Si attribuisce a Čechov, che di drammaturgia un poco se ne intendeva, un consiglio forse banale ma molto utile per ogni narratore: se all’inizio della storia si accenna a un chiodo piantato in una parete, alla fine il protagonista dovrà impiccarsi proprio a quel chiodo. Sembrerebbe evidente, dopo la faticosa visione del suo ultimo film Suspiria, che Luca Guadagnino non abbia mai letto Čechov.
Sull’onda dei recenti successi il regista siculo-britanno ha mirato in alto. Voler riscrivere Suspiria, non solo farne un semplice remake, è un po’ come voler riscrivere Casablanca o Mary Poppins: non si tratta necessariamente d’intoccabili capolavori, ma di film che hanno saputo fondare e definire un immaginario. Confrontarsi con simili opere è un’intenzione che richiede cautela, specialmente se si accarezza la velleità di trasformare Casablanca in La passione di Giovanna D’Arco e Mary Poppins in Il Settimo sigillo.
Argento, da onesto artiere senza velleità intellettuali, poteva ampiamente permettersi – almeno prima del suo precoce rincoglionimento, ci si perdoni l’irriverenza – di ignorare le lezioni del grande scrittore russo: il suo Suspiria non è niente di più e niente di meno di una psichedelica icona pop-gotica che ha turbato i sonni di generazioni intere. Qui la visione scavalca la scrittura, lo spasmo viscerale calpesta il guizzo cognitivo, la fantasmagoria sommerge la citazione erudita. Argento non ha affatto bisogno di Čechov, cioè della cultura, della costruzione rigorosa e razionale, della drammaturgia coerente. Invece l’iconoclasta incauto che osi infrangere il feticcio, che voglia coltivarne l’ambiziosa metamorfosi da puro incubo, miasma dell’inconscio, ad allegoria esistenziale, da trance de viande a trance de vie, allora sì che ne ha un bisogno assoluto: il passaggio da lodevole intenzione a compiuta realizzazione si bilancia come un fachiro sui chiodi di Čechov.
Guadagnino, palesemente più a suo agio con Melissa P. o con fanciulli gay altoborghesi che con le streghe, crede che l’efficacia dell’indigesto minestrone di Macbeth sia data non dalla qualità e dal dosaggio ma dall’accumulo degli ingredienti da rimestare nel calderone, e per la court-bouillon – non esattamente corta dal momento che impiega ben 2 ore e 32 minuti per riapparecchiare un film di 1 ora e 40 minuti – del classico argentiano, pensa bene di ammannire l’immaginario visuale di almeno tre tipologie filmiche diverse: il docu-drama fassbinderiano alla Deutschland im Herbst, con autentici ma posticci spezzoni televisivi sulla cronaca della lotta armata nella Germania degli anni ’70 culminanti nell’eccidio di Stammheim; il dance film, pieno di efebiche fanciulle piroettanti, in equilibrio fra Scarpette rosse e Flashdance; e ovviamente l’horror, indeciso fra il visionario-surrealista (gli incubi della protagonista), lo splatter-gore e il kitsch incondizionato (la ridicola tregenda da pretesa Walpurgisnacht finale). Tre film in uno: nessuno dei tre compiuto, nessuno dei tre omogeneo, nessuno in sintonia con gli altri due.
La bomboniera barocca e pop della Friburgo immaginata da Argento cede il passo alla Welthauptstadt degli slavati scenari berlinesi in stile Checkpoint Charlie, perfettamente in linea con la fotografia noir di Netflix (o Amazon, che è lo stesso), sempre uguale di film in film; i tanto criticati flat characters argentiani, piatti sì ma anche archetipici come nelle fiabe – dove bastano le streghe, per l’appunto, e le vittime delle streghe – prendono corpo nella forzata intellettualizzazione pseudo-realistica di Guadagnino, come vecchi psicanalisti post-Shoah, enigmatiche insegnanti di danza (incarnati entrambi dalla bravissima Tilda Swinton, nel primo caso en travesti, unica perla nell’ostrica avariata di questo film) o giovani danzatrici ribelli divenute fiancheggiatrici della Rote Armee Fraktion: non più archetipi ma stereotipi, ugualmente flat e soprattutto pretestuosi, irrisolti e scontati.
La cosa che più irrita di questo film è la pretenziosità e l’inconsistenza: il cinema italiano che si fa notare all’estero deve essere, evidentemente, pretenzioso e inconsistente. Luca Guadagnino ricorda fin troppo, nella perizia tecnica che non significa necessariamente stile come nel manierismo autoreferenziale, un altro recente premio Oscar italico: Paolo Sorrentino. Le tematiche scelte e il modo di narrarle da parte di entrambi i pluripremiati cineasti, sembrano dovere molto di più ai Big Data dell’algoritmo con cui Netflix e le grandi compagnie di produzione e distribuzione audiovisiva costruiscono a tavolino i loro show, che all’antiquata teoria romantica del Genio. Ma Stranger Things, con tutti i suoi limiti, è un prodotto quasi universalmente efficace perché esplicitamente dichiarato e venduto come tale: non siamo sicuri di poter dire altrettanto delle opere stucchevolmente “artistiche” dei succitati autori (con tutta la buona volontà di applicare alla lettera il masochistico “volontarismo dell’amore” della baziniana Politique des Auteurs).
Meno conformisti di noi però – che mai diremmo male di un artista di moda – gli americani hanno invece saputo trattare il nuovo Suspiria come merita: inserito nella classifica dei 10 peggiori film del 2018 da The Hollywood Reporter, è stato così commentato dal New York Magazine: «Due ore e mezza di streghe così logorroiche che Hänsel e Gretel si sarebbero gettati loro nel forno, pur di non starle più a sentire», mentre il New Yorker lo ha definito : «Un debole e sordido “holocaust kitsch” con un’eleganza da fanatico e la consistenza politica di una maglietta del Che». Nessun italiano ha osato tanto.
Per quanto riguarda chi scrive, che non partiva affatto prevenuto ma anzi incuriosito e addirittura ben disposto, la delusione, la noia e l’irritazione sono state forti. In un Suspiria che sia Suspiria (un possibile Suspiria degli infiniti presenti nella Cineteca di Babele), le streghe dovrebbero fare paura e non ciabattare di qua e di là come perpetue affollando la loro congrega come una riunione di condominio (e comunque alle riunioni condominiali di solito nessuno si taglia la gola all’improvviso come inesplicabilmente vediamo fare ad una delle signore presenti: l’evento non è perturbante, semplicemente incongruo); se oltre alle streghe ci si permette di tirare di mezzo il terrorismo, la Banda Baader Meinhof, il bleierne Zeit, e la strage di Stammheim, allora si presume che il testo vada letto in relazione al contesto (diventi anche politico, quindi) e che questo non sia solo pretesto: streghe e terroristi dovrebbero quindi entrare in contiguità metaforica e non solo circostanziale; se poi si insiste sulla provenienza della protagonista, la giovane ballerina americana interpretata da Dakota Johnson, da una famiglia Amish – e non Davidiana o Avventista del settimo giorno, o cattolica o ebrea – si ha ragione di cercare il motivo della scelta in qualcosa di più del possibile omaggio a Witness e a Peter Weir; infine che relazione si dovrebbe cercare fra danza e stregoneria e quale fra allieva e maestra: i saltelli faticosi dell’apprendista la cui elevazione è aumentata dall’insegnante Madame Blanc vampirizzando a vantaggio della giovane pupilla l’energia di un’altra danzatrice che collassa poco dopo, sono un segno ambiguo entro un sistema il cui contenuto ci sfugge; se il fondamento della vicenda è il passaggio di poteri cruento fra le Madri (Suspiriorum, pare, ma c’è una certa confusione), perché questo rinnovamento si snoda proprio intorno a un ballet e perché questo s’intitola proprio Volk ? Infine, se si vuole conferire centralità al personaggio dello psicanalista (che era poco più di una comparsa in Argento), perché il suo rapporto con quasi tutti gli altri protagonisti resta periferico fino alla fine del film, tanto da rendere ancora più immotivata l’apparizione, fittizia e indotta dalle streghe, della di lui moglie, dispersa nei campi di concentramento: un occasionale pretesto per evocare l’Olocausto (che fa sempre engagement) e per fornire un ruolo cameo a Jessica Harper, protagonista del vecchio Suspiria ? Troppi chiodi, nessun impiccato – direbbe Čechov.
Già la scena d’esordio stona: l’improbabile seduta analitica della ballerina “ribelle” che vorrebbe denunciare le streghe all’anziano terapeuta, il dott. Klemperer (Tilda Swinton irriconoscibile: anche questa scelta opinabile; tre ruoli di cui uno maschile a Tilda – per quale necessità a parte lusingare la giusta vanità dell’attrice ?), sembra una corsa a ostacoli, la ragazza si muove continuamente, si alza, si siede, passa da una stanza all’altra, raccoglie e depone oggetti (tra cui un testo junghiano, tanto per gradire), e intanto parla delle streghe (senza che ci si capisca nulla). L’analista, invece di sbatterla fuori a calci nel sederino, la sta a sentire pazientemente e, a quanto si evince dal seguito, qualcosa capisce (beato lui), mentre continua a tallonarla con fatica nelle sue deambulazioni, finchè lei non imbuca la porta d’uscita e se ne va. Un inizio più farraginoso non si poteva trovare.
Altre scene in verità sono efficaci, almeno se prese singolarmente. Una in particolare funziona davvero, quella in cui ogni movimento brusco della danza che la nuova venuta americana, sta provando in palestra produce una frattura sul corpo della collega cui ha sottratto il ruolo principale e che, in lacrime per la delusione, cerca di abbandonare la congrega: rinchiusa in una sala a specchi mentre le ossa le si frantumano pezzo a pezzo, la poveretta sbava e si orina addosso ridotta ad un tronco adunco e contorto. Meglio di Argento, ma è finita lì. Non ci sarà più niente di splatter (a parte l’immotivato autosgozzamento di cui si è già detto), non ci sarà alcuna atmosfera terrorizzante o misteriosa dal momento che le streghe sono spiattellate come tali fin dall’inizio (la prima riunione condominiale) – lo straniamento dato dall’accostare arcano e quotidiano, come ad esempio Polansky fece magistralmente in Rosemary’s Baby, è del tutto fuori dalle corde di Guadagnino. Invano si attenderanno sviluppi che mettano in relazione stregoneria e terrorismo giustificando finalmente la ridondanza dell’ambientazione, invano si cercheranno chiarificazioni sulle motivazioni e le relazioni tra i personaggi.
Si arriva così, dopo una masturbazione lunga due ore e mezza e scandita in sei inutili atti con tanto di titolo, al deludente e goffo finale: l’apparizione di Madame Marcos (ancora Tilda coperta di protesi in lattice): una scena che era il climax del film di Argento, e che qui non ha alcuna rilevanza perché in realtà di Helena Marcos quasi non si è mai parlato nel corso del film ed è perfettamente inutile tirarla fuori dell’armadio proprio ora. Ecco che Marcos decolla o quasi la rivale Blanc; poi Susie Bannon, l’allieva americana – in realtà, ma che sorpresa, è lei la legittima Mater Suspiriorum – trucida la Marcos mentre una sarabanda di ballerine nude saltella in giro e Susie si apre un buco sanguinolento fra le costole; poi una specie di Mostro della Laguna Nera, che dovrebbe rappresentare la Morte o il Diavolo o chissà cosa, compare sulla scena come il Commendatore nel Don Giovanni: alcuni muoiono, altri resuscitano, mentre le ballerine si accasciano, sempre dimenando tettine e chiappette in bella vista; lo psicanalista Klemperer, rapito presumibilmente per essere sacrificato, viene invece risparmiato (perché ?). Game over. Qualche giorno dopo Susie appare in camera dello psicanalista e gli spiega prolissamente le circostanze della morte della moglie in un lager nazista, poi gli dona l’oblio di tutto quanto (i lager bisognerebbe ricordarli per sempre invece, non dimenticarli: definire la morale di Guadagnino pericolosamente ambigua è dir poco…). Nella casetta di campagna dei Klemperer frattanto si trasferisce una giovane famiglia. Dettaglio su un cuore inciso sulla traversa della porta all’interno del quale forse – la mia attenzione da tempo è un po’ caduta e non sono del tutto sicuro – si leggono le iniziali presumibilmente dello psicanalista e della moglie. Dissolvenza. Fine.
All’ingiustificata gratuità della sceneggiatura corrisponde pienamente l’insussistenza della tanto decantata colonna sonora di Thom Yorke, leader del sopravvalutato gruppo rock dei Radiohead. Il film ha un soundtrack, o così dovrebbe essere, ma non ce ne accorgiamo, è come se non ci fosse. Se l’intenzione era fare il contrario dei Goblin ci si è riusciti perfettamente, ma i Goblin però si sentivano eccome ! Anche la musica dunque delude quanto tutto il resto e alla fine, se vogliamo proprio salvare qualcosa, restano solo le prove attoriali, della Swinton in particolare, perché tutti gli altri non spiccano particolarmente. L’algoritmo di Netflix evidentemente ha fallito; ha indicato ad autore e produttori una serie di parametri per aggiornare un vecchio film come un architetto scalcagnato rimodernerebbe un loft: Berlino (città di moda); Anni di piombo e Olocausto (riferimenti fighi); Radiohead (gruppo di moda); Tilda Swinton (attrice di moda meglio se multiruolo come Peter Sellers, altro riferimento figo); ballerine (meglio se nude); splatter (non troppo); e così via. Ma sembrare fighetti non basta. Il vero problema era tenere tutto insieme. Un chiodo dopo l’altro.
“Se c’è un chiodo, a quel chiodo qualcuno si deve impiccare” – ecco prorompere minaccioso come Nemesi il povero Čechov, sovrapponendosi ai titoli di coda. Così ai troppi chiodi del Suspiria di Guadagnino chi finisce per impiccarsi è lo spettatore.