di Gioacchino Toni
«Per una delle tante coincidenze poetiche della tradizione hollywoodiana, è il regista più emblematico dell’epoca dei grandi studi cinematografici, John Ford, a condividere il nome con il più emblematico di quella successiva: Fancis Ford Coppola. Il nome “Ford”, potremmo dire, era stato dato a questi due uomini dal sistema di cui erano parte più di quanto non fosse stato scelto liberamente da loro (o dai loro genitori). Questo nome era nell’aria, destinato ad indicare, più che un’automobile, un sistema produttivo. Con “sistema” si intende sia l’ordine economico americano in cui erano cresciuti, nessuno nella loro generazione poteva ignorare Henry Ford, e molti svolgevano quotidianamente il proprio lavoro nello stile da lui brevettato; ma anche la stessa Hollywood, il sistema in cui la cultura veniva prodotta in massa secondo i principi che avevano reso famoso Henry Ford» Jeff Menne
Il libro di Jeff Menne, Francis Ford Coppola, pubblicato da Postmedia books nel 2018 con la traduzione di Elisa Cuter, propone un’analisi della carriera di Coppola intrecciandola con i sistemi produttivi di Hollywood e della sua casa di produzione American Zoetrope. A lungo indicato come esempio di regista indipendente in guerra con la struttura di potere hollywoodiana, Coppola risulta particolarmente abile nel muoversi in un’economia in trasformazione finendo per contribuire al rinnovamento del cinema di Hollywood.
A partire da un’analisi che riprende la politique des auteurs elaborata dai «Cahiers du cinéma» francesi negli anni Cinquanta, intrecciandola alle modificazioni dei sistemi produttivi americani in corso nella seconda metà del Novecento, lo studioso si sofferma su film come la trilogia de Il Padrino (The Godfather, 1972, 1974 e 1990), La conversazione (The Conversation, 1974) e Tucker – Un uomo e il suo sogno (Tucker: The Man and His Dream, 1988), illustrando come in essi, ricorrendo ad una vera e propria estetica musicale, si rifletta l’idea di una società come famiglia e come lo studio da lui fondato, l’American Zoetrope, sia giunto a rappresentare un nuovo marchio di autorialità, un modello nuovo per la Hollywood postfordista.
Tra le questioni toccate dal libro, risulta interessante il confronto tra le modalità produttive introdotte da Hanry Ford e le produzioni e gli immaginari di John Ford e Francis Ford Coppola.
Se la carriera di John Ford si svolge in un periodo segnato dall’organizzazione del lavoro introdotta da Henry Ford, è pur vero, segnala Menne, che il regista «sceglie un linguaggio narrativo, quello del western hollywoodiano, che era interessato esclusivamente ad un mondo preindustriale. I western, confessò, rappresentavano la sua “fuga da Hollywood”, con il suo “smog” da grande industria. L’estetica del genere, con i suoi grandi spazi, dipendeva da quei luoghi che ancora si estendevano fuori e oltre le articolazioni del fordismo. Lì, John Ford sentiva di poter ancora fare “un buon lavoro”. Se i suoi film trovano modo di raccontare la cultura del lavoro che quotidianamente respirava, è solo per contrasto: l’industria, che rende ciascuno subordinato a un sistema, è rimpiazzata dall’agricoltura, che ancora lasciava spazio alla sovranità individuale o, perlomeno, la società agraria poteva ancora essere nostalgicamente ricordata in questo modo» (pp. 20-21).
Il fatto che Francis Ford Coppola si rivolgesse più esplicitamente al sistema in cui lavorava attraverso i film che questo gli consentiva di girare, secondo lo studioso non significa per forza che fosse più critico di John Ford; le diverse modalità di critica sono in parte dovute al differente contesto storico.
«Il soggetto fordista, per definizione, non può concentrarsi sul lavoro che fa, perché l’obiettivo del suo sistema di lavoro è quello di minimizzare il suo compito, e di conseguenza il suo investimento in esso, rendendogli invisibile il processo totale. Persino nella tenaglia del fordismo, però, esiste una possibilità di critica, semplicemente essa assume un aspetto differente. Quando John Ford racconta il progetto irrealizzato dell’industrializzazione, ad esempio, in Com’era verde la mia valle (How Green Was My Valley, 1941), lo fa spostando il problema in Europa e in un’epoca passata. Questo perché il fordismo, dove riesce, diventa impercettibile, non processabile a livello cognitivo. La storia suggerisce che esso diventa disponibile come oggetto di critica, e questo segnerà la differenza tra vecchia e nuova Hollywood così come quella tra vecchia e nuova sinistra, quando esso stesso è ormai entrato irrimediabilmente in crisi» (p. 21).
Coppola, pur nascendo a Detroit, nel cuore della produzione fordista, e per giunta all’ospedale Henry Ford, inizia la sua carriera in un’epoca diversa da quella di John Ford e ciò determina inevitabilmente un suo diverso rapporto col fordismo. La decisione presa da Coppola nel 1977 di togliere “Ford” dal suo nome, pur non trovando riscontro nelle motivazioni esplicitate dal cineasta, assume, secondo lo studioso, un curioso significato simbolico: quel liberasi di “Ford” sembrava suggerire la volontà di liberarsi del fordismo hollywoodiano.
Dunque, secondo Menne, quel rifiuto di “Ford” potrebbe suggerire il rifiuto di “Hollywood” e il saggio si propone di mettere alla prova tale convinzione verificando il ruolo assunto dal regista nella trasformazione del sistema lavorativo hollywoodiano. «Coppola si affianca così a persone quali Steward Brand e, più tardi, Steve Jobs, nel settore informatico, e prima d loro Betty Friedman per quanto riguarda le donne escluse dall’industria. Il nemico comune a queste figure era Henry Ford e le idee che, in suo nome, avevano improntato fermamente il metodo di lavoro nella vita pubblica e privata. Se da un lato della medaglia essi sembravano dei dissidenti pronti a distruggere il sistema, dall’altro ne sono i custodi. Il cambiamento che apportarono in quello che potremmo chiamare il “regime dell’accumulazione” fordista-keynesiano, ebbe anche l’effetto, sostengono alcuni, di scatenare il capitalismo. Milton Friedman, economista della scuola di Chicago, ne sarebbe stato lieto. David Harvey, marxista, molto meno. Ma coloro che radicalizzarono le relazioni del lavoro postbellico non potevano conoscere le direzioni in cui la storia avrebbe incanalato il loro attivismo. Si mossero con le maree della storia, però, e questo fu quello che diede ai loro sforzi tanta forza in primo luogo» (p. 22).
La ricerca di Menne prende il via dalla convinzione che i cambiamenti post fordisti debbano essere letti sia sul piano dell’economia globale che su quello individuale, dell’industria locale. «Questo libro traccia la misura in cui Coppola utilizzò i suoi film per rendere questa storia intellegibile in termini individuali. In essi, Coppola coordinò i domini del privato e del pubblico, rimuovendo le separazioni che avevano reso il lavoro individuale sconnesso dal processo globale. Il cinema di Coppola, i suoi temi e il suo stile, aspirava a un tutto organico. La sua osservazione più acuta su Henry Ford, infatti, fu che Ford “non stava solo creando automobili, stava creando città”. E questo vale anche per gli studi cinematografici, che erano spesso delle città vere e proprie […]. Se riconosciamo gli studi come autentici e totalizzanti spazi abitativi, dobbiamo concepire la loro gestione non solo nei termini di policy del posto di lavoro, ma anche in quelli della filosofia sociale» (pp. 22-23). Non a caso, nell’intervista rilasciata a Menne, Coppola sostiene che con l’acquisto degli Hollywood General Studios ha tentato di realizzare un ibrido tra il vecchio studio system e le nuove tecnologie (gli Zoetrope Studios).