di Maurone Baldrati
L’anno scorso, in occasione della Rivoluzione d’Ottobre, la Russia ha prodotto una miniserie in otto puntate su Trotsky. Pare che vi sia stato un input personale di Putin, di indagare e rappresentare questa fase storica con “coraggio”. Con coraggio? Dipende dai punti di vista. Uno storico di Mosca, Ilya Budraytskis, la pensa così: “Questa interpretazione (putiniana ndr) si riassume nella criminalizzazione della rivoluzione stessa come fenomeno politico. La rivoluzione si presenta come un risultato della combinazione di odiose ambizioni umane, la brama di potere, l’egoismo, la lussuria, e le macchinazioni di nemici stranieri, che supportano tali ambizioni, e le utilizzano per la distruzione dello Stato russo”.
In effetti la vicenda, avventurosa, psicologica, onirica, drammatica e spettacolare, stupisce e inquieta: Lenin, per esempio, è rappresentato come un piccolo uomo vanesio, avido solo di potere e di successo. Avversario storico di Trotsky fin dal II congresso del POSDR (Partito Operaio Social Democratico Russo) del 1903, si allea con lui perché è costretto, ma arriva a ricattarlo e a minacciarlo perché deve essere chiaro che è lui, e solo lui il leader. E la rivoluzione è soprattutto opera dei leader che, teorizza lo stesso Trotsky, devono assurgere al ruolo supremo, il ruolo di semidei. Solo così le masse li seguiranno.
La rivoluzione del ’17, preparata da una lunga opera di propaganda, di scioperi e insurrezioni che sfoceranno – dopo il massacro del gennaio 1905 a Pietroburgo, quando la Guardia Regia aprì il fuoco su una folla di manifestanti disarmati – in un primo tentativo rivoluzionario nello stesso anno, in questa serie ha al centro soprattutto un aspetto: un cinismo totalizzante, un obiettivo da raggiungere a ogni costo, col calcolo, col tradimento se è necessario, con l’esecuzione dei disertori, che sono “dettagli”, effetti collaterali. Addirittura con finanziamenti di paesi nemici, paesi capitalisti che hanno come unico obiettivo la destabilizzazione della Russia attraverso la rivoluzione. Infatti dietro le quinte complottano personaggi ambigui, un trafficone che agisce per conto di uomini d’affari tedeschi e si muove, vestito come un damerino della Belle Epoque, tra i socialisti rivoluzionari e gli operai, suggerendo, manovrando, costruendo l’immagine dei leader come un moderno influencer politico.
D’altra parte la situazione era drammatica. C’era la guerra, il paese dei Soviet era allo stremo, inoltre le potenze occidentali avevano tentato un’invasione e infiltravano continuamente agenti provocatori e spie. Tutti aspetti che non entrano nella serie, che si concentra soprattutto sugli intrighi, i personaggi, e due aspetti che sembrano irrinunciabili nelle serie moderne: sesso e violenza. Per dire, Trotsky ci dà dentro come un riccio, con la moglie Natalja, con l’amante quando è il capo (e il fondatore) dell’Armata Rossa, e addirittura in Messico nel 1940, durante l’esilio, con Frida Kahlo, anche se è curvo e malato. La violenza, poi, è praticamente obbligatoria: siamo o non siamo nel cuore della dittatura comunista? Quando il treno della rivoluzione, nel 1917, in piena guerra civile, finisce il carbone e si ferma in una sterminata tundra innevata, non resta che prelevare le croci di legno di un cimitero. Poi, quando arriva un drappello di povera gente imbacuccata per fare visita ai propri defunti, e si infuria per quell’oltraggio, per toglierseli di torno i militari non trovano di meglio che sterminarli tutti. E Trotsky, alla domanda dello spietato commissario del popolo che ha dato l’ordine: “Che facciamo di loro?” indicando i cadaveri degli uomini, delle donne e dei bambini, li guarda con la sua faccia di pietra e dice: “Andiamo”.
Il treno della rivoluzione è un piccolo capolavoro della serie, che cura molto i dettagli, gli arredi, gli scenari. Enorme, nero, potente e minaccioso, con le bandiere e la stella rossa incastonata sul frontale, sfreccia per l’Unione Sovietica col suo pennacchio di fumo nero. A bordo c’è lui con la sua guardia personale, tutti fighettoni vestiti con impeccabili completi di cuoio nero, che oltre a ricordare il comandante del Partigiano Johnny evocano i guerrieri punk di un mondo postapocalittico.
Proprio questi aspetti per così dire epici, che richiamano una certa, tragica grandeur, fanno di Tроцкий un prodotto affascinante, una grande opera pop, nonostante le innumerevoli inesattezze e addirittura le falsificazioni. Come quando Trotsky va incontro al suo assassino, un giornalista, e lo provoca fino a farsi uccidere perché ormai ha capito che è tutto finito, e i morti che ha sulla coscienza lo perseguitano. In realtà sappiamo che l’assassino era un sicario di Stalin, Ramon Mercader, fratello di Maria, seconda moglie di Vittorio de Sica e quindi zio di Christian, che aveva pianificato con cura l’omicidio, portando con sé una piccozza col manico segato, mentre qui la piccozza (col manico intero) è appesa al muro della casa.
Il personaggio è complesso, ossessionato dalla propria missione, liberare il mondo dalla schiavitù capitalista, per la quale è disposto a sacrificare la propria vita e quella dei suoi cari. I suoi comizi, i suoi discorsi, in piedi su carretti e tavoli improvvisati, sono alti, forti e senza una sbavatura. Chi non conosce la storia non può che subire il fascino di questa epopea e dei suoi eroi, un coacervo di positività e negatività, eroismo e meschinità, guerra, tragedia e avventura; chi invece l’ha studiata si stupirà per le soluzioni adottate, forse si arrabbierà, ma una volta iniziata non la mollerà e sarà disposto a passare una notte in bianco pur di vedere le otto puntate di seguito. Non si fermerà, come non si è fermata la rivoluzione.