di Paolo Lago
João Luís Barreto Guimarães, Mediterraneo, trad. it. di António Fournier e Alessandro Granata Seixas, Edizioni Erasmo, Livorno, 2018, € 12,00.
La raccolta Mediterraneo, del poeta portoghese João Luís Barreto Guimarães, recentemente proposta da Edizioni Erasmo nella bella traduzione italiana di António Fournier e di Alessandro Granata Seixas, ci presenta una poesia in viaggio, in movimento continuo. Si tratta di una vera e propria poesia nomade. Si può ricordare, d’altra parte, che il nomadismo è una importante categoria dell’immaginario letterario postmoderno, affrontato in modo sistematico soprattutto nell’ambito dei Cultural Studies e dei Gender Studies (ad esempio, la studiosa e critica femminista Rosi Braidotti analizza il concetto di “soggetto nomade”). Il nomadismo, in Mediterraneo, si presenta innanzitutto nella facies esteriore della raccolta: una nota ci avverte infatti che le poesie sono state scritte in diverse località del Portogallo e in alcune città europee. Sono, quindi, poesie scritte in viaggio e la stessa dimensione del viaggio si riflette nei contenuti e nella tessitura poetica.
Il movimento incessante della parola conferisce una indubbia ‘spazialità’ alla raccolta: lo spazio, gli ambienti, i luoghi sono di estrema importanza in Mediterraneo. La silloge, perciò, potrebbe benissimo essere osservata anche attraverso la lente della “geocritica”: secondo l’analisi del massimo esponente di questo campo di ricerca, Bertrand Westphal (autore di un interessante volume dal titolo Geocritica. Reale Finzione Spazio, tradotto in italiano nel 2009), lo spazio è una dimensione in cui si incrociano flussi di informazioni e di immagini, percezioni sensoriali e migrazioni identitarie. Il movimento, il nomadismo, connesso al contemporaneo fenomeno della migrazione, avviene attraverso lo spazio. Ed ecco che, secondo la suggestiva definizione del filosofo Michel Serres, citata da Westphal, oggi, “errando senza radici”, all’interno di un movimento continuo, ci possiamo configurare come “passanti dall’anima di Arlecchino”: “Errando senza radici, associando e mescolando lo spirito dei luoghi che abbiamo attraversato siamo tutti divenuti, nel bene e nel male, passanti dall’anima di Arlecchino”. Sempre secondo Serres, la contemporaneità si presenta come una “pantopia”, cioè un “tutto spazio”, un “tutto luogo”.
Ne L’altro ieri a Pocinho si incontra proprio la parola “nomadi” all’interno di un movimento che si srotola attraverso il “sacro fiume”, il Douro (di incessanti viaggi sul Douro, segnati da sottili malinconie, ci ha cinematograficamente narrato il grande Manoel De Oliveira): “Eccoci qui (tu e io) nomadi / su questo sacro fiume…”. Un movimento di navigazione è anche ne Lo schema delle cose, in cui a fare da sfondo al viaggio (“Abbiamo navigato tutto il giorno lungo lo stretto di Messina”) è l’universo classico, dove antiche divinità come Poseidone ed Efesto entrano in netto contrasto con l’immagine contemporanea di “un banco di yacht”. Una poesia costruita secondo un movimento continuo di navigazione fluttuante è Una barca a vela a Mikonos in cui “la piccola barca a vela danza”, poi “non si allontana dalla sabbia più che un ormeggio teso”; successivamente, “il piccolo scafo sale e / scende liberamente” e “percorre senza motivo lo / stesso punto sulla mappa”. Poi, “guarda come prova / l’illusione del movimento / come i mulini di Mikonos (che girano per / giorni e giorni) / tagliando fette di vento verso / nessun dove” (corsivi miei).
In Mediterraneo incontriamo inoltre un rimando continuo al mondo antico e, all’interno di esso, due figure in particolare diventano l’emblema del viaggio: Ulisse e Giasone. Il primo è il viaggiatore per eccellenza della letteratura occidentale, la grande figura archetipale dello spostamento e dell’erranza. Ulisse è presente in Una spiegazione possibile ma, soprattutto, in Canzone mediterranea, delicata elegia dedicata contemporaneamente all’attraversamento dello spazio e allo scorrere del tempo: “Ora è il momento di lasciare / che sia il mare a toccarci (il / mare interiore primitivo / il caldo primordiale) / ieri squarciato dai remi della Fenicia fino a / Cartagine. Questo è il mare di Ulisse (quello / che Serse frustò) un mare che / non è passato / (poiché il passato è presente) dove il / tempo passa lento poiché avanza posticipato…”. In una corrispondenza continua fra presente e passato, lo spazio da attraversare diviene mitico e carico di significato proprio perché di lì passò Ulisse, il mitico viaggiatore, l’errante per eccellenza, e la sua erranza si riempie di significati simbolici. Il Mediterraneo cantato da João è uno spazio mitico in cui ci si può trasformare in nuovo Ulisse per attraversare i drammi del passato e del presente, per riflettere malinconicamente sullo scorrere del tempo, affrontare il dolore che ne consegue e riemergere con un sorriso di speranza e di lotta. L’altra figura emblematica, Giasone, insieme ai suoi compagni viaggiatori, gli argonauti, si profila ne Gli argonauti ad Oia che vale la pena citare per intero: “Per alcuni la / fine della terra coincide / con la fine del mondo. Per altri la / fine del mondo coincide / con il principio del viaggio. Date loro / una barca a remi e nessuno saprà dire / se fece bene colui / che squarciò l’Egeo ignoto se / il dubbio persistente a chi resta – / è il viaggio”. Il viaggio appare come una dimensione che tutto avvolge, dall’inizio alla fine, e persiste come sfondo e materia del canto poetico.
Se, come abbiamo visto in Canzone mediterranea, lo spazio si carica di significati simbolici in un gioco continuo col tempo, si può ricordare che, sempre secondo le già citate teorie della geocritica, tempo e spazio investono un piano comune, finendo per confondersi. Questo piano comune di tempo e spazio è riscontrabile in Res ipsa loquitur in cui si parla di una scritta che appare su un muro delle rovine del palazzo di Diocleziano a Spalato, una scritta in cui si fa riferimento al “petrolio della Dalmazia” (immagine che rimanda a un contesto di problematiche economiche e sociali contemporanee). Infatti, “non bastava che Costantino / avesse cancellato il passato / ora arriva anche il presente a farsi beffa di Diocleziano / sulla pelle / della sua casa”. L’erranza giunta fino a Spalato, al palazzo di Diocleziano, un movimento espansosi su una scacchiera mediterranea, si incontra col tempo, mentre lo stesso spazio del palazzo imperiale viene dardeggiato dall’imperante presente, dall’incessante ferita della contemporaneità. Quello spazio arcaico e vetusto, però, rimane pressoché indifferente di fronte ad una contemporaneità che appare incomprensibile: “Il romano non sa niente / del petrolio della Dalmazia (nonostante / si proclami divino / all’occorrenza: un figlio di Giove). Primo / perché è in pensione. Poi perché / legge solo il latino”.
Una contaminazione, stavolta segnata da tonalità più tragiche, fra passato e tempo recente, si ha anche in Ebrei erranti, laddove la mitica erranza biblica del popolo ebraico, guidato da Mosè, si trasforma nel viaggio infernale verso Treblinka: diaspore antiche si contaminano con le deportazioni verso i campi di concentramento. Il tempo arcaico – in un nuovo viaggio più ‘infernale’ che ci offre la poesia di Mediterraneo – si mescola con un tempo recente e ferito, segnato dagli orrori del nazismo.
Ma la poesia in movimento di João è caratterizzata nel profondo anche da uno spirito di leggerezza e da istanze libertarie e di liberazione: la volontà di trasformazione, di continuo cambiamento e metamorfosi che può avvenire entro una prospettiva nomadica. Ed è così che lo spazio si trasforma anche in suono, cambiando dimensione, aspirando ad un’altra forma: ne La lenta cantilena di Allah lo spazio si trasforma in voce, in “cantilena” e “immensa glossolalia / arroventata dallo / scirocco”. In un nuovo spazio orientale, segnato da lingue sconosciute, “avresti dovuto avere il dono delle lingue per non / perderti tra i suoni di Piazza Jemaa El-Fna”. Si tratta di una “cantilena che lo straniero non resiste / ad imitare”, una cantilena che è legata indissolubilmente a quello spazio, che si trasforma in esso e che trasforma lo straniero in nomade, in divoratore di liberi spazi, in “passante dall’anima di Arlecchino”. Lo spazio-suono arroventato dallo scirocco è la dimensione del nomade e del suo incedere in una continua scoperta. Perché oggi più che mai c’è bisogno di poesia e di poesia in movimento in particolare, una poesia nomade che voli sul Mediterraneo e ricordi che proprio questo Mediterraneo è uno spazio libero, comune, uno spazio di erranza. Uno spazio oggi purtroppo segnato dall’esclusione, dalla paura e dalla morte, uno spazio in cui si consumano nuove tragedie umanitarie.
Che una libera poesia in movimento, bella come i nomadi accarezzati dal vento, si distenda oggi sulle tristi barriere che vengono erette, barriere di genere, di razza, di nazionalità e nazionalismi, di economie. E che le abbatta, con un colpo di bellezza.