di Paolo Lago
Etichettata per lungo tempo come “cinema di genere” e quindi vissuta ai margini della produzione cinematografica ‘d’autore’, relegata nei recinti cult e underground degli appassionati, quella di Aldo Lado è sicuramente un’opera da riscoprire e da rivestire di nuovi significati. Come, del resto, si sta cercando di fare: il n. 9 della rivista «Inland. Quaderni di cinema» è interamente dedicata all’opera del regista di Pola (ma veneziano di adozione), mentre all’ultima edizione del FIPILI Horror Festival, tenutasi a Livorno dal 24 al 28 aprile scorsi, uno fra gli ospiti di eccezione è stato proprio Aldo Lado, intervistato, con la solita verve, dal critico cinematografico Federico Frusciante.
E, proprio al festival livornese, che richiama artisti, studiosi e pubblico da tutta Italia, sono stati proiettati due film del regista: La corta notte delle bambole di vetro (1971) e L’ultimo treno della notte (1975). Al festival, inoltre, è stata messa in rilievo anche l’attività di Lado come scrittore, con la presentazione del giallo Il mastino e del libro di memorie su film mai realizzati, I film che non vedrete mai.
Come sottolinea Lado nell’intervista a Frusciante che precede la proiezione dei film, alla base di essi vi è l’idea di una sferzante denuncia della società borghese e perbenista. Il regista inizia svelando alcuni retroscena riguardo al titolo del film La corta notte delle bambole di vetro: poiché è stato girato e ambientato in parte a Praga e in parte a Zagabria, il titolo originale doveva essere Malastrana (dal quartiere praghese). Ma la produzione si è opposta dicendo che per il pubblico italiano poteva suonare troppo simile a “Malavoglia” (e il regista sottolinea la follia di questa idea). Quindi, si optò per La corta notte delle farfalle, modificato successivamente, sempre per richiesta della produzione, in La corta notte delle bambole di vetro (ma – dice Lado – non ci sono né bambole né vetro nel film). La grigia città dell’est che fa da sfondo alla vicenda appare quasi come una prigione in cui un potere oscuro e inconoscibile agisce indisturbato nell’ombra. Vittima di questo potere sono delle giovani donne che vengono catturate e immolate da una sorta di setta composta prevalentemente da anziani ‘zombificati’. Il Klub 99, infatti, è il centro di questo potere criminale, il luogo dove gli anziani esponenti dell’alta borghesia imprigionano e uccidono le loro vittime. A metà fra zombi e vampiri, i personaggi catturano persone giovani per succhiarne il sangue e le energie durante inquietanti orge. L’oscuro antagonista è quindi, in questo caso, un nemico di classe, esattamente come avverrà in Essi vivono (They Live, 1988) di John Carpenter: in questo film, tutti i capitalisti e le forze dell’ordine che opprimono la società umana sono in realtà degli alieni dalle fattezze di zombi. La caratterizzazione fisica degli anziani di Lado, cerei e imbambolati, ricorda semmai quella degli zombi della parodia vampiresca di Roman Polanski, Per favore non mordermi sul collo (The Fearless Vampire Killers, 1967) e, al cinema di Polanski, rimanda anche l’atmosfera da incubo psicologico che regna nelle strade e negli interni del film (si potrebbe pensare in particolare a Repulsion, 1965). La società del Klub 99 fa quindi riferimento ad un universo reazionario e ancien régime che si pone in contrasto con gli ideali dei giovani e della nuova contestazione che cerca inesorabilmente di reprimere (i vecchi zombi uccidono i giovani come tante farfalle alle quali è impedito di volare). Il rimando, in questo caso, è al Sessantotto italiano, osteggiato in tutti i modi dall’apparato statale e poliziesco. Alla repressione poliziesca occidentale riconduce anche la figura del commissario che cerca di osteggiare in ogni modo le indagini del protagonista, il giornalista Gregory Moore (Jean Sorel) che indaga sulla scomparsa della sua giovane fidanzata Mira (Barbara Bach). Anche il personaggio del commissario, perennemente vestito con un giubbotto di pelle nera, rimanda alla feroce repressione degli ‘zombi’ del Klub 99.
E, se è vero che siamo in una città dell’est, oltrecortina, per cui si potrebbe pensare che la repressione ordita ai danni dei giovani provenga dal regime sovietico (pensiamo alla primavera di Praga), le dichiarazioni del regista ci allontanano ben presto da questa idea. ‘Mascherata’ e nascosta nell’est Europa, questa repressione è quella di stampo consumista e capitalista che imperversa in quegli anni in Italia e nell’Europa occidentale. Si può ricordare che, fra anni Sessanta e Settanta, Lado frequenta importanti registi e intellettuali che si pongono in una netta posizione di dissenso politico nei confronti del consumismo capitalista, come Bernardo Bertolucci (del quale fu aiuto regista per Il conformista), Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini.
Se una nota stonata vi è nel film, è semmai la rappresentazione della donna: le giovani donne che vengono rapite del Klub sono puramente rappresentazioni di un corpo da vampirizzare e sfruttare. Del resto, quelle “bambole di vetro” del titolo – tra l’altro non deciso e nemmeno voluto dal regista – rimandano proprio a un’idea della donna come ‘bambola’ da vetrina. Per fortuna c’è la figura della giornalista interpretata da Ingrid Thulin che, seppure non dotata di una ben definita caratterizzazione, riscatta l’immagine della donna che ci viene offerta dalla pellicola. Ma, forse, in fin dei conti, la figura della ragazza come pura bellezza da vampirizzare e sfruttare è quella voluta dal potere, da quel consumismo spettacolare che, come una turba di zombi seminatrice di contagio, si insinua ogni dove. Ed è un’immagine, vulgata dal consumismo pubblicitario di quei primi anni Settanta, che molto probabilmente il film intende denunciare.
Dal cuore nero e borghese dell’Europa muove anche L’ultimo treno della notte: le prime inquadrature mostrano dall’alto la città di Monaco di Baviera in preda allo shopping natalizio. Come lo sguardo di un falco, la macchina da presa sorvola il centro cittadino, esibisce la quotidianità scontata della festa consumistica, rappresa nel rituale dei mercatini natalizi, perduta nei suoi inconsapevoli fasti. Ma è un mondo che genera la violenza: vediamo, infatti, due rapinatori che, proprio per mezzo della violenza, si insinuano tra la folla. La violenza efferata del film nasce da lì: dal cuore stesso del tempio del consumo e della spettacolarizzazione della merce. Inutile, perciò, adesso, parlare di esibizione gratuita della violenza o di autocompiacimento, di esaltazione dell’efferatezza, come fece molta critica dell’epoca. Come ha ribadito anche l’autore nella sua intervista al Festival, si tratta di una violenza metaforica, l’altra inquietante faccia del benessere consumistico. Come è improprio, ad esempio, parlare di violenza gratuita in un film come Salò o le centoventi giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini – un film, tra l’altro, alla cui primissima sceneggiatura collaborò anche Lado assieme a Pupi Avati – in cui le violenze inflitte dai repubblichini di Salò alle proprie vittime non sono altro che la metafora della violenza della società dei consumi, così, ne L’ultimo treno della notte, l’efferatezza notturna è l’altra faccia di una società rispettabile, capitalista, fondata sul lavoro (e sullo sfruttamento). Il treno è una sorta di nuova “nave dei folli” che – come nell’omonimo romanzo di Katherine Ann Porter, in cui la nave del titolo contiene una varia umanità diretta, dall’America del Sud, verso la Germania del 1933 – conduce, da Monaco a Verona, i passeggeri (emblemi di quella società anni Settanta) nell’incubo di una notte gravida di colpe ataviche in un’Europa che adesso si vuole ‘civile’ e ‘industriale’. Una società industriale che, come in Porcile (1969) di Pasolini, appare legata da un sottile filo rosso ai crimini nazisti. Infatti, i due rapinatori, rifugiatisi proprio sul treno, incorreranno in uno scompartimento di anziani signori rispettabili i quali altro non sono che ex nazisti ‘riconvertiti’ in industriali borghesi.
Il treno è un vero e proprio mostro che attraversa una terra di vecchi e nuovi mostri, come in Cassandra Crossing (1976) di George Pan Cosmatos. All’interno di questo mostro notturno, i due giovani violenti (Flavio Bucci e Gianfranco De Grassi) appaiono quasi come vittime della società stessa, manovrati da una classe sociale più elevata e ‘rispettabile’. Essi, nel compiere le terribili violenze nei confronti delle due giovani studentesse che stanno rientrando a casa, in Italia, sono manovrati dalla misteriosa e inquietante signora borghese interpretata da Macha Méril. È lei, infatti, a spingere i due giovani criminali a compiere le peggiori torture e l’omicidio. I due giovani violenti, proletari o sottoproletari, quindi, sono vittime, metaforicamente, di una violenza più grande di loro che li spinge a essere così, che li schiaccia inesorabilmente nel loro ruolo di emarginazione e abbandono. È una violenza di classe che viene esercitata dai più ricchi nei confronti dei più poveri.
Una violenza metaforica che fa più male di quella fisica, fino all’epilogo del film. Ad attendere le ragazze, in una fredda mattina alla stazione di un paesino della provincia del Nord est italiano, vi sono i genitori alto borghesi di una delle due: il padre, un rispettabile chirurgo (Enrico Maria Salerno) e la madre (Marisa Berti). Se le due ragazze mai scenderanno da quel treno, sono proprio gli assassini (la signora e i due giovani) ad essere accolti nella elegante villa di famiglia poiché l’inquietante signora del treno si era ferita ad un ginocchio. Quasi come in una rilettura contemporanea de La fontana della vergine (Jungfrukäl lan, 1960) di Ingmar Bergman, dopo aver scoperto l’omicidio della figlia e dell’amica, il padre imbraccia il fucile uccidendo a sangue freddo i due giovani assassini. Tuttavia, l’unica a rimanere impunita, è proprio la signora borghese, la principale artefice delle peggiori violenze: la borghesia, infatti, non può rivolgersi contro se stessa, deve colpevolizzare ed eliminare sempre le classi sociali più deboli. La nonchalance e la freddezza con la quale il personaggio del padre, all’interno della sua elegante proprietà, imbraccia il fucile per uccidere ci può fare anche a pensare alla recente legge sulla legittima difesa, fortemente voluta dal ministro degli Interni. E Lado, nella sua intervista, lo sottolinea, ricordando puntualmente l’attuale provvedimento di legge: la violenza esercitata dal personaggio del film per difendere la sua proprietà e per farsi giustizia da sé, con dinamiche da far west, non deve assolutamente essere incentivata dallo Stato.
E, come sempre nota il regista, il personaggio peggiore di tutto il film è forse quello del voyeur: un individuo, presente sul treno, che assiste e partecipa alle violenze sulle due giovani, restando impunito, dileguandosi in una fermata notturna del treno. Elegante signore borghese, rispettabile padre di famiglia (in una telefonata dice infatti al figlio di avergli comprato un regalo), egli è in realtà uno fra i peggiori mostri di quel cuore nero dell’Europa, capace soltanto di fare una telefonata anonima per denunciare l’uccisione delle due ragazze.
Una cronaca dall’inferno, una violenza di classe emergente dal lato più oscuro della società occidentale, preda del consumismo e inglobata in macabri poteri economici è perciò quella che ci offre il cinema di Aldo Lado, un cinema che andrebbe sicuramente riscoperto e posto sotto nuove lenti critiche. E lo stesso regista, dietro l’immagine scanzonata (e indubbiamente simpatica, con spritz e sigaretta), che offre di sé all’ingresso del teatro, in occasione di questo interessante Festival, ci ha invitato a meditare e riflettere su una violenza di classe che, da troppo tempo ormai, sempre uguale si ripete.