di Sandro Moiso
James C. Scott, Lo sguardo dello Stato, eléuthera, Milano 2019, pp. 496, 22,00 euro
E’ davvero un piacere poter recensire un libro come quello di James C. Scott recentemente pubblicato da eléuthera. L’autore, docente di Scienze Politiche e di Antropologia all’Università di Yale, dopo aver condotto lunghe campagne di ricerca sulle differenti forme di resistenza contadina all’invasività dello Stato (soprattutto nel Sud-est asiatico), da anni si è dedicato allo studio delle trasformazioni avvenute in ambito socio-politico ed economico affinché potesse affermarsi una società basata sul dominio della produzione mercantile in cui la forma Stato avrebbe finito con lo svolgere una funzione predominante. Proprio per la centralità di questo suo interesse verso le forme di dominio, passate e presenti, esercitate attraverso l’intervento dello Stato, l’autore ha finito con l’occuparsi anche di Storia agraria, delle società non statali, delle politiche di resistenza messe in atto dalle classi subalterne e dell’anarchismo. Temi cui ha dedicato numerose opere, spesso tradotte anche in Italia, soprattutto da eléuthera.
Praticamente uno studio che nella sua opera più recente1 giunge a riunificare molti dei temi analizzati in passato in una originale e innovativa ricostruzione dell’avvento di ciò che per lungo tempo ci si è ostinati, e ci si ostina tutt’ora, a chiamare civiltà.
Guarda caso civiltà che viene ostentata e rivendicata proprio a partire, in tutti gli studi tradizionali, dalla fondazione dello Stato e di tutte le sue funzioni amministrative e repressive, sia di classe che di genere.
Un’ipotesi, se vogliamo, già affrontata da Friedrich Engels nel 1884 con il suo Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, ma che oggi si arricchisce di metodologie di indagine etnografica, antropologica e storica che all’epoca dell’autore tedesco, già attento all’opera di Morgan, non avevano ancora assunto l’attuale rilevanza e raccolto la stessa mole di informazioni.
E che, soprattutto, non aveva potuto ancora usufruire di studi come quelli di Michel Foucault su aspetti specifici della costruzione dei sistemi classificatori e repressivi (quali il carcere, il manicomio e la clinica) sussunti nelle funzioni dello Stato e dei loro linguaggi specifici a partire dall’Età Moderna.
Età in cui, a partire dal XVI secolo, secondo l’autore, lo Stato come strumento di centralizzazione autoritaria del potere si stabilizza definitivamente, diventando apparentemente uno strumento naturale del governo e della omologazione dei comportamenti sociali, culturali ed economici della specie.
Proprio il testo qui recensito, pubblicato in origine nel 1990, così come l’altro suo The Art of Not Being Governed: An Anarchist History of Upland Southeast Asia, e oggi corredato nell’edizione italiana da una Prefazione e da una Postfazione a cura di Stefano Boni, si concentra sui motivi e i metodi con cui lo Stato ha operato al fine di semplificare la propria conoscenza del territorio, delle lingue, dei comportamenti sociali e comunitari e delle differenti culture in essi inglobate, uniformandole e semplificandone la complessità implicita. Creando un’uniformità culturale, linguistica, comportamentale e spaziale (in tutto ciò non è affatto secondaria infatti la suddivisione geografica e la sua gestione, soprattutto urbanistica) atta a ridurre le differenti esigenze di socialità, le precedenti forme di gestione dei territori e dei beni comuni e le differenti culture vernacolari a canoni comportamentali, proprietari e comunicativi consoni alle esigenze di una sempre più concentrata, e talvolta concentrazionaria, funzione di controllo e gestione politico-amministrativa rivolta ad esaltare e difendere gli interessi di sempre più ristrette élite sociali (proprietarie dei mezzi di produzione e libere così di incamerare quote sempre più grandi della ricchezza socialmente prodotta) e una economia finalizzata esclusivamente alla produzione di merci.
Un’autentica operazione di cartografia sociale, ancor prima che spaziale, il cui intento dichiarato è sempre stato quello di migliorare le condizioni di vita degli esseri umani coinvolti, ma che raramente ha raggiunto i suoi scopi utilizzando schemi che, come recita il sottotitolo originale dell’opera pubblicata per l’ Istituto per gli Studi Politici e Sociali della Yale University, spesso hanno fallito.
Per denunciare tutto ciò Scott compie un lungo excursus, sia storico che spaziale, che prende in esame tanto le trasformazioni avvenute nelle città quanto nelle campagne, tanto in Occidente quanto in Oriente e, qui sta uno dei motivi di interesse principali, tanto in ambito di società capitalistiche e coloniali quanto nelle società post-rivoluzionarie sorte, ad esempio, dopo avvenimenti apparentemente catastrofici quali la Rivoluzione bolscevica, ma che in realtà non avevano fatto altro che trasbordare lo sguardo statalista, ordinatorio ed autoritario, da una realtà all’altra.
Senza sostanzialmente cambiarne il segno e senza riuscire, soprattutto, a cambiarne in positivo il risultato.
L’analisi della politica bolscevica, soprattutto nei confronti delle campagne e dei contadini, si affianca efficacemente, e in capitoli diversi, alle politiche di villagizzazione forzata condotte in alcuni paesi africani, come la Tanzania, e ne esamina i risultati, spesso disastrosi. Sia sul piano socio-politco che economico. Quasi come se l’uniformità forzosa imposta dall’alto dei comportamenti, degli stili di vita e di organizzazione del lavoro in agricoltura finisse non solo con il semplificare e impoverire i differenti aspetti delle attività umane, ma anche con l’incidere pesantemente sulle varietà biologiche del prodotto di quel lavoro. Impoverendo contemporaneamente sia le prime che il secondo.
Insomma un’autentica cronaca di un disastro annunciato, dei suoli e delle società.
Non è un caso che l’autore si soffermi così a lungo, anche in questo testo, sulle società contadine e il loro rapporto con il suolo e con il potere che lo delimita e ordina, poiché proprio le società contadine, in particolare del Sud-Est asiatico ma non solo, come già detto prima sono spesso state al centro delle sue indagini sul campo come antropologi e sociologo. In particolare in uno dei suoi primi testi, I contadini tra sopravvivenza e rivolta. Rivolta e sussistenza nel Sud-Est asiatico pubblicato in Italia nel 1981 e negli States nel 1976. Testo che nell’edizione originale aveva come titolo The Moral Economy of the Peasant (ovvero l’economia morale dei contadini), che introduceva all’interno della ricerca sociale e storica il concetto di economia morale, attorno a cui continuerà a ruotare negli anni una parte consistente delle indagini dello studioso americano.
Analizzando in quel testo la modificazione dei rapporti tra contadini e proprietari avvenuta in seguito all’introduzione dei dei meccanismi dello Stato moderno attraverso il processo di colonizzazione, Scott osservava come:
“«L’egualitarismo dei contadini è conservatore, non radicale: esso afferma che deve esserci una possibilità di vita per tutti, non che tutti devono essere uguali». I rapporti sociali all’interno del villaggio dovevano essere regolati in modo da assicurare a tutti la sussistenza e la socializzazione dei rischi: una concezione del mondo che è agli antipodi rispetto all’etica del lavoro e del profitto dei colonizzatori capitalisti.”2
Come continuava il Villani nella stessa Introduzione:
“Scott nega validità a teorie ‘astratte’ dello sfruttamento – a quella marxista in primo luogo – e afferma che per una qualsiasi coscienza occorre riferirsi ad un sistema di valori. La consapevolezza dello sfruttamento nei contadini deve essere quindi valutata sulla base della loro concezione etica, della loro visione del mondo e va perciò respinta la teoria della mistificazione e della falsa coscienza”.3
Questo sguardo ha permesso a Scott di indagare le motivazioni profonde del comportamento politico dei contadini e delle loro rivolte e spiegare perché proprio una classe con poca coscienza di classe abbia spesso fornito più del proletariato urbano le truppe di assalto della rivolta e della rivoluzione, soprattutto nei paesi coloniali ma non soltanto. Tema straordinariamente attuale ancora oggi anche nelle metropoli del Capitale.
Sguardo che rivelandoci come la mercantilizzazione dell’agricoltura e la diffusione del capitalismo, insieme alla formazione e al consolidamento delle strutture fiscali e amministrative dello stato moderno avvenute nel corso dei secoli, in Europa occidentale abbiano devastato e distrutto non solo le precedenti società contadine ma anche i principi dell’economia morale della comune sopravvivenza almeno fin dal Cinquecento, ci aiuta a comprendere come mercato, stato ed istituzioni religiose abbiano contribuito prima di tutto a colonizzare le nostre culture e società, fino a renderle nel nostro immaginario sinonimo di progresso e di inevitabilità di un determinato processo storico.
Contribuendo così anche, come ho già osservato altre volte, a renderci “convintamente bianchi e occidentali”.
Lo sguardo dello Stato è un testo impegnativo, utile e stimolante e forse l’unica annotazione che si può fare all’edizione italiana e ai suoi curatori è quella di aver scelto di tagliare diverse pagine dell’edizione originale a causa della sua lunghezza. Ma è davvero poca cosa in confronto all’importanza di avere a disposizione del lettore italiano un libro così significativo per l’impostazione non solo di un altro tipo di ricerca storica, ma anche di un altro sguardo sul nostro mondo attuale e passato..
J.C.Scott, Le origini della civiltà. Una controstoria, pubblicata in lingua originale nel 2017 e in italiano, da Einaudi, nel 2018 ↩
P.Villani, Introduzione all’edizione italiana di J.C.Scott, I contadini tra sopravvivenza e rivolta. Rivolta e sussistenza nel Sud-Est asiatico, Liguori Editore, Napoli 1981, pag. 14 ↩
P.Villani, op.cit., pag. 15 ↩