di Matteo Montaguti
Emiliana Armano e Raffaele Sciortino (a cura di), Revolution in our lifetime. Conversazione con Loren Goldner sul lungo Sessantotto, Colibrì 2018, pp. 112, € 14,00.
«Il problema per me è sempre stato quello di usare la scrittura come arma»
Loren Goldner
Nel cinquantesimo anniversario del Sessantotto, caduto nell’anno appena passato, sono state numerose le pubblicazioni, accademiche e non, che ne hanno tentato un bilancio, perlopiù di tipo storiografico, memorialistico o sociologico, oppure di basso taglio giornalistico. Ben poche, invece, quelle che hanno provato a farne un bilancio politico nitido, di lungo corso e soprattutto di parte. Tra queste va sicuramente segnalato, anche rispetto alla ricorrenza del mezzo secolo che ci separa dalla rivolta operaia del 1969, Revolution in our lifetime. Conversazione con Loren Goldner sul lungo Sessantotto, curata da Emiliana Armano e Raffaele Sciortino per i tipi di Edizioni Colibrì.
Loren Goldner, settantenne militante marxista e atipico intellettuale statunitense, è una figura poco conosciuta in Italia ma di spessore internazionale: ha al suo attivo un’infaticabile attività teorica e di pubblicista, con numerosi saggi di critica dell’economia politica, filosofici, letterari (alcuni dei quali tradotti anche in italiano, come L’avanguardia della regressione. Pensiero dialettico e parodie post-moderne nell’era del capitale fittizio e, in concomitanza con la crisi dei subprime in America, il volume Capitale fittizio e crisi del capitalismo, entrambi delle edizioni PonSinMor) e conduce da diversi decenni un recupero critico della storia di classe e una rigorosa analisi sulle trasformazioni del capitale, in particolare per quanto riguarda la sua finanziarizzazione, rileggendo la nozione marxiana di “capitale fittizio” alla luce della lunga crisi del dollaro iniziata dopo la rottura degli accordi di Bretton Woods.
Il volume curato da Armano e Sciortino è un denso ma agile strumento utile per la difficile operazione di definire un punto di vista militante e un metodo di pensiero autonomo che sappiano confrontarsi, oggi, con i tempi, le espressioni e le forme globali della lotta di classe – e quindi di un agire politico di parte – senza cedere alla rassegnazione dello sguardo contingente, alla vana nostalgia per il passato («la nostalgia non è un’emozione da marxisti […] cerchiamo di guardare al futuro a partire da una valutazione lucida e realistica del presente», p.72), alle facili narrazioni egemoni e alle difficili impasse della propria fase. Lo fa ripercorrendo un’esperienza soggettiva – ma anche collettiva – che non ha mai smesso, con coerenza e determinazione, di «rielaborare la teoria comunista come chiave interpretativa per leggere il presente» (p. 11), anche a costo di scontare la propria irriducibile risolutezza in solitudine politica e marginalità culturale, destino comune a ogni pensiero di rottura. Proprio perché è così difficile sciogliere la forma di vita dall’analisi radicale e dalla prassi politica di Loren Goldner, per tutto il volume la testimonianza autobiografica, la storia militante e il saggio si intrecciano ibridandosi in un discorso sfaccettato e solo apparentemente disomogeneo, diviso in quattro conversazioni (Marx a Berkeley nel ’68; Il lungo Sessantotto in prospettiva storica: un assalto al cielo; Per allargare lo sguardo: Asia oggi e ieri; Ritorno alla teoria e prospettive) accomunate dal seguire «sul filo del tempo» i tortuosi movimenti autonomi dei subalterni nel loro processo di costituzione in classe, precedute da una preziosa introduzione degli autori e da una lettera dove si ripercorre in sommi capi la biografia dell’intervistato.
Nella prima conversazione Loren Goldner, originario di una famiglia proletaria della Bay Area, ripercorre il processo di politicizzazione e soggettivazione di un giovane studente-lavoratore nel contesto degli anni Sessanta americani, caratterizzati dall’ascesa di un movimento eterogeno e dalle diverse componenti di classe, black, di genere, controculturali e generazionali, a partire da uno degli epicentri più importanti della contestazione studentesca, l’Università di Berkeley. È qui che incontra, dopo l’apprendistato nelle manifestazioni per i diritti dei neri e contro la guerra in Vietnam, Marx e la militanza dentro alcuni gruppi radicali della New Left, un impegno politico che si caratterizzerà – a dispetto delle pose maoiste e terzomondiste, o delle derive liberal e hippie diffuse del movimento – per un’eclettica ricerca della teoria marxista rivoluzionaria europea, attraverso un’originale commistione di influenze luxemburghiane, trotskiste e bordighiste, di critica antistalinista e suggestioni consiliariste. Qualche decennio prima, negli anni Quaranta, un mix in qualche modo analogo del milieu eretico trotzkista con la classe operaia black aveva generato, sempre negli Stati Uniti, la Johnson-Forest Tendency (CLR James, Raya Dunajevskaya, Grace Lee Boggs, Martin Glaberman) e le successive esperienze proto-operaiste di Detroit (Corrispondance e Facing Reality), da cui negli anni Cinquanta per il tramite del francese Socialisme ou Barbarie il cremonese Danilo Montaldi sarebbe stato influenzato, e a sua volta avrebbe influenzato le conricerche di Romano Alquati durante l’esperienza dei «Quaderni Rossi».
Goldner, che all’inizio degli anni Settanta abbandona i gruppi della New Left rimanendo però militante indipendente attivo nelle più diverse lotte, esplicita fin da subito una critica agli afflati controculturali, edonistici e di liberazione individuale del movimento statunitense, finiti poi per essere sussunti – una volta disgiunti da una critica sistemica complessiva e da una prospettiva di superamento del capitalismo con al centro il concetto di classe – dalla controrivoluzione neoliberista e dall’ideologia del postmoderno, e appare lucido nel vedere la distanza siderale tra i partitini della Nuova Sinistra e le manifestazioni di autonomia – al tempo sempre più radicale e in ascesa – della classe operaia, in particolare di quella composizione egemonizzata dall’operaio-massa dequalificato e – negli Stati Uniti – razzializzato che vedrà nel 1973 il suo apice di conflittualità internazionale.
Nella seconda conversazione, in cui viene esplicitato il perché Loren Goldner possa essere collocato oltre l’ambito ristretto e settario delle sinistre comuniste, vengono appunto approfonditi i motivi della dimensione globale e i limiti intrinseci del “lungo Sessantotto”, considerato al contempo un processo di ampio e lungo respiro preparatosi negli anni Sessanta ed esploso poi per tutti gli anni Settanta e una parentesi rispetto ai cicli lotte-ristrutturazione precedenti e al più lungo periodo di sviluppo del capitalismo. Una parentesi che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento come un punto nodale e un vero spartiacque, le cui radici soggettive affondano nelle potenzialità di rottura dell’iniziativa autonoma di una precisa composizione di classe, e
nella ripresa generalizzata, ancorché breve, dell’“utopia concreta”, quella faccia nascosta del triste mondo della misurabilità cui la vita quotidiana nel capitalismo è sottoposta, utopia scomparsa dagli anni Venti in poi. […] La classe operaia francese con il più lungo sciopero generale della storia, il lungo Sessantotto in Italia, le lotte a gatto selvaggio nell’industria britannica che costrinsero un’inchiesta parlamentare a parlare di “malattia britannica”, i successi del movimento operaio clandestino nella Spagna di Franco, la perdita di controllo da parte del management nelle fabbriche fin dentro gli Stati Uniti: ecco i tanti momenti di rottura in cui le persone, in massa, videro, seppur per poco, la possibilità di un altro tipo di vita prodotta dalla loro stessa autoattivazione (pp. 60-61).
Dalla narrazione emergono le impasse di quest’ultima offensiva autonoma proletaria, «rivolta su scala mondiale contro il sistema della catena di montaggio in fabbrica» (p. 61), e l’inadeguatezza delle teorie autogestionarie del «controllo operaio», concretizzatasi nel mancato passaggio politico «dalla critica pratica della produzione, e circolazione, immediata a quella della riproduzione sociale complessiva» (p. 12), ovvero dalla mancata – e forse oggettivamente indeterminabile in quel frangente – fuoriuscita dei rapporti di potere operaio accumulati in fabbrica nel potere operaio – politico, ma non solo – dentro e sulla società intera: il vero enigma che il lungo Sessantotto ha posto e continua a porre oggi. Proprio qua si nota come il punto di vista di Goldner prenda le mosse nel porre soggettivamente la potenza della classe prima del potere del capitale: prima le lotte, poi lo sviluppo capitalistico, prima il movimento conflittuale degli operai, poi la ristrutturazione del modello di accumulazione e comando capitalista. Un posizionamento che ricalca quel pensiero della rottura elaborato dall’operaismo italiano, non a caso, proprio durante gli anni Sessanta e Settanta.
Nella terza conversazione, sul filo della ristrutturazione capitalista globalizzata in risposta al ciclo di lotte del lungo Sessantotto, la narrazione di Loren Goldner passa ad analizzare il ruolo dell’Asia orientale quale contemporanea fabbrica globale ed epicentro di una rinnovata conflittualità operaia di massa, attraverso le sue esperienze militanti tra anni Novanta e anni Duemila in Corea del Sud, Giappone e Cina. L’analisi ha il pregio di mantenere come suo soggetto le espressioni e le tendenze di autonomia di classe manifestatesi nelle lotte dei lavoratori dei diversi paesi, senza disgiungerle dall’analisi del contesto storico e del rapporto sociale di capitale determinati per ognuna. Emerge uno scenario dove, a fronte di ogni equivoco e nostalgia per alcune similarità tecniche, emerge chiaramente come la dinamica della composizione di classe asiatica non possa essere assimilabile al percorso dell’operaio-massa occidentale e fordista degli anni Sessanta e Settanta, per via delle nuove forme flessibili di accumulazione, del contesto di crisi capitalistica mondiale e del “recupero accelerato del ritardo” in cui va collocata: «le classi lavoratrici europee e americane sono venute su e poi sono declinate in un lasso di tempo ampio, oltre cento anni di sviluppo capitalistico caratterizzato da effervescenza sociale, scioperi e sindacalizzazione di massa. Lo sviluppo asiatico si è concentrato tutto in pochi decenni» (p. 80). Appare interessante soprattutto per quanto riguarda il gigante cinese, ultima potenza mondiale ancora governata saldamente da un Partito comunista che, almeno formalmente, dice di rifarsi al marxismo ma teme sopra ogni altra cosa una rivoluzione operaia. Nell’ultimo decennio la Cina, a dispetto di ogni ipotesi di “società armoniosa”, ha visto crescere esponenzialmente scioperi, scontri e lotte radicali dei lavoratori dei suoi immensi stabilimenti produttivi, e «contenere questo crescente attivismo operaio e più in generale popolare è la massima priorità dell’élite del Partito comunista cinese» (p. 79.), in particolar modo «dopo la crisi di piazza Tien An Men del 1989 […] il tacito contratto tra il Pcc e la popolazione è stato: noi provvediamo a creare standard di vita crescenti e voi vi tenete lontani dalla politica» (p. 83). Goldner è capace così – discostandosi in modo anche brusco dall’approccio di Arrighi e Silver – di delineare alcune profonde contraddizioni e tendenze esplosive dello sviluppo e della proiezione geopolitica cinese, soprattutto successive la grande crisi del 2008 e a fronte della decadenza non solo statunitense, ma della stessa capacità di valorizzazione e riproduzione sociale del capitalismo contemporaneo.
Proprio questo punto viene inserito nella quarta e ultima conversazione, in cui si tirano le fila della periodizzazione di lungo periodo dello sviluppo – e decadenza – capitalista rielaborata da Goldner attraverso anche la centralità della categoria di capitale fittizio, e si provano a tracciare prospettive e linee di tendenza delle forme del conflitto e della ricomposizione di classe da un punto di vista globale e non eurocentrico, anche in vista dei segni sempre meno aleatori, a distanza di un decennio dalla crisi del 2008, dell’approssimarsi di una tempesta finanziaria peggiore di quella provocata dall’esplosione della bolla dei subprime, che ha già portato una volta l’economia mondiale sull’orlo del collasso e i cui effetti sociali, politici, geopolitici e ambientali sono sotto gli occhi di tutti.
Basti pensare, infatti, che nel 2018 si è stimato vi fossero 1,64 quadrilioni (milioni di miliardi) di dollari investiti in derivati, un oceano magmatico di capitale fittizio, titoli speculativi e liquidità tossica quiescente – solo nelle banche tedesche ve ne sarebbero più di 54.700 miliardi – pronto a eruttare. Una bomba a orologeria di debito privato e pubblico, il cui costo di gestione sta diventando insostenibile per gli apprendisti stregoni della borghesia, e di cui di recente si sono segnalate preoccupanti avvisaglie di scosse sui mercati finanziari mondiali. Per esorcizzare la paura di vedere il mondo precipitare in un secondo e più devastante 2008 si è preferito «così continuare ad alimentare all’infinito la piramide del debito attraverso le banche centrali, il sistema finanziario e il credito al consumo. In questo consiste il Quantitative Easing praticato dalla Federal Reserve, dalla Banca Centrale Europea e dalla Banca del Giappone dopo il crollo del 2008; il che ha permesso di guadagnare tempo e allontanare il collasso, al prezzo però di una crescita reale anemica» (p.93), ma non di evitare che le contraddizioni di un capitalismo in crisi di valorizzazione e sorretto da uno schema Ponzi di capitale fittizio vengano, prima o poi, al pettine. Occorre tenersi lucidamente pronti a questa possibilità e agli effetti sulla composizione di classe che essa può dischiudere, sembra suggerire Goldner, senza «essere eccessivamente pessimisti sulla situazione attuale», e senza «nulla da rimpiangere nella scomparsa della socialdemocrazia, dello stalinismo, del terzomondismo e dello statalismo welfarista, false utopie che hanno nascosto la cruda realtà del capitalismo» (pp. 95-96). Insomma, mai come oggi, in una fase di accelerazione dei processi di frammentazione di classe in corso e al contempo di ripresa di una conflittualità di certo confusa e spuria ma sempre più di massa e radicale, appare necessario ritornare criticamente alla sconfitta dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta per bilanciarne la portata e distillarne gli strumenti per superarla, in vista di un domani che rimane ancora tutto da scrivere.
«Sono ovviamente passati cinquant’anni da allora. E può sembrare assurdo leggerlo come l’apertura di una fase nuova della lotta di classe. Ma effettivamente in tutti i paesi toccati dal Sessantotto nulla è stato più come prima, la crisi che si è aperta allora non è mai finita» (p.63). Il “lungo Sessantotto”, quindi, non solo come crisi – e quindi trasformazione – irreversibile dei modelli di accumulazione vigenti nei contesti a capitalismo avanzato e crisi non riformabile della continuità storica del movimento operaio, ma anche come crisi irrisolta dei processi di soggettivazione e controsoggettivazione all’altezza del passaggio alla piena sussunzione reale; un processo-evento che ha rappresentato contemporaneamente chiusura e anticipazione di una determinata fase storica, che tuttora interroga i nodi aperti e contraddizioni vive del nostro presente.