo l’introzione del curatore, Luca Marinelli, e uno dei testi, di Federica Sabelli. MB]

Il Vocabolario minimo delle parole inventate raccoglie molti tra gli autori che, conosciuti negli ultimi anni di redazione sul web, ritengo tra i più interessanti nel panorama delle riviste, autori le cui prove narrative aspetto sempre con impazienza.
L’idea del Vocabolario minimo nasce da due esperienze per me fondamentali. La prima, «Narrandom», blog di racconti illustrati che si basa sul meccanismo del tema obbligato: nel 2016, infatti – «Narrandom» appena fondata con un gruppo di amici – mi sono interrogato sulla possibilità di un contest di racconti in cui gli autori dovessero costruire una narrazione a partire dal significato di una parola inventata. Sentivo che l’idea aveva qualcosa di interessante, anche se ero lontano dal capirne bene il perché.
La seconda, «Verde Rivista»; il vero passo avanti, l’evoluzione che l’ha portata a essere la «Verde» che, ne sono del tutto convinto, è iniziato proprio quando – al di là del lavoro sui testi – la redazione ha cominciato a costruire le basi per la creazione di un vocabolario personale con il quale poter incidere sul mondo che la circonda, quello della scrittura sul web.

Due punti di partenza, dunque: l’invenzione di un significato come chiamata alle armi e la costruzione di un vocabolario inventato. Perché?
Credo di aver trovato la risposta e questa riguarda un possibile ribaltamento del rapporto dialettico tra realtà e parole nel tempo dei social e l’ipotesi che, quando l’esperienza diretta del reale è sovrastata in larghissima misura dall’esperienza dei segni, il materiale che l’autore rielabora si sposta necessariamente dall’oggetto dell’esperienza dei segni, veicolato tramite il segno, al segno stesso: se ciò non accade, l’autore non sta parlando più del nostro mondo.
Ecco, allora, questo esperimento: ventuno autori (con un bonus) si confrontano con le ventuno lettere della lingua italiana (con un bonus) e una categoria grammaticale (senza bonus): inventano una parola a partire da queste lettere, inventano il suo significato, usano questa parola come atomo strutturale per ognuno dei ventidue racconti.

Si tratta di autori diversi tra loro, alle volte anche molto diversi, che voglio ringraziare per la pazienza e per aver accettato la sfida. Si tratta di autori di cui potreste innamorarvi, e per quanto alcuni di loro siano angeli, ci sono certi turbocani rognosi, quindi vi avverto: fate molta attenzione.

ROBBANTARE
di Federica Sabelli

A quel tempo avevo quasi trent’anni e la mia città mi stava inghiottendo. Era una città tremenda, capace di farti scomparire, di farti sentire ogni giorno più vecchio e stanco e solo e perso. E ogni giorno era più difficile riconoscersi e ricordarsi come si era arrivati fin lì e perché ci si era fermati e che ne era stato degli anni passati.
Quando la mia ragazza se ne andò mi resi conto che non avevo più nessuno, perché tutti gli altri si erano fatti una famiglia o erano tornati nelle province da cui venivano e che forse non dovevano essere molto peggio di qui, anche se mi ricordo bene che solo pochi anni prima il pensiero di ritornare a casa li soffocava come poi deve averli soffocati il pensiero di rimanere. Siccome non potevo essere tra quelli che si fanno una famiglia non mi restava che diventare uno di quelli che se ne vanno.
Presi tutto quello che avevo, non era molto, e partii per non restare a farmi inghiottire perché pensavo, almeno all’epoca lo pensavo, che da un’altra parte, in un altro posto, sarebbe stato diverso.

Raggiunsi uno dei miei amici scappati anni prima su un’isola spagnola vicino alla costa africana, così vicina alla costa africana che di notte il vento portava il freddo e la sabbia del deserto. Il mio amico sembrava vecchio e stanco, più di quanto dovessi sembrarlo io. Era felice di vedermi e voleva che gli parlassi dell’Italia e della città tremenda, e quando gliene parlavo mi pareva che qualcosa si affacciasse dai suoi occhi, come un lui del passato, un giovane lui, che si sporgeva per ascoltare meglio. Allora capii che quella città che ci stava facendo marcire tutti era arrivata anche lì.

Non rimasi molto. Un giorno presi le mie cose e gli dissi che sarei partito per vedere il resto dell’isola. Ci salutammo come se non dovessimo vederci più.
Iniziai dalla parte nord, spostandomi lungo la costa in autobus o in autostop, poi raggiunsi il sud, dove nei giorni senza calima si potevano vedere le altre isole, avvolte nell’aria calda e bianche come barche capovolte ricoperte di calcare. Quando capii che i soldi non mi sarebbero bastati, iniziai a dormire nelle case occupate o in spiaggia o nelle grotte, quando ne trovavo qualcuna libera.
Una sera mi avvicinai a degli uomini intorno a un falò per chiedere se sapessero di qualche grotta libera lì vicino. Il mio spagnolo non era buono ma uno di loro, un vecchio, era stato in Italia parecchi anni e parlava la mia lingua. Mi offrì una birra, mi fece sedere vicino al fuoco e mi disse che a mezz’ora da lì, su una montagna vicino a un paese chiamato Aguamansa, c’era una comune che poteva avere una tenda per me. Mi disse che ricordava quel periodo in Italia come il più felice della sua vita. Lo ascoltai senza dire niente.

La comune era a metà della montagna, in una casa abbandonata a cui mancavano due pareti. Vicino c’era un campo dove coltivavano pomodori, lattuga e qualche altra verdura e un piccolo spazio dove accendere il fuoco per cucinare. Alle spalle il bosco con le tende e gli accampamenti. Nella comune c’erano sette tedeschi, una ragazza rumena fidanzata con un palestinese, un palestinese fidanzato con una tedesca, e un italiano. Mi diedero una tenda e non mi fecero domande, potevo restare quanto volevo, se lavoravo.
I tedeschi stavano costruendo una cucina mentre tutti gli altri lavoravano nel campo. L’italiano stava costruendo un bagno alle spalle delle tende. Io decisi di tenermi lontano da lui e di aiutare i tedeschi che a quanto avevo capito, anche se parlavamo soprattutto a gesti, avevano cominciato a costruire la cucina all’inizio dell’estate. Avevano buttato giù una base di mattoni per quello che sarebbe diventato il forno. Dopo qualche giorno mi resi conto che non avremmo mai finito la cucina, perché i tedeschi fumavano erba e bevevano quasi tutto il tempo e parlavano di dove mettere il lavandino o il tavolo e di come avrebbero costruito una sorta di cappa per il fumo, ma alla fine del giorno non avevano fatto nulla. Non che a me dispiacesse, in realtà non avevo voglia di costruire niente. L’italiano invece si dava da fare. Lo vedevo spostare legna e tubi e trascinare sacchi di argilla o cercare pezzi di vetro e mattonelle. Si chiamava M. e aveva una cinquantina di anni. Era l’unico con la macchina.
Mi abituai subito ai ritmi della comune. Ci svegliavamo all’alba e iniziavamo a lavorare quando non faceva ancora troppo caldo, pranzavamo insieme – erano le due ragazze a cucinare – e nel pomeriggio continuavamo a fumare nella casa abbandonata, dove c’era un materasso e due vecchie poltrone. Riprendevamo il lavoro la sera, quando il sole si abbassava, e dopo cena ognuno tornava alla propria tenda. Non c’era elettricità e già alle nove l’oscurità era fitta e non si poteva fare altro che dormire. Non ero abituato a fumare così tanto e non avevo problemi ad addormentarmi subito, ma a volte, quando non riuscivo a prendere sonno e restavo sveglio nella tenda, sentivo dei passi, qualcuno che camminava intorno agli accampamenti, spesso lo sentivo anche a notte fonda, quando mi alzavo per andare in bagno.
Un pomeriggio parlai con M. Mi chiese se volessi vedere come stava venendo il bagno e gli dissi di sì.
Voleva sapere di dove fossi e per un attimo ebbi paura che avremmo iniziato a parlare della città tremenda, ma quando risposi mi parve di vedere il mio stesso disgusto e cambiammo discorso. Era magro e incurvato. Mi chiese se volessi fumare e cacciò da sotto la maglia un sacchetto pieno d’erba. Ci sedemmo su un’altura. Mi domandò se pensavo di restare a lungo. Gli risposi che non lo sapevo.
«Come mai sei qui?».
«L’Italia mi aveva stancato».
Sembrò sollevato di sentire quelle parole.
«Sì, sì», disse, e mi sorrise. Non l’avevo mai visto sorridere a nessuno.
«E tu?».
«Non potevo rimanere. Me ne sono andato due anni fa».
Fumammo e parlammo dell’isola, mi raccontò di spiagge poco conosciute che si trovano al nord, delle case occupate e di come funzionano secondo la legge spagnola, delle grotte e delle comuni. Io gli dissi che non ero abituato al vento che c’era sull’isola e che da quando ero arrivato soffrivo di mal di gola e che i tedeschi non stavano facendo molti progressi con la cucina. Parlammo di tutto ma non parlammo più dell’Italia. Quando ci alzammo lui tornò al suo lavoro e io al mio e non ci rivedemmo fino a cena, e quando a cena lo rividi mi ignorò e io ignorai lui, come avevamo sempre fatto prima di quel giorno. Ma dopo cena, non appena tornai nel bosco, lui uscì dalla sua tenda e mi venne incontro.
Mi chiese se volessi fumare. Aveva in mano un pacchetto per me. Dentro c’erano delle caramelle per la gola, una boccettina blu e il suo girocollo. Mi disse che nella boccettina c’era un unguento fatto da lui contro le zanzare. Lo ringraziai, ma gli dissi che ero stanco e tornai alla tenda. Presi una caramella per la gola ma non indossai il girocollo e non ci pensai nemmeno a mettermi il suo unguento addosso. Fuori era buio e i tedeschi e tutti gli altri dormivano. Sentii di nuovo quei passi, vicinissimi alla mia tenda, e capii che erano i passi di M. Che era lui a camminare di notte nel bosco.
Nei giorni successivi M. e io ci vedemmo per fumare vicino al bagno ogni pomeriggio e ci ignorammo quando eravamo insieme agli altri. Di notte lo sentivo camminare intorno alle tende. Non lo vidi mai ma sapevo che era lui, perché mi aveva confidato, un pomeriggio, di soffrire di insonnia. Un giorno mi chiese come stava andando il mal di gola.
«Non ti ho mai visto con il girocollo».
Sembrava infastidito. Guardò le mie braccia, piene di punture.
«Lo metto di notte. Va molto meglio, grazie», non sapevo perché sentii il bisogno di mentire.
«Potremmo andare a fare un giro dell’isola, la prossima settimana. Voglio prima finire il bagno. Potrei portarti a vedere quelle spiagge su al nord di cui ti parlavo».
Gli dissi di sì. Non mi importava nulla delle spiagge ma quella montagna mi stava annoiando. I tedeschi avevano rinunciato a farsi capire, parlavano in tedesco anche quando eravamo insieme e facevano progetti per la cucina. Mi offrii di aiutare M. con il bagno, così da finire prima. Lui fu felicissimo.

Mentre lavoravamo M. mi parlava della sua vita, del perché aveva deciso di venire su quell’isola, di come era felice di essere in un posto senza altri italiani. Parlava delle spiagge e dei paesi che mi avrebbe mostrato, della sua idea di comune in cui tutti lavorano e hanno voglia di costruire qualcosa, come me, non come i tedeschi.
Non appena finimmo il bagno partimmo con la sua auto. Mi prestò sacco a pelo e coperte perché io non avevo nulla e mi regalò un suo vecchio paio di scarpe per camminare in montagna. Ci fermammo in un supermercato per prendere del cibo per il viaggio e M. insistette per pagare. Mentre facevamo la fila mi indicò il cassiere, un uomo basso con una malformazione al braccio. Mi chiese se avevo notato che sull’isola c’erano molti storpi e persone menomate. Io non ci avevo fatto caso ma dissi di sì.
«È per via degli esperimenti che hanno fatto gli americani sull’isola, negli anni Trenta. Roba di gas e di altre sostanze radioattive. Certe cose lo Stato non te le dice. Anzi, non ti dice proprio niente».
Non risposi, pensavo stesse scherzando o che fosse il fumo.
«Ma tu sei un ragazzo intelligente e li hai notati. Anche io li ho notati subito, quando sono arrivato qui».
Eravamo diretti verso nord su una strada con molte curve. Forse fu per le curve o forse per il fumo ma cominciai a sentirmi agitato e a disagio.
Provai a cambiare discorso. Gli chiesi com’era stato arrivare dall’Italia fino a qui in macchina.
«È andato tutto bene. È stato un lungo viaggio, ma per fortuna adesso sono qui». Fece una lunga pausa. Pensai di dover dire qualcosa ma avevo una forte nausea e volevo solo rimanere in silenzio.
«Ti voglio dire una cosa. Ti voglio dire perché sono venuto qui. Non lo sa nessuno. Gli altri italiani che ho conosciuto erano tutti bastardi. Ma tu sei diverso. Ho avuto parecchi problemi in Italia. Sai, fai un lavoro che detesti. Tutti i giorni. Tutti i giorni. Ti svegli pensando che non vali niente. Io facevo il panettiere. Poi un giorno realizzi che hai perso tempo, che non sei mai stato felice e allora ti sembra di impazzire. Ti sembra che il posto in cui hai vissuto si sia preso tutto quello che avevi e non ti abbia dato nulla in cambio. Io non sono un uomo forte. Quando ho capito queste cose ho provato a buttarmi dal balcone di casa dei miei. Volevo uccidermi. Non è una casa molto alta, ma sarei morto comunque, se mio padre non mi avesse afferrato. E gliene sono grato, adesso. Lì per lì l’ho odiato. Ma adesso sono qui e gliene sono grato. Ora sto bene. Allontanarmi, venire su quest’isola, ha funzionato. Spero che funzioni anche per te».
Iniziavo a sentirmi male. Mi guardai allo specchietto. Ero pallido. Stavamo salendo su una montagna e il vento muoveva la macchina e quel dondolio e le curve e il fumo, tutto mi dava il voltastomaco.
«A volte ci ripenso. A volte quando guardo un burrone, penso: potrei. Sì, potrei. Ma basta quell’idea, voglio dire, la possibilità. Ti senti bene?».
«Sì, sono le cazzo di curve. Mi viene da vomitare».
Volevo scendere. Volevo che M. smettesse di parlare. Volevo scappare ma ero nella sua macchina, e M. stava guidando verso il nulla, verso una montagna in mezzo al nulla.
«Tranquillo, siamo quasi arrivati».
Iniziavo a sudare e non riuscivo a muovermi. Pensai che M. mi avrebbe ucciso. Che ci avrebbe uccisi entrambi.
«Sta per finire, tranquillo. Siamo quasi arrivati».
Lo guardai nello specchietto. Aveva gli occhi rossi. Forse era solo quello, forse avevamo fumato troppo. Abbassai il finestrino per respirare. Era tutto lento e deludente. Perché se stavo per morire era proprio un bel modo di merda.
Poco dopo ci fermammo per fare benzina. Scesi a prendere un po’ d’aria e M. andò a comprarmi una bottiglietta d’acqua. Mentre era dentro ebbi l’occasione di scappare. Ma non feci niente. Camminai per un po’ intorno alla macchina e poi mi risedetti e aspettai che M. tornasse, risalisse e rimettesse in moto. Stavo ancora male ma non avevo fumato così tanto e mi venne il dubbio che M. mi avesse dato qualcos’altro, qualcosa per stordirmi. Volevo solo vomitare o scappare ma sembrava che la strada non finisse più. Stavo attento a tutti i segnali, pensando che prima o poi avrebbe preso l’uscita sbagliata e mi avrebbe detto che stavamo per morire. Ma non prese nessuna uscita sbagliata e alla città mancava sempre meno.
Gli dissi di fermarsi, che mi stavo sentendo male. Mi chiese se non riuscissi ad aspettare: eravamo quasi arrivati ormai e conosceva un posto carino dove mangiare.
Guardai la strada e guardai i segnali stradali e guardai me stesso allo specchietto. Pensai all’Italia e alla mia ragazza che mi aveva lasciato perché all’epoca avevo quasi trent’anni e non avevo preso nessuna decisione nella vita. E pensai che se fossi sopravvissuto l’avrei chiamata e sarei tornato a casa e le avrei chiesto di ricominciare e le avrei promesso di sistemare tutto. La mia vita, noi due.
«Devi pensare che sono pazzo perché ti ho detto tutte queste cose. Lo so che sono cose che non sei abituato a sentire. Di solito non parlo così tanto ma con te sento di potermi aprire. Mi sembri in gamba e voglio che te ne ricordi. Non so perché sei scappato ma spero tu risolva quello che devi risolvere. Sai, le cose che hai lasciato in sospeso, che ti preoccupano. Io ti capisco, io capisco che a volte è necessario andarsene. Siamo simili io e te».
M. si voltò a guardarmi e mi sorrise. Sentivo che non sarei riuscito a sopportare un’altra curva, un’altra di quelle sue occhiate soddisfatte e compiaciute.
«Me ne sono andato perché avevo perso il controllo», dissi. Le parole cominciarono a riempire la macchina di M. senza che potessi farci niente.
«Sì, non riuscivo più a smettere. Di robbantare, intendo. Ormai robbantavo tutto il giorno. Pensavo solo a quello, vivevo solo per quello, sberghavo ma pensavo al robbanto, sgurgavo ma la mia mente era altrove. Volevo robbantare dalla mattina alla notte. E nient’altro. Soprattutto la notte. Era il mio pensiero fisso. La mia ragazza non ne poteva più. Mi ha lasciato perché la situazione era diventata insostenibile, la stava uccidendo. Non accettava più che io robbantassi. Che smettessi di rnellare, di mangiare, di termodermare, di dormire. E in fondo anche io mi odiavo, perché non potevo smettere. Ma era più forte di me».
M. mi guardò di nuovo.
«Anche i miei genitori iniziavano a preoccuparsi. Mio padre, certo, aveva commesso qualche errore da giovane, ma non si era mai spinto fino a quel punto. Addirittura robbantare. Mia madre piangeva e mi chiedeva cosa ci fosse di sbagliato in me. Perché mi ero ridotto così. Mi resi conto che stavo allontanando tutti e stavo facendo del male a me stesso».
Quando smisi di parlare guardai M. negli occhi. Lui abbassò lo sguardo. Non disse niente e non fece niente. Poi fermò la macchina. Eravamo arrivati. Restammo seduti a guardare la città davanti a noi.
«Devo fare alcune commissioni», disse, interrompendo quello strano silenzio. «Ti dispiace se ci separiamo? Non credo ci vorrà molto comunque, ma non voglio costringerti a venire con me, ti annoieresti».
Annuii. Scendemmo dalla macchina e lo guardai mentre si allontanava. Di tanto in tanto si voltava verso di me, quasi per controllare che non lo stessi seguendo. Mi sedetti in un locale vicino e ordinai una birra. Chiesi se potevo usare il telefono e il barista mi indicò una porta sul retro. Mi domandò da dove venissi e io non seppi rispondere. Sul retro c’era un sentiero che portava a una piccola spiaggia a mezza luna con la sabbia nera e finissima. Doveva essere una di quelle che voleva mostrarmi M. Era bellissima e deserta, con qualche scoglio nel mare calmo e piatto.
Tornai dentro e rimasi ad aspettare che tornasse, e non chiamai nessuno.

Federica Sabelli è fondatrice e redattrice di Tuffi rivista; ha lavorato per Racconti edizioni e collaborato alla decima edizione di 8×8. Suoi racconti e articoli sono stati pubblicati su Retabloid, Verde, Altri Animali.