di Alexik
Elton Kalica, La pena di morte viva. Ergastolo, 41 bis e diritto penale del nemico, Meltemi, 2019, pp. 189.
“L’ergastolo ti fa morire dentro a poco a poco.
Non siamo morti ma neppure vivi.
L’ergastolo è l’invenzione di un non-dio di una malvagità che supera l’immaginazione.
L’ergastolo è una morte bevuta a sorsi, perché non ci mettiamo d’accordo e smettiamo di bere tutti assieme?”
Con queste parole, nel maggio del 2007, 310 reclusi a vita nei circuiti della carcerazione speciale chiedevano al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di convertire l’ergastolo in pena di morte, considerandola meno dolorosa.
Con sollecitudine il Quirinale scaricava il barile sul Parlamento, impegnato all’epoca nel dibattito sull’abolizione della pena perpetua.1
Come era prevedibile, della riforma non se ne fece nulla.
Del resto, perché mai lo Stato avrebbe dovuto privarsi di strumenti afflittivi così duttili ?
Strumenti costruiti in tanti anni di gestione emergenziale dei conflitti e della devianza, e giunti, nel loro insieme, a costituire un sistema di annichilimento del ‘detenuto speciale’ decisamente avanzato.
Nei circuiti del 41bis e dell’alta sicurezza, nella previsione e applicazione dell’ergastolo ostativo, trovano oggi compimento e sintesi quarant’anni di scienza repressiva, dall’apertura delle carceri speciali nel ’77 – che ha inaugurato l’era della diversificazione dei percorsi penitenziari in base alla ‘qualità’ del detenuto – passando per le norme che sospendono potenzialmente all’infinito le già scarse garanzie del trattamento penitenziario per determinate categorie2, e per quelle che escludono da ogni possibile beneficio (permessi, libertà condizionale) chi non si pente, prospettando per chi sconta l’ergastolo e rifiuta la delazione di poter uscire solo in posizione orizzontale.3
Per l’occasione sono state disposte “strutture attrezzate”4, carceri laboratorio per sperimentare tecniche di “pacificazione”, intesa come riduzione di un particolare gruppo umano ad uno stato di sottomissione pacifica a fronte di pratiche degradanti, caratterizzate da un altissimo livello di violenza intrinseca.
Se in decenni passati ha prevalso l’esercizio della violenza materiale, oggi nelle “strutture attrezzate” si compie la versione contemporanea di una sorta di quaestio medioevale – “veritatis indagatio per tormentum” – dove, ai fini della confessione, la tortura non viene in genere somministrata tutta insieme nella forma dell’intensità del dolore fisico, ma centellinata ogni giorno, per anni, per decenni, con lo svuotamento del tempo, la riduzione al silenzio, l’annullamento di ogni dimensione sociale del detenuto, la distruzione quasi assoluta di ogni rapporto con i suoi amori.
E’ questo ciò che emerge dal prezioso il lavoro di Elton Kalica, un’indagine svolta sulla base di 20 interviste a ergastolani provenienti dal regime di 41bis.
È una ricerca unica, sia perché è molto raro riuscire ad avere notizie su quello che accade dietro le mura delle “strutture attrezzate”.
Ma anche perché solo Elton poteva riuscire a compierla, unendo alla capacità analitica acquisita durante gli studi accademici la conoscenza dei meccanismi interni al carcere, sperimentati in prima persone nel corso di 14 anni di prigionia, di cui 5 in Alta Sicurezza. Senz’altro utile, in questo suo compito, l’esperienza come redattore di “Ristretti Orizzonti”, e la capacità di porsi in relazione ai detenuti col necessario rispetto.
Oggetto della sua ricerca è quello di “raccontare quanto la somministrazione della sofferenza in carcere superi persino la fantasia”.
Elton ci conduce attraverso la quotidianità di un detenuto al 41bis: 23 ore al giorno di isolamento in una cella singola di 6 metri quadri scarsi, soggetta a perquisizioni giornaliere e battitura sbarre.
La dotazione della cella consiste in una branda metallica e di uno sgabello inchiodati a terra, di un tavolino e un armadietto fissati al muro, di un televisore blindato.
E’ impossibile disporre gli arredi a proprio modo, così come è vietato appendere al muro qualsiasi cosa. Viene impedita qualsiasi personalizzazione.
Gli oggetti che si possono tenere, compresi i capi di vestiario, sono un numero limitato, insufficiente. I libri non superiori a tre.
Qualsiasi spostamento del detenuto – da e per il cortile, da e per il colloquio con l’avvocato o con il giudice, da e per le visite parenti, ecc. – è accompagnato da perquisizione personale, a volte col metal detector, ma più spesso tramite denudamento, al di fuori di ogni limite regolamentare posto a questa pratica.
“Sempre, dovunque andavi. Era un’umiliazione… anche se andavi dal magistrato, una cosa pazzesca…
Io l’ho detto al magistrato: dottoressa, ogni volta che voi mi chiamate qui mi spogliano, mi svestono , mi umiliano. Ma scusate. Io posso capire all’entrata che posso avere un’arma. Ma se mi spogliano all’uscita vuol dire che voi siete corrotta con me..
Il magistrato chiama l’ispettore e gli chiede: come mai all’uscita voi lo spogliate. Risponde che questo è un ordine.”
Qualcuno riesce anche a scherzarci sopra, presentandosi nudo sotto la tuta da ginnastica.
La custodia e la sorveglianza sono affidate al G.O.M.5
Davanti a loro bisogna spogliarsi più volte al giorno: la nudità del corpo è a disposizione dei carcerieri.
È questo il prezzo per raggiungere un cortiletto circondato da muri di cemento armato alti 5 metri, a volte col cielo sbarrato da una rete e da una lastra di plexiglass, in modo da eliminare anche l’aria dall’ora d’aria.
Alcuni vi rinunciano, perché ritengono non ne valga la pena
L’aria e la “socialità” si svolgono con altri tre detenuti, scelti dall’amministrazione a sua discrezione con i quali, ammesso che ci sia compatibilità, dopo un po’ non si sa più che dire. Ci si può giocare a carte, in una stanza che quando presenta qualche libro e una cyclette assume in nomi pretenziosi di biblioteca e palestra.
A parte i tre del gruppo, con qualsiasi altro recluso è punito ogni contatto, ogni parola.
E’ vietato il dono, lo scambio di vestiario o di cibo, con chiunque.
E’ vietato cucinare, ma non da sempre. L’ha deciso Alfano, nel 2009, ai tempi in cui era ministro della Giustizia del governo Berlusconi IV.
Dichiarando di voler rendere “ancora più duro” il 41bis, Angelino ha proibito la pastasciutta.
Involontariamente, e senza tema del ridicolo, ha esplicitato il senso prettamente vessatorio di questo regime carcerario, visto che non si capisce come il fatto di potersi cuocere o meno un piatto caldo possa avere una qualsiasi attinenza con gli obiettivi formali del 41bis, ovvero di impedire i rapporti del detenuto con l’organizzazione di provenienza.
Chi ha vietato il dono e la cucina conosce il loro significato all’interno del carcere:
Il dono è segno di amicizia, sostegno materiale e solidarietà, ed ogni meccanismo solidale va colpito.
Mentre le lunghe ore passate a cucinare riempiono il tempo vuoto, i dettagli delle ricette riemergono nei discorsi nell’ora d’aria, la scelta del proprio pasto è un esercizio, ancorché minimale, di decisionalità.
Ma ogni decisionalità del detenuto va negata. Ogni aspetto della sua giornata è a disposizione dei carcerieri :
“Quotidianamente si aspettano i comandi dell’agente per andare in doccia, all’aria, in saletta, oppure semplicemente per uscire dalla cella durante la quotidiana verifica dell’integrità delle inferriate e l’esame della camera”.
Sono frequenti i piccoli soprusi per farlo scattare e metterlo in punizione, cioè togliergli l’uso del televisore e l’ora d’aria, ma soprattutto per fare rapporto e ribadirne la pericolosità ai fini del rinnovo del 41bis.
Ma la parte più dura riguarda il rapporto con i familiari, unici titolati – oltre all’avvocato – agli incontri: un’ora di colloquio ogni due settimane, che poi si riduce a 40 minuti, separati dal vetro divisorio, e con un microfono mezzo rotto per parlare.
Un esperienza frustrante e avvilente per il coniuge, shoccante per i bambini, reduci l’uno e gli altri da lunghi e faticosi viaggi fino al carcere speciale.
Ai bambini viene concesso il contatto fisico col genitore, ma al prezzo di restare soli con la guardia che li conduce nella stanza al di là del vetro, e dopo poco li riporta via. “I pochi minuti di abbraccio sono la conclusione di una procedura complessa e traumatizzante per il minore”.
C’è chi rinuncia ai colloqui per non infliggere queste umiliazioni alla famiglia.
In alternativa al colloquio è prevista una telefonata al mese di 10 minuti, ma il parente si dovrà recare per effettuarla al carcere più vicino alla sua residenza, per essere identificato.
Tutti i colloqui, che siano effettuati di persona o per telefono, tranne quelli con l’avvocato, vengono registrati.
Qualsiasi intimità è negata, o alla mercé dei carcerieri, soprattutto le lettere, perché il contenuto della corrispondenza in entrata e in uscita viene valutato dalla guardie carcerarie alla ricerca di contenuti potenzialmente pericolosi. Ogni frase è fonte di dubbio.
Anche dire due volte “ti amo” alla propria moglie può essere considerato un messaggio in codice.
La corrispondenza sospetta viene poi inoltrata al magistrato che potrà esaminarla, senza limiti di tempo.
Di solito ne convalida il sequestro.
Solo poche lettere dal linguaggio neutro e telegrafico riescono a partire.
Così il processo di separazione dai familiari diventa completo, e per gli ergastolani infinito.
Il detenuto vede entrare in crisi il legame di coppia e la funzione genitoriale.
E il suo isolamento cresce, per le ventitré ore da solo in cella, per il silenzio imposto, per l’assenza di argomenti tipica di una vita vuota, per le difficoltà ai colloqui, per il timore che le proprie confidenze cadano in mano a delatori, per non voler mettere a nudo davanti agli agenti parole di tenerezza verso i propri amori.
Gradualmente il linguaggio si atrofizza in monosillabi e frasi incomplete, si perde la capacità di relazione.
Gradualmente alla prigione di cemento si sovrappone una propria prigione interna, l’assuefazione alla solitudine, che diventa preferibile ad ogni altra situazione detentiva.
Qualcuno va via di testa.
Mi aspetto a questo punto un’obiezione: questo trattamento è riservato ai capimafia, condannati per terribili reati.
Non solo. Non sempre.
Non è detto che la durezza della pena sia commisurata alla responsabilità effettiva attribuita al condannato, non è questo il criterio che la sottende.
“Il regime di 41bis rimanda a una legge nata sull’onda emotiva delle stragi mafiose di vent’anni fa… Ne deriva che la risposta della magistratura si sia orientata non solo a colpire Cosa Nostra, ma in chiave comunicativa, a vincere una guerra, fare terra bruciata intorno ad altre aggregazioni con caratteristiche simili…
I processi sull’accusa di associazione mafiosa sono la manifestazione esemplare, dato che, una volta accertata l’esistenza del consorzio, anche quelle condotte che di per se non avrebbero rilevanze penali, risultano rilevanti ai fini dell’organizzazione“.
La logica di guerra rimanda all’annientamento del nemico, al “diritto penale del nemico” teorizzato da Günther Jakobs6, a un trattamento speciale che sospende le garanzie dello Stato di diritto principalmente in base all’identità del soggetto, più che al reato compiuto.
La sproporzione è evidente quando il regime speciale cessa per il principale responsabile del sequestro e dell’uccisione del piccolo Giuseppe di Matteo. Giovanni Brusca oggi non è più un nemico dello Stato, è un collaboratore, e pertanto è fuori dal carcere. Personaggi minori con responsabilità molto più marginali nell’ambito dello stesso delitto, rimangono nei circuiti speciali con l’ergastolo ostativo.
Infine, il 41bis non riguarda solo i mafiosi.
“Da ormai più di una settimana le anarchiche Silvia, Agnese e Anna, sono state trasferite dalla sezione AS2 (Alta Sicurezza) del carcere di Rebibbia a quella dell’Aquila.Un carcere, quello del capoluogo abruzzese, in cui la quasi totalità della popolazione carceraria è sottoposta al 41 bis. Un regime di carcere duro che prevede l’isolamento 23 ore al giorno, la riduzione delle ore d’aria, l’impossibilità di cucinare in cella, dove l’ingresso della luce è limitato dalla presenza di pannelli opachi di plexiglass, dove c’è una sola ora di colloquio con i familiari che per di più avviene attraverso vetri divisori senza la possibilità di alcun contatto. Non si ha inoltre la possibilità di tenere più di quattro libri in cella, la corrispondenza è sempre sottoposta a censura, è impossibile partecipare ai processi se non attraverso la videoconferenza. Nelle carceri dove è presente il 41 bis, l’ombra di questo regime si estende ben al di là di queste sezioni andando a modificare le condizioni di detenzione del resto dei prigionieri.
Silvia, Agnese e Anna si trovano quindi in celle singole, con i blindi chiusi, nello spazio che era la vecchia sezione 41bis femminile“….7
Le forme più dure della carcerazione speciale travalicano i confini previsti dalla norma, e in un contesto di populismo penale si estendono sempre di più.
Necessita una battaglia di civiltà, affinché nuovi corpi non vengano risucchiati in questo gorgo.
Alberto Custodero, Gli ergastolani scrivono a Napolitano “Siamo stanchi. Condannateci a morte”, La Repubblica, 31 maggio 2017. ↩
Con la riforma dell’ordinamento penitenziario (Legge 354/75) veniva inaugurato un modello detentivo di tipo trattamentale che prevedeva un percorso a tappe per il reinserimento del detenuto nella società tramite permessi premio, semilibertà, lavoro esterno, ecc.
Al suo interno l’art.90 permetteva al Ministero di Grazia e Giustizia di sospendere ogni diritto o tutela a suo piacimento per “gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza“.
Nel 1986 la Gozzini (Legge n.663/86) abrogava l’art.90 ma introduceva il 41bis, che autorizzava il Ministero di Grazia e Giustizia a sospendere l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza interna alle carceri italiane.
In seguito alla strage di Capaci (1992) la possibilità di sospensione ministeriale veniva estesa ai gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica nei confronti dei detenuti facenti parte dell’organizzazione criminale mafiosa, passando da una norma finalizzata a prevenire e sedare episodi di conflittualità carceraria a strumento repressivo rivolto alla conflittualità esterna. Fra il 2002 e il 2004 ne sono stati ampliati i limiti temporali, rinnovabili potenzialmente all’infinito. Il 41bis non è applicabile unicamente agli appartenenti, presunti e non, alla criminalità organizzata di stampo mafioso, ma anche agli imputati e condannati per una lunga lista di reati, fra i quali l’eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza. ↩L’art. 4 bis dell’ordinamento Penitenziario esclude dall’accesso ai benefici diverse categorie di reati: 1) di particolare pericolosità 2) commessi in contesti di criminalità organizzata o terroristica 3) che presuppongono il rifiuto del condannato a collaborare con la giustizia. ↩
Case Circondariali attrezzate per il 41bis: Massama, Uta, Bancali, Novara, Opera, Cuneo, Parma, Tolmezzo, Viterbo, Spoleto, Ascoli Piceno, Terni, Rebibbia, L’Aquila, Secondigliano,Poggioreale, Macomer, Mamone a Onanì, Badu ‘e Carros, Voghera, Reggio Calabria. ↩
Gruppo Operativo Mobile, corpo speciale di polizia penitenziaria sorto agli “onori della cronaca” per le torture dei manifestanti del G8 di Genova 2001 nella caserma di Bolzaneto. ↩
Vedi su Carmilla: Il nemico interno/2. ↩
Tratto da “Osservatorio repressione“ ↩