di Jack Orlando
Il fascismo ha molte facce, spacchiamole tutte. Quante volte si è detto o scritto?
Vecchio adagio della compagneria nostrana che, come molti adagi, ha finito per accasciarsi su se stesso e diventare poco più che un’enunciazione di comodo; agita, bene che vada, da qualche anima pia dalle mani pesanti.
Non che sia sbagliato far passare un brutto quarto d’ora ad un nazista quando se ne presenti l’occasione, per carità, ma ci basta questo?
No di certo, perché oggi il fascismo non è più sentire nostalgico di qualche soggetto marginale, relegato in stanze polverose riempite di cimeli e grottesche rievocazioni.
Il fascismo è tornato, se mai fosse andato via, ad essere un’aria che si respira nelle città e che detta la linea di una democrazia dall’aspro sapore autoritario.
Poco tempo fa si è provato a dare una sintetica, e certamente non esaustiva, analisi del fenomeno (qui), proviamo ora a tracciare alcuni tratti di una linea di condotta in grado di assumere la controffensiva.
Partiamo da alcuni semplici assunti:
Primo – Fascismo non è antitesi di democrazia, ma ne è complemento intimo ed essenziale. Tutto quel grottesco e lugubre immaginario che automaticamente si collega al ventennio e ai nuovi nazi non è che un diversivo, uno specchietto per le allodole: a sopprimere le libertà politiche basta un atto legislativo della Francia liberale che non riesce più a contenere le sue eccedenze riottose, ad istituire lager e tracciare frontiere di filo spinato entro cui relegare masse crescenti di disperati ci pensa la social-democrazia, a ridurre un lavoratore a poco più che un servo della gleba ci si impegnano i mercati e le imprese difese dai sindacati. D’altronde, dividere tra chi può e chi non può e farlo tramite divieti e degradazioni, è proprio di una società capitalista; come è proprio della civiltà occidentale imporre il proprio dominio con la violenza e giustificarlo tramite la superiorità. Dalla smania imperiale vittoriana alla Libia post-Gheddafi, il cuore del buon liberale, ancora una volta, veste una camicia nera.
Secondo – Che oggi la sinistra di governo si sia riscoperta antifascista di fronte alle brutalità del sovranismo è una mascherata patetica oltre che poco credibile: in fondo, esclusa la retorica, l’agenda politica non muta granché nella sostanza. E difatti fallisce perché continua a blaterare, in malafede, di diritti civili e di pace ad un mondo ormai al tracollo.
In fondo a chi importa del matrimonio gay se a fine mese crepa di fame? Questi bolsi e fini imprenditori politici liberali si fanno scudo dell’antifascismo perché non hanno altro che li possa differenziare dai loro nemici.
E cadono, cadono miseramente perché interpretano qualcosa che non sono e lo si vede, un po’ come il lupo di Cappuccetto Rosso che crede basti una cuffia e una vestaglia per farlo diventare un’innocua vecchina.
Di più, hanno costruito pazientemente questo presente a somiglianza di un carcere o di un manicomio e ne hanno poi perso il senso. Un presente dove, come in carcere, regna l’ordine rigido, la violenza sistemica e spudorata, regnano la sopraffazione e la perdita forzata d’identità.
Piaccia o meno è un dato di fatto, una lingua comune accettata dalla sua popolazione, carcerati e carcerieri si muovono nella stessa dimensione, laddove camminare su un binario differente, senza tenere conto di questo, equivale ad emarginarsi e condannarsi alla rovina.
Coprire il neoliberismo di diritti civili è come entrare in un carcere e riempirlo di fiori per poi pretendere semplicemente che il carcere si senta meno carcere, i carcerati un po’ più liberi e i carcerieri meno carcerieri.
Terzo – Nel momento in cui la sinistra ha archiviato la grammatica del conflitto di classe ed ha adottato quella della pace sociale, si è macchiata di tradimento facendosi miglior alleato del suo vecchio nemico: il capitale. Ha incarnato le forze che hanno eretto l’oggi ed aperto immensi spazi ad una violenza onnipresente e multiforme che ha alimentato chi, della violenza, ne fa il suo vessillo.
I fascisti non vincono perché fanno presa su una plebaglia incolta e becera, come vorrebbe più di qualche tedioso e obsoleto intellettuale, ma perché colgono in pieno lo spirito del tempo, ne parlano la lingua e ne incarnano i significati: è un tempo di crisi, di catastrofe, di guerra e non c’è spazio per i diritti, per le smancerie da buonisti. E’ un tempo in cui bisogna agire, bisogna combattere per la sopravvivenza o cadere per mano del nemico, l’identità che vince è quella del guerriero (che sia il crociato cristiano o il mujhaeddin, suo speculare avversario, a convogliare l’immagine di molti militanti del cosiddetto scontro di civiltà è in tal senso emblematico). Un’identità guerriera di chi è disposto a dare e ricevere la morte per difendere la sua purezza, la sua identità.
Si è ormai imposto nettamente ciò che prima covava sotto le braci e le parole della crisi, lo si capisce già solo dall’idioma che ormai domina le tensioni d’Occidente: un idioma di guerra che divide tra amici e nemici, un idioma urlato ed esasperato come quello di un generale che impartisce i suoi ordini.
Quello che la civiltà bianca sogna la notte è il crollo di sé stessa, del suo dominio che, in fondo, non è che la sua identità; le invasioni barbariche sono alle porte e tocca muoversi per non soccombere.
E che la guerra sia reale, tra le macerie del Medio Oriente, economica nell’iperuranio della finanza globale, o immaginaria tra le strade dei quartieri metropolitani, poco cambia; la guerra bussa alle porte e non ci si può voltare dall’altra parte.
In fondo quello che i vari stragisti bianchi realizzano con i loro abominevoli atti di sangue non è che l’espressione estrema e violenta delle ansie che albergano al fondo della coscienza di un Occidente giunto al capolinea.
Dati per assodati questi brevi passaggi torna a farsi sentire, sempre verde, la solita domanda: Che fare?
Anzitutto adottare la radicalità dei tempi. Per forza di cose tempi duri esigono comportamenti duri ed attitudini forti. Intendiamoci, se qui si parla di forza o durezza non si allude certo ad una qualche plastica ed infantile posa maschia e muscolosa; l’apologia del bicipite la lasciamo agli alfieri di questo decadente ordine costituito.
La forza cui alludiamo è quella necessaria per assumere, senza tanti panegirici, la responsabilità storica che questo tempo ci consegna: farla finita, citando un fine pensatore, con quest’Europa che non la smette di parlare dell’uomo e lo massacra in ogni angolo in cui lo incontra.
Non c’è nulla da salvare, questa democrazia è il nostro vero nemico e il fascismo non è che il suo tirapiedi; non c’è Costituzione e non c’è riforma che salvi da un potere sanguinario, cieco e insaziabile. Noi non proteggiamo la Repubblica, semmai, le strappiamo la Comune.
Bisogna essere duri per farlo, perché certe scelte costano fatica, implicano un costante lavorio di trasformazione di sé stessi e del reale che ci circonda; perché certe scelte costano anche care, bisogna essere consapevoli che il nemico potrebbe presentarci il conto della nostra refrattarietà, un conto che spesso è amaro e salato. Eppure non c’è strada per il futuro che non sia irta di difficoltà e la Storia ce lo ricorda da tempo immemore.
Parliamo quindi una lingua che non sia più quella pacata e rassicurante del riformismo, dei diritti civili, ma quella rovente e drammatica della rivoluzione qui e ora!
Questo significa anche fratturare quel frontismo che certa sinistra tende continuamente a creare riportando in vita cadaveri politici e imbastendo fragili castelli di carta; è una formula che non funziona e che, bene che vada, porta acqua solo al mulino socialdemocratico.
Eppure il discorso riformista, per quanto sia territorio ostile, non va rigettato o ignorato totalmente per costruire un campo altro.
Piuttosto, forti della propria radicale ed autonoma progettualità, le unità antifasciste devono agire strumentalmente, quando se ne dia l’occasione, negli spazi aperti dalla sinistra per inserirsi nella sua temporalità e torcerla a proprio vantaggio, sabotarla, radicalizzarla, fratturarla e restare pronti, nel mezzo della deflagrazione, a cogliere gli elementi a noi più prossimi. Ci sono ancora molti partigiani in potenza che attraversano o fanno riferimento a tali momenti solo perché privi di alternative riconoscibili. Questi elementi rientrano nel nostro terreno di profondità, sono parte di quel mare in cui nuotano i pesci rivoluzionari; strapparli alla moderazione è di vitale importanza. È d’obbligo fare emergere e coltivare la potenzialità nascosta.
Tale considerazione ci impone, automaticamente, delle precisazioni sul nostro agire. Incarnare un’alterità non può comunque prescindere dalla comprensione da parte del soggetto sociale: la lingua e i messaggi che l’antifascismo rivoluzionario veicola devono contenere una doppia capacità, rivelare una verità altra e forte ma, contemporaneamente, rendersi immediatamente comprensibile al ricevente.
Bisogna quindi lasciarsi alle spalle tanto le velleità di puro avanguardismo che pongono visioni del tutto scollate dal presente e si rendono assolutamente inintellegibili, quanto il freddo e consunto politichese che invece parla solo dentro stanze vuote che puzzano di vecchio.
Le idee si trasmettono per immagini e suoni, le nostre parole d’ordine devono colpire allo stomaco, nella materialità quotidiana che ci circonda e colpire al cuore, sondare e toccare i nervi scoperti della percezione esistenziale di ciascuno.
Perché la crisi oggi è anche interiore: desertifica l’anima, stupra i sogni e mutila il desiderio; produce umanità alienate, incomplete, sconnesse da se stesse.
Quell’anima mutilata è il prodotto antropologico ultimo della contemporaneità neoliberista, una realtà concreta quanto la catastrofe ambientale ma meno tangibile e quasi sempre ignorata.
I profeti della rivoluzione non hanno masse di proletari, occhi vivi e mani di pietra, ad ascoltare ma platee di anime storpiate, che reclamano cura, vendetta e riscatto. A quelle anime bisogna parlare, strappandole all’alienazione; ricucirle, come l’ombra di Peter Pan, al proprio corpo e all’esperienza sensibile di un divenire rivoluzionario.
Chi intende ancora ignorare tale dimensione ed il fatto che essa sia un campo di battaglia, preferendo limitarsi ancora a parlare soltanto di oggettività e lavoro, farebbe bene a domandarsi, ad esempio, quanto non ci sia di reale nella depressione che lo lega al suo salario (o all’assenza di questo) e gli sbarra l’avvenire.
Essere portatori di alterità è anzitutto essere in antitesi con questa contemporaneità occidentale che ha distrutto ogni identità riducendola al rango di immagine stereotipata ed autoescludente, priva di contatti con l’esterno. Se il nazionalismo affascina è perché, in assenza di una comunità materiale e di affinità, si trova un rifugio nella comunità nazionale; che poi questa non esista nel quotidiano non importa.
Creare quindi identità, perché ogni essere umano necessita anzitutto di un’immagine in cui potersi riconoscere, una struttura etica che lo orienti e una comunità entro cui poter muovere la sua vita. È questo un bastione su cui bisogna ingaggiare conflitto.
Pasolini sosteneva che il fascismo storico non avesse fatto altro che imporre la sua forma alla società italiana senza, sostanzialmente, alterarne la sostanza. In questo intento è riuscito il mercato con le sue merci che, ergendosi come unico credo, ha allagato la società e plasmato la sua antropologia, restituendo identità alienate di produttori e consumatori. L’individuo contemporaneo nelle metropoli occidentali può abitare unicamente una comunità mercificata dove tutto è oggetto di consumo: il suolo, i beni, il tempo, gli affetti, le relazioni, la vita.
Ma l’identità non è un dipinto da osservare sempre identico a se stesso, non è qualcosa di statico e dato una volta per tutte, come credono i paladini della bianchezza cristiana. Non è nemmeno un pacchetto bello e pronto da disegnare e offrire come fosse il nuovo abito di tendenza.
È il prodotto di un lungo e, perché no, contraddittorio processo dialettico che prende le mosse dalla nuda materialità dei fatti, ma che trova il suo continuo riflesso nella sfera interiore dell’umano. Serve, l’identità, a dotare di senso esistenze che altrimenti si percepiscono vuote e disperse mettendole in connessione con una dimensione etica e pragmatica che esula dal banale schema produci-consuma-crepa; ma non ci si può fermare a rincorrere e disegnare identità altre, pena impantanarsi in una palude pericolosamente prossima al discorso conservatore.
Il processo di identificazione è anzitutto risultato di un’adesione ad una parte collettiva: è una comunità che produce valori, immaginari, identità ed è solo in rapporto a questa che l’individuo assume valore e consistenza.
Quello che è davvero necessario rimettere in piedi è quindi la comunità, in quanto elemento collettivo in cui riconoscersi, stringere legami e riscoprire la propria forza: se le lotte mancano oggi di slancio è perché manca il riconoscimento collettivo che le sprona a muoversi.
L’identità è un piccolo, fondamentale, ambito entro cui ricreare la forza comunitaria che nutre la rivoluzione, che la rende riconoscibile e desiderabile, che la fa comunicare ben oltre il semplice programma politico rendendola parte integrante e definita delle tensioni che muovono l’epoca.
Ci si muove in una realtà data, se ne è parte e bisogna farci i conti, ma all’interno di questa occorre operare fratture rivoluzionarie, dando luogo a lotte specifiche e puntuali come ad ambiti di socialità alternativa, inchiestare ciò che ci è prossimo e metterlo a critica; definire un metodo per costruire un universo nuovo. Ma non si possono semplicemente sommare tutte le lotte e le belle parole d’ordine che si adottano per creare una tensione rivoluzionaria a trecentosessanta gradi. Ogni colpo messo a segno va inquadrato in una cornice più generale che è quella di essere partigiani in lotta per il sovvertimento di un ordine nemico.
Per essere più brevi: noi camminiamo coi piedi ben saldi a terra, ma lo sguardo deve elevarsi ad orizzonti ben più alti dei palazzi che ci circondano.
Un programma rivoluzionario, degno di questo nome, non può prescindere da un nuovo umanesimo, dall’offrire una nuova e completa antropologia all’individuo e al collettivo; certo la puntualità dell’azione è orientata all’emancipazione materiale e politica, ma una fabbrica libera dal padrone produce automaticamente uomini liberi? No.
La rivoluzione si dà solo nel momento in cui il pane fa il paio con l’anima. Nel momento in cui rigettiamo l’identità imposta dal nemico e ci definiamo a partire dal nostro volere. Nel momento in cui da consumatori o cittadini, finalmente diveniamo partigiani.