di Giacomo Marchetti
Ciò che sta avvenendo in Algeria da più di un mese – precisamente dal 22 febbraio – determina una rottura irreversibile con il “sistema Bouteflika” che ha governato il Paese dal 1999.
Anche se questo movimento politico-sociale, inedito dalla conquista dell’indipendenza nel 1962, ha un carattere intergenerazionale, la spinta della fascia giovanile è fortissima.
Più del 50% degli algerini – che sono poco più di 40 milioni e per il 70% vivono in realtà urbane – ha meno di trent’anni, il paese conta un milione e settecento mila studenti – di cui un milione sono donne – che non trovano sbocco nel mercato del lavoro dominato dall’economia informale e dal precariato sociale diffuso ed in buona parte sono costretti a vivere tra le mura domestiche dei genitori talvolta fino ai 30 anni circa.
Questi giovani che nella storica visita di Chirac circa quindici anni fa chiedevano al presidente francese “più visti” per potersi recare nell’Esagono, ora esprimono fieramente la volontà di voler rimanere nel proprio Paese contribuendo a cambiare radicalmente le condizioni di esistenza come recitano molti cartelli e riportano numerose testimonianze, alla faccia della paura di una “invasione” degli algerini prospettata da Marie Le Pen dopo lo scoppio della crisi.
L’immigrazione “clandestina” via mare e la possibilità di studiare all’estero erano le uniche vie di fuga che fino ad ora dominavano l’immaginario giovanile, ma da un lato l’ulteriore inasprimento delle politiche immigratorie dell’Unione Europea e dall’altro l’aumento (di più di 10 volte!) delle tasse d’iscrizione per un corso ordinario universitario in Francia così come per i master annunciati dall’esecutivo francese per gli studenti non-UE (gli algerini sono il terzo gruppo universitario dopo coloro che arrivano dal Marocco e dalla Cina) hanno ridotto ulteriormente le già aleatorie possibilità di cambiare orizzonte di vita.
Questa fascia della popolazione non ha vissuto direttamente il “decennio nero” – cioè l’epoca che ha contrapposto l’esercito alle milizie jihadiste degli anni Novanta – un periodo in cui sono perite dalle 150.000 alle 200.000 persone a seconda delle stime, 20.000 sono scomparse e circa 400.000 hanno lasciato il loro paese.
È una generazione che non ha conosciuto a maggior ragione le mobilitazioni della seconda metà degli anni Ottanta duramente represse e i primi tentativi frustrati di trasformazione del sistema politico congelati dopo la vittoria elettorale del FIS poi annullata, e l’inizio della guerra civile.
Da allora lo jihadismo non è stato sconfitto solo “militarmente” ma è stato neutralizzato all’interno di una politica di riconciliazione nazionale – propugnata da Bouteflika – sostanziata da una redistribuzione della rendita degli idrocarburi – unica ricchezza del paese, ma ora in forte declino per una serie di ragioni non solo legate all’abbassamento del prezzo del petrolio – nel mentre si procedeva comunque ad una politica di privatizzazione che ha creato una oligarchia di rentier la cui fortuna – o la caduta in disgrazia – dipendeva dalla capacità di accaparrarsi pezzi di beni ex-pubblici con il bene placido del potere politico.
Non sono naturalmente mancati momenti di forte mobilitazione in questi anni, comunque duramente repressi, come in Kabylia con la cosiddetta “primavera nera”.
E proprio questa importante componente della popolazione – e dell’esilio – è molto attiva e fortemente presente nelle mobilitazioni, e predilige ribadire il suo carattere “nazionale” e le richieste politiche di cambiamento sistemico neutralizzando la consolidata strategia di divisione portata avanti dall’establishment.
Ma non sono solo i giovani a “ribellarsi” riempiendo con manifestazioni oceaniche le strade e le piazze di Algeri e delle altre realtà del Paese, accanto a loro ci sono state continue mobilitazioni di medici, avvocati, insegnanti, magistrati(!) e di parti del movimento operaio organizzato in rotta di collisione con la dirigenza sindacale dell’UGTA, e il piccolo commercio di prossimità che in occasione dello sciopero generale “spontaneo” ha chiuso (a seconda della città) i propri esercizi.
Le mobilitazioni sono state pacifiche, cariche di una ironia particolare, e con cori che riprendevano la tradizione “patriottica” della lotta di liberazione nazionale (1954-62) insieme a famose canzoni delle tifoserie calcistiche popolarizzate da youtube di aperta critica al sistema di cui la più famosa è la “Casa del Mouradia” dei supporters del USM d’Algeri.
Le manifestazioni prima si opponevano alla possibilità che l’ottuagenario presidente si candidasse per il quinto mandato consecutivo ed ora vista la rinuncia si oppongono ad una transizione gestita di fatto dalla classe dirigente attuale, si oppongono sempre più chiaramente al “sistema” tout court, venendo disilluse le più banali richieste di realizzazione della sovranità popolare che anche la Costituzione teoricamente garantirebbe.
Come ha detto un manifestante: “volevamo le elezioni senza Bouteflika, ora abbiamo Bouteflika senza elezioni” riferendosi al fatto che le elezioni sono state rimandate sine die, dovranno essere precedute dal una conferenza nazionale che senza margini temporali definiti dovrà varare una nuova costituzione che sarà poi sottoposta a referendum e poi si procederà a nuove elezioni.
Nel frattempo il presidente resta in carica…
I due uomini designati per la formazione del nuovo governo – entrambi espressione del vecchio entourage – stanno cercando all’estero il consenso di cui in patria non godono per attuare la loro strategia di “transizione” con il bene placido delle cancellerie occidentali – tra cui quella italiana – e dei partner strategici con cui intrattengono rapporti come la Russia (maggiore esportatrice di armi verso l’Algeria ed ora importatrice anche di grano) e la Cina, uno dei partner economici privilegiati che ha una notevole presenza “umana” (40.000 cinesi vivono in Algeria), oltreché economica e per cui l’Algeria è uno snodo centrale della “Nuova via della Seta”, nonché pivot per la rete infrastrutturale verso l’Africa sub-sahariana.
La comunità algerina all’estero sta sostenendo le mobilitazioni algerine.
In Francia dove vivono 760.000 algerini recensiti, nelle città dove la loro presenza è maggiore, come Parigi e Marsiglia per esempio, si stanno succedendo partecipatissime mobilitazioni domenicali che sono una sorta di contro-coro alle oceaniche mobilitazioni del dopo-preghiera del venerdì dove milioni di algerini invadono le strade e le piazza di tutte le città del paese.
Certamente la mobilitazione algerina più che in continuità con le cosiddette “Primavere Arabe” è contigua alle manifestazioni di insofferenza che una nuova generazione di militanti africani sta portando avanti nei loro paesi contro il neo-colonialismo francese benedetto dall’Unione Europeo di cui il Franco CFA e la presenza militare francese sono i segni più tangibili, nonostante il tentativo di depotenziamento e di cooptazione messo in atto da molte ONG occidentali che agiscono in profondità nel tessuto degli attivisti più giovani per annacquare le richieste e le pratiche dei nuovi “dannati della terra”.
Numerose sono state le dimostrazioni di astio nei confronti di Macron e del suo entourage teso ad una nuova politica di ingerenza che supporta la transizione in stile gattopardesco promossa dall’establishment.
Per altri versi la mobilitazione algerina ricorda quella che da dicembre sta scuotendo il Sudan contro la dittatura di Bashir, anche se in questo paese africano si è partiti da mobilitazioni scaturite dall’aumento sui generi di prima necessità a dicembre che hanno incontrato una durissima repressione a differenza di ciò che succede in Algeria, dove Esercito e Forze dell’Ordine che sono le parti dello stato che godono di maggiore fiducia in buona parte della mobilitazione e che hanno avuto sempre un ruolo di garante ultimo dell’assetto politico in periodo di grave crisi non sono minimamente intervenuti, tranne alcuni episodi irrilevanti che non hanno dato luogo ad un escalation della violenza da nessuna delle parti.
È una situazione molto delicata, quella algerina, ma che può essere gravida di risposte sia per la possibilità riappropriarsi di una rappresentanza politica istituzionale aliena dalla cricca di oligarchi che fino a qui ha governato il paese dopo il “decennio nero” arricchendosi alle spalle degli algerini, sia per la sua possibilità di sganciamento dai tentacoli del neo-colonialismo occidentale, sperimentando una organizzazione economica che si distacchi dal modello attuale di paese esportatore di idrocarburi ed importatore di beni di prima necessità, rendendolo “dipendente” da fattori che non fanno che impoverire la popolazione ed “in declino” vista l’agguerrita concorrenza internazionale, la riduzione delle capacità produttive e l’oscillazione del prezzo al barile.
In questo senso sono molto interessanti le esperienze di discussione e di organizzazione che si stanno sviluppando a livello territoriale e di settore – come i campus universitari – che costituiscono una preziosissima esperienza di educazione politica di massa. È nell’ampliamento e nel consolidamento di queste esperienze di democrazia di base che si gioca anche il futuro del movimento; esperienze che sono propedeutiche sia ad una ipotesi di trasformazione che bandisca la peste jihadista sia ai tentativi di recupero dei vari cavalli di troia della tendenza ultra-liberale collegata a doppio filo con i poli imperialistici internazionali che vorrebbe “sfruttare” le mobilitazioni per imporre una agenda più marcatamente liberista sotto le mentite spoglie della “democrazia aperta”.
Per tutti questi motivi le parole di Frantz Fanon nei Dannati della Terra trovano un valore profetico quando affermava quali fossero i compiti immensi dopo l’acquisizione dell’indipendenza: “il popolo verifica che la vita è combattimento interminabile”.
Ed il popolo algerino sta vivendo una seconda indipendenza.