di Alessandro Barile
Riflessioni a partire dal saggio Terrore e terrorismo di Francesco Benigno
«La giustizia del popolo è terribile»
[Tra la folla di Parigi, 10 agosto 1793]
«Il rivoluzionario è un uomo perduto»
[Sergej Nečaev, 1869]
«È solo per merito dei disperati che ci è data speranza»
[Walter Benjamin, Angelus Novus]
In questo «saggio storico sulla violenza politica», come viene precisato nel sottotitolo (Terrore e terrorismo, Einaudi 2018, pp. 370, € 32,00), allo storico Francesco Benigno preme svelare due caratteri dimenticati dalle interpretazioni sul terrorismo (utilizzeremo questo termine nel senso proposto dall’autore, cioè come sinonimo forzato di “violenza politica”): che questo è un prodotto europeo e non “barbaro”; che è un fatto politico e non (strettamente) religioso. Due avvertenze necessarie, visto il tratto emergenziale e immanentistico delle riflessioni sul tema. Nessuna delle centinaia di definizioni disponibili (nel 1988, ci ricorda l’autore, un’inchiesta condotta tra studiosi del fenomeno portò a una lista di 109 definizioni) giunge infatti a ricavare l’essenza del fenomeno, motivo per il quale al terrorismo è assegnata di volta in volta una rappresentazione contingente e giornalistica.
Per di più, sempre seguendo il filo del discorso introduttivo proposto dall’autore, terrorismo è di per sé un termine valutativo e, di conseguenza, dispregiativo. Non siamo in presenza di un lessico neutro. Al contrario, il termine contiene un giudizio di valore, tradotto in accusa morale: attraverso una definizione presentata come tecnica si procede allo stigma che distingue non tanto il fatto in sé quanto il soggetto che lo compie. Nulla vieta, ovviamente, di procedere analizzando e al tempo stesso combattendo idealmente l’oggetto di studio. Trattato come malattia, lo si comprende e lo si cura senza soluzione di continuità. Quando però scienza e politica procedono confondendo i propri ruoli (l’una piegata alla giustificazione dell’altra), diviene lampante la distorsione che rende sterile la mole inusitata di ricerche di questi anni. Alla fine delle centinaia di definizioni in contrasto tra di loro, l’unico denominatore comune è il fatto empirico: terrorismo è ciò che il terrorista fa. «Esso consisterebbe quindi in ciò che empiricamente e intuitivamente risulterebbe essere sotto gli occhi di tutti, una violenza insensata», dice Benigno. Definire il terrorismo attraverso le sue pratiche non può che portare alla contraddizione insanabile: se la pratica è quella della «violenza insensata», gran parte dell’attività politica porta con sé, quantomeno dormienti, i tratti del terrorismo. Un bombardamento contro civili, ad esempio (gli Usa sono uno Stato terrorista?); un’azione partigiana (la resistenza allo Stato islamico è terrorismo?); la morte del “tiranno” è un atto di per sé terrorista o liberatorio? E così via, ci si rinchiude nel recinto giornalistico o meramente poliziesco: non la violenza in quanto tale, ma la violenza dei “cattivi” contro i “buoni” è l’unica a dover essere marchiata dal termine in questione. Ma, anche qui, chi sono i buoni e chi i cattivi, se non particolari determinazioni storiche che, di volta in volta, definiscono chi viene considerato buono e chi cattivo?
Se è una definizione scientifica, il concetto di terrorismo dovrebbe valere tanto per gli uni quanto per gli altri “contendenti” in campo; se invece agisce sul piano discorsivo e polemico, aiuta alla stigmatizzazione del nemico ma perde i connotati scientifici, cioè universalmente accettati, di cui vorrebbe dotarsi. Insomma, non se ne esce. L’unico strumento possibile è una cauta ricognizione storica del fenomeno in grado di portare a una (parziale) estrapolazione dei caratteri determinanti. Questo il tentativo di Francesco Benigno attraverso il suo ultimo lavoro. Un lavoro necessario e pretenzioso. Necessario per tutto ciò che siamo andati dicendo: persa per strada l’osservazione della sua traiettoria storica, non ci resta che una quantità disordinata e inefficace d’ansia definitoria fondata sulla contingente prassi terroristica; pretenzioso perché la sola ricerca storica smaschera (e clamorosamente) i limiti odierni ma non è sufficiente alla valutazione complessiva del fenomeno. Alla fine, per altre strade, si sbuca comunque in un vicolo cieco, più avanzato del rispettivo accanimento giornalistico ma ancora dentro il labirinto.
Se il terrorismo è definito in base ai comportamenti del terrorista, sarà inevitabile concentrare l’attenzione – come infatti viene fatto dalla letteratura sul tema – sulla psicologia del soggetto. Come conclude Benigno, «la letteratura scientifica ha a lungo tentato di identificare una “personalità terroristica”, un calco in grado di dar conto di individui tanto diversi culturalmente e ideologicamente, fissando così in modo definitivo l’essenza di un terrorista». Di questo passo, altrettanto inevitabile sarà trattare questa ricerca psicologica nei termini della patologia criminale. Il terrorista è espressione di una deviazione dal normale e accettato comportamento umano. In altre parole, dalla legge: giuridica o morale, poco importa. Questo si scontra però con un’indagine storica poco più che elementare. Quale condizione psicologica accomuna Sante Caserio a Giangiacomo Feltrinelli, Vera Figner a Rosario Bentivegna, George Habbash a Mario Moretti, e questi ad un qualche combattente dell’Isis?
Non è semplice rispondere a questa domanda, perché in realtà esiste effettivamente una condizione psicologica comune, che però può essere colta unicamente partendo dall’esterno, dalle cause materiali che hanno portato determinate persone a determinate scelte. Il tratto distintivo e, se vogliamo, psicologico, che lega idealmente le più diverse esperienze terroristiche sta in questo: ciascun combattente è pervaso da quello che Franco Venturi, sulla scorta di una terminologia russa riferita al populismo della seconda metà dell’Ottocento, chiamerà «spirito consequenziario», la dedizione completa e inevitabile a una causa a partire da determinate premesse. La convinzione, etica prima ancora che politica, che una volta giunti alla verità poi non ci si possa che comportare di conseguenza. Le premesse dunque.
Il terrorismo non nasce da un’assenza etica, per quanto si sia voluto costringere dentro le maglie del nichilismo esistenziale, ma da una autoriflessione eticamente sovrastante che impedisce al soggetto di comportarsi come se non esistessero le determinate premesse di cui sopra. Il terrorista conosce bene il vicolo cieco entro cui decide volontariamente di collocarsi. Nessuna giustificazione etica può essere posta di fronte al problema del “dare la morte”, eppure il terrorista decide comunque di agire. Da un punto di vista coerentemente nichilistico non ci sarebbe contraddizione né tragicità: il dilemma avrebbe facile soluzione nell’assenza di principi etici condivisi con la vittima. Quale allora lo stimolo decisivo? Il criterio non è altro che quello del sacrificio. Affinché la semplice ribellione si trasformi in rivoluzione, affinché dunque la rivolta vinca, il ribelle è costretto a rinunciare personalmente a quei valori per cui lotta collettivamente. C’è un momento chiave, quello in cui tutta la realtà viene ridotta allo scontro tra rivoluzione e controrivoluzione. E’ un tempo sospeso dove si è costretti a una scelta obbligata. Lo schema è stato colto da Albert Camus nel suo Homme révolté: «Se infatti la storia, all’infuori di ogni principio, non consiste che in una lotta tra rivoluzione e contro-rivoluzione, la sola via d’uscita sta nell’aderire interamente a uno di questi due valori, per morirvi o risuscitarvi». Di conseguenza, «quando la rivoluzione è il solo valore, non ci sono infatti più diritti, ci sono soltanto doveri».
Viene dunque offerta non (solo) la propria vita, ma la propria anima, la propria purezza rivoluzionaria, ad un’idea giudicata superiore alla sofferenza personale determinata dalla scelta terrorista. Nel noto romanzo di Boris Sàvinkov, Cavallo pallido (1909), alla razionalità dell’enigma terrorista (uccidere non è permesso) fa da contraltare l’etica del rivoluzionario (dev’essere comunque fatto). Bisogna uccidere affinché non si uccida più. E’ la rivoluzione che spiega il sacrificio, ed è questo a fondare un’etica che sospende momentaneamente (e tragicamente, perché senza vie d’uscita) le regole stabilite per gli uomini, prima fra tutte l’indisponibilità della vita altrui. Come infatti dirà Sergej Kravčinskij nel suo The Career of a Nihilist, «Se dobbiamo soffrire, tanto meglio! Le nostre sofferenze saranno una nostra nuova arma. Lascia che ci impicchino, lascia che ci sparino, lascia che ci uccidano nelle loro celle sotterranee. Più ferocemente saremo trattati, più grande sarà il nostro seguito». Il motivo del sacrificio, cioè della perdita definitiva dell’innocenza, è al centro anche della nota poesia di Brecht A coloro che verranno (1939): «anche l’odio contro la bassezza stravolge il viso. Anche l’ira per l’ingiustizia fa roca la voce. Oh, noi che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, noi non si poté essere gentili». L’era della gentilezza, ovvero della compiuta umanità, sarà inaugurata da coloro che non poterono essere umani. Il premio sarà solo postumo: «Ma voi, quando sarà venuta l’ora che all’uomo un aiuto sia l’uomo, pensate a noi con indulgenza». D’altronde, ancora con Camus, «la rivoluzione consiste nell’amare un uomo che ancora non esiste». Tutto ciò ha un chiaro rimando religioso. Per concludere con le parole di Friedrich Hebbel citate da Lukács nel suo Tattica e etica (1919), «E se Iddio avesse posto il peccato tra me e l’azione che mi è stata imposta, chi sono io perché possa sottrarmi ad esso?». Se dunque «non c’è terrorismo senza cause e anzi, per meglio dire, senza una Causa», come rileva giustamente Benigno, è questa a spiegare quello «spazio di possibilità» che l’autore correttamente assegna al terrorismo quale strumento della politica, sfruttato storicamente da tutti i soggetti in campo (lungi dunque dai facili moralismi di chi momentaneamente detiene le redini del discorso politico).
La prima parte del saggio di Benigno parla di questa attualità della rivoluzione. Sia essa quella anarchica, risorgimentale, populista russa, anti-coloniale o – infine – comunista, era dentro questa idea-forza che veniva sciolto il nodo inestricabile del rapporto tra profonda umanità dell’idea rivoluzionaria e altrettanto drastica inumanità della prassi terrorista (non c’è problema nel riconoscerlo: il terrorismo, stricto sensu, è pratica inumana). Eppure fuori dalla rivoluzione la violenza terrorista ha continuato a mietere le sue vittime. Nel ventennio appena trascorso è stato il radicalismo religioso la fonte di legittimità della violenza politica. In realtà il motivo religioso ha colmato più che sostituito quello politico. A ben vedere gli obiettivi del terrorismo islamico rimangono strettamente politici, anche se rivestiti con abiti confessionali. Espunta l’idea di rivoluzione, non per questo è venuta meno l’idea di un tempo storico per il quale lottare, contrapposto al tempo presente di cui continuano ad essere vittime le masse (neo)colonizzate poste fuori dal discorso occidentale. Il ruolo dell’Islam radicale, piaccia o meno ai commentatori atlantici, ri-plasma con altre parole e con altre idee (poco utile definirle come “reazionarie” in questo caso) le ansie di liberazione dallo sfruttamento, l’oppressione, l’ingerenza esterna, la subordinazione, che una parte del mondo continua a sentire concretamente sulla propria pelle. Esattamente come la rivoluzione, il radicalismo religioso appaga tanto le esigenze immediate, la difesa comunitaria dalla povertà imposta dalle politiche imperialiste, quanto le esigenze ideali, immateriali, trascendentali di queste stesse masse (divenire protagoniste e non solo vittime della storia). L’Islam – si parva licet: esattamente come il comunismo – costruisce la cornice ideologico-materiale di una comunità di destino entro cui trovano risposta (va da sé, mistificata: c’è davvero bisogno di ricordarlo?) le esigenze basilari dell’uomo, quei bisogni politici che nel momento stesso in cui risolvono il problema del pane dicono anche: stiamo combattendo per un futuro in cui non ci sarà più alcuna lotta per il pane. E’ dentro questo scenario politico-escatologico che viene ri-attivata la dialettica tra tattica politica ed etica rivoluzionaria, in cui trova senso, per il terrorista, “dare la morte” e morire al contempo, sacrificandosi per un avvenire di cui non godrà alcun frutto. Il tutto, ovviamente, favorito dalla dimensione specificatamente religiosa che edifica un orizzonte di senso anche per “l’al di là”, laddove per il combattente rivoluzionario esisteva solo un “al di qua” che ne determinava il carattere insuperabile del suo sacrificio. L’agente della rivoluzione sa di lottare per qualcosa di esterno e irraggiungibile, e nonostante ciò decide di compiere il proprio dovere. Qualcosa che colse anche il democratico-liberale Turgenev, e però così sottilmente “complice” con quei rivoluzionari che bollò, seconda definizione destinata ad imprimersi nel tempo, come nichilisti. Nella poesia Sulla soglia (1878) questo farà dire alla protagonista (modellata sulla figura di Vera Zasulič, che firmerà, proprio nel ‘78, la prima azione “terrorista” del populismo russo attentando alla vita del generale Trepov): «Sei pronta al sacrificio? – Si. – Al sacrificio anonimo? Perirai e nessuno…nessuno saprà nemmeno di chi dovrà onorare la memoria! – Non ho bisogno né di riconoscenza, né di compassione. Non ho bisogno di un nome».
Il sacrificio come conseguenza di una situazione che non si è più disponibili a sopportare. Il tutto, ovviamente, considerato all’interno di un processo collettivo di maturazione di scelte politico-esistenziali altrimenti impossibili da sostenere (e da comprendere). Questo il motivo alla base della scelta terrorista. Una scelta oggi giustamente indecifrabile. Venuto meno il contesto, obliterato il collegamento con le cause materiali poste alla radice di una scelta di vita, l’opzione terrorista, almeno vista con occhi occidentali, rientra nella patologia psichiatrica da estirpare con la cura e con la legge. Di qui il percorso di redenzione (altro motivo religioso) per chi collabora e di pena eterna per chi persiste nella sua “irriducibilità”. Se, al contrario, volessimo capire i motivi alla base di una scelta così distante dalle nostre placide esistenze, quel che dovremmo fare è parlar d’altro. Dell’ingiustizia e della miseria, dello spossessamento e della servitù. Di qui alla comprensione storica del terrorismo il passo sarà breve.