di Gioacchino Toni

Francisco Soriano, Noe Itō. Vita e morte di un’anarchica giapponese, Mimesis, Milano-Udine 2018, pp. 116, € 13,00

Nel settembre del 1923 il “Male Oscuro” si abbatte sulla regione del Kantō in Giappone: un violento terremoto devasta i territori di Tōkyō e Yokohama ponendo termine ad oltre centomila vite umane. Sullo sfondo di tale catastrofe naturale, sfruttando il generale disorientamento, uno squadrone della polizia militare non ha di meglio da fare che arrestare e uccidere la scrittrice anarco-femminista Noe Itō, l’anarchico Sakae Ōsugi ed il piccolo nipotino che era con loro.

Il libro di Francisco Soriano, oltre a fornire elementi di storia, cultura, religione e politica del Giappone, narrando la vicenda di Noe Itō e il dibattito prodotto dalla rivista «Seitō», contribuisce a ricostruire la nascita e l’evoluzione dei movimenti anarchici e femministi nipponici  nella prima metà del Novecento.

Scrive Rossella Renzi nella Prefazione che quando in un Pese monta l’ossessione per la sicurezza, così come accadde nel Giappone di inizio Novecento che fa da sfondo alle vicende narrate nel libro di Soriano, «tutto ciò che diverge dai Codici […], dal Diritto costituito e dalla Legge consuetudinaria deve essere espulso o distrutto. A livello più generale, il desiderio psicologico delle autorità di avere tutto sotto controllo e di aspirare a una sicurezza assoluta può portare a conseguenze terribili, come ci ha tristemente dimostrato il XX Secolo, sfociando nei fenomeni del totalitarismo. Il terremoto aveva generato negli abitanti dell’isola un senso di precarietà, insieme al bisogno di trovare una “causa”, una radice che avesse generato quella calamità che si era abbattuta sulla loro terra. Proprio in quegli anni, in pieno sviluppo economico, quando stava nascendo un proletariato consapevole della propria identità e stava prendendo forma una “coscienza collettiva popolare”, ci si iniziava ad interrogare sulla correttezza e sul rispetto dei principali diritti civili: si percepiva allora un fermento di rinnovamento e di desiderio libertario che infastidiva non poco le autorità giapponesi. La gestione della sicurezza interna diviene una preoccupazione ossessiva, così l’autorità giapponese – attraverso corpi di polizia e squadre di controllo – mette in atto azioni di persecuzione nei confronti di quegli attivisti che agivano per affermare e proteggere il bene dell’individuo, per ottenere leggi più giuste e umane, in particolare in favore dei lavoratori e delle donne. In questa campagna di odio, scaturita in particolare nei confronti di anarchici e coreani, vengono perseguitati i movimenti libertari composti da operai, studenti, medici e professori, intellettuali e monaci buddisti, le cui attività erano pacifiche» (p. 14).

Nel caos seguente al disastro naturale che nel settembre 1923 aveva sconvolto la regione del Kantō, con il pretesto che trame bolsceviche e rivoluzionarie avrebbero potuto usurpare il potere, il governo giapponese ritenne necessario scatenare la persecuzione e la soppressione degli oppositori politici. Con la scusa di evitare atti di sciacallaggio vennero conferiti maggiori poteri ai militari che, in una escalation paranoica, giunsero persino a bloccare gli aiuti di prima necessità inviati dalla Russia nel timore che tra viveri e medicine si potessero celare sobillazioni sovversive.

«Fu il tempo di una sistematica e programmata caccia alle streghe: cominciò una capillare ricerca di presunti responsabili di azioni di sabotaggio. Moltissimi cittadini indifesi rimasero uccisi nei linciaggi della folla inferocita e aizzata dalla propagazione di false notizie diramate anche dalle autorità nipponiche. Fu un gesto ragionato e criminoso, messo in opera da coloro i quali intendevano sconfiggere il potere di un male oscuro, alimentato da un demone occulto nella coscienza collettiva popolare. In Giappone, già tre anni prima del sisma del Kantō, si verificarono i primi casi di insofferenza. Si diede inizio a una persecuzione sorprendente di intellettuali e di dirigenti dei movimenti antagonisti al regime» (pp. 23-24).

L’ossessione securitaria era dilagata al pari delle notizie incontrollate e abilmente diffuse dal regime che volevano gruppi di socialisti, nei pressi degli incendi divampati a causa del terremoto, intenti ad agitare le loro bandiere rosse inneggiando alle fiamme divoratrici della società capitalistica, si diceva di anarchici e socialisti intenti ad appropriarsi dei beni dei cittadini, appiccare fuochi e avvelenare i pozzi. Anche gli stranieri, soprattutto coreani, vennero additati di condotte criminali durante le fasi convulse successive alla catastrofe. Furono organizzate milizie di cittadini per dare la caccia e uccidere i coreani; nella sola Yokohama almeno trenta furono giustiziati sommariamente (bruciati vivi), mentre a Saitama vennero presi d’assalto i camion sui quali venivano trasportati i coreani fermati e molti di costoro finirono per essere torturati, uccisi e fatti a pezzi.

Negli anni dell’Era Taishō (1912-1926), che portano il Giappone a diventare una potenza industriale, un nascente proletariato cosciente della propria identità e forza oppositiva, insieme a una parte della borghesia più illuminata, mette in discussione alcuni dei valori fondanti il sistema imperiale. Con l’avvento di Hirohito e il radicamento di forme estremiste di sciovinismo, il paese che intendeva presentarsi come moderno e progressista virò presto su posizioni liberticide che portarono alla promulgazione di leggi emergenziali esplicitamente rivolte a contrastare l’azione antagonista di anarchici, socialisti e comunisti.

«Dalla sordida retorica del regime, gli anarchici erano stati etichettati come sabotatori di idee positive colpevoli di minare l’ottimismo nazionalista, di essere irriguardosi verso la fede e l’obbedienza all’imperatore, di cospirare contro le istituzioni a favore di forze straniere. La repressione fu senza esclusione di colpi proprio nel momento in cui, il terremoto aveva devastato e reso fragili, le coscienze degli uomini. Una logica perversa messa in atto per annientare i propri figli illegittimi come agnelli sacrificali» (p. 26).

Partiti radicali messi fuori legge, stampa sottoposta a censura e a veline di regime, sospensione dagli incarichi e condanne a chiunque si mostrasse non in linea con le autorità, epurazioni e sparizioni di personaggi scomodi, riunioni pubbliche sottoposte a controllo poliziesco, questo era il clima che si respirava nel Giappone dei primi decenni del Novecento. «In venti anni, fino al 1945, più di 75.000 persone furono attenzionate, imprigionate e torturate. Le vittime vennero sottoposte a regimi detentivi inumani e trattate con inusitata efferatezza: pochi riuscirono a sopravvivere alle malversazioni fisiche e psicologiche. Le formazioni politiche più reazionarie, con la collaborazione delle forze dell’ordine e dei militari, riuscirono a costruire un clima culturale di aggressione incondizionata al fine di tutelare la sicurezza» (p. 26).

La figura di Noe Itō, nata nel 1895 da una famiglia poverissima sull’isola di Fukuoka, scrive Soriano, deve essere inquadrata in un momento storico caratterizzato da un serrato scontro generazionale e di classe, in cui si fronteggiavano aspramente movimenti antagonisti e istituzioni, istanze internazionalistiche pacifiste e nazionalismi. «In tale contesto la società patriarcale tentò una strenua resistenza come risposta alla moltiplicazione di idee e gruppi di oppositori politici. La prospettiva di superamento del feudalesimo non fu certo indolore e le contraddizioni sociali non fecero altro che estremizzarsi all’ombra di una centralizzazione nel potere nipponico parallelamente a una deriva decisionale e sovranista senza precedenti» (p. 80-81).

L’approccio politico di Noe Itō e del compagno Sakae Ōsugi «era completamente diverso da quello di socialisti e comunisti: si innestava sui principi anarchici universali che superavano culture, Stati e frontiere. A differenza di molti esponenti del socialismo nipponico ma anche di tanti libertari, non subirono mai la folgorazione del culturalismo nazionale, riferimento imprescindibile per le istituzioni e per una larga maggioranza della popolazione educata allo sciovinismo, al consenso e alla sete di conquista» (p. 84).
Nel 1911 Noe Itō etra a far parte del gruppo della rivista «Seitō», pubblicazione caratterizzata da una «vocazione polemica che poneva l’accento su problematiche che riguardavano il mondo femminile, nel suo ruolo sociale e nella sua funzione politica. Il matrimonio combinato, l’aborto, la prostituzione, la contraccezione furono i primi temi affrontati dalla rivista nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica non solo femminile alla rivendicazione dell’uguaglianza di genere» (p. 85). La rivista verrà chiusa nel 1916 dalla censura dopo numerose vessazioni poliziesche.

«Noe Itō fu una donna intelligente e brillante; nonostante fosse di umili origini seppe imporsi, in un contesto sociale fortemente discriminante, con lo studio appassionato e uno spirito di abnegazione incredibile. Con coraggio e ostinazione, prima collaborò con i suoi articoli al successo della rivista «Seitō», in seguito ne divenne la caporedattrice. Al suo arrivo, la testata giornalistica subì una vera e propria mutazione genetica: si caratterizzò nella rivendicazione dei diritti di uguaglianza di genere conferendo ai suoi scritti una chiara impronta anarco-femminista. Le autorità seguirono con estrema attenzione la svolta che Noe Itō aveva impresso al mensile: mise in discussione, radicalmente, i valori di una cultura maschilista e oscurantista […] Con una critica sociale serrata e con la rivendicazione forte della libertà d’opinione, Noe Itō testimoniò il suo impegno politico portando a compimento la traduzione del libro The Tragedy of Woman’s Emancipation, di Emma Goldman. Dalla libertaria occidentale trasse l’afflato femminista più autentico e interpretò con estrema coerenza il principio dell’azione diretta per il raggiungimento di obiettivi reali. Fu compagna e attivista di Sakae Ōsugi che collaborò alla traduzione degli scritti della pensatrice russo-lituana. Fu grazie a questa iniziale collaborazione che fra i due nacque una vorticosa relazione amorosa. Il loro rapporto basato sul rispetto assoluto della libertà individuale e sessuale sorprese i benpensanti e scatenò scandali e dicerie. […] Noe Itō ha rappresentato per il suo Paese l’anima ribelle di una nuova generazione di donne. La sua lotta è la testimonianza che l’afflato libertario ha pervaso anche comunità di popoli geograficamente e culturalmente distanti ma non marginali alle realtà europee e occidentali. L’elaborazione teorica, l’azione diretta, la fondazione di movimenti sindacali, l’infaticabile lavoro di traduzione di classici dell’anarchismo internazionale, dimostrano quanto sia fuorviante la convinzione che a oriente del mondo, i modelli libertari siano irrealizzabili o incomprensibili» (pp. 30-31).

Tra i responsabili della feroce eliminazione di Noe Itō, Sakae Ōsugi e del nipotino, figura il capitano Amakasu Masahiko, tristemente noto per il suo sadismo nei confronti dei prigionieri. Dopo aver ammesso di aver organizzato e preso parte alla spedizione punitiva, strangolando personalmente i tre dopo averli bastonati, Masahiko dichiarò di “aver agito per l’amor di patria e nel timore che gli anarchici potessero provocare disordini nella difficile ora del terremoto”. Insomma il fine supremo del mantenimento dell’ordine giustificò la formazione di squadroni della morte al fine di bonificare cittadini inermi e ideologicamente antagonisti al potere. Nelle due settimane successive al sisma furono arrestati e assassinati in una caserma di Tōkyō almeno altri quattordici operai attivisti del movimento sindacale, probabilmente con modalità non tanto diverse da quelle con cui era stata eliminata la famiglia Ōsugi.

Nel primo anniversario del terremoto, l’anarchico Kyutaro Wada pensò di vendicare l’uccisione dei compagni con un attentato nei confronti del generale Fukuda Masataro, comandante militare all’epoca dei fatti. L’attentato fallì e Wada, condannato per tentato omicidio a vent’anni di carcere nel terribile terribile penitenziario di Akita, dopo quattro anni di detenzione venne ritrovato impiccato. Il capitano Masahiko, torturatore e pluriomicida, venne invece condannato a dieci anni di carcere poi commutati in due per amnistia.

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La storia di Noe Itō e Ōsugi Sakae è stata narrata nel film Eros + Massacre (1969) di Kijū Yoshida, regista formatosi nell’ambito del cinema d’avanguardia nipponico degli anni Sessanta.

Film: Eros + Massacre (1969) di Kijū Yoshida

«Il film è una sequenza di immagini che sembrano astratte e si sovrappongono vorticosamente in azioni, gestualità e dialoghi che giocano ruoli di realtà e finzioni su piani diversi e sospesi. Le voci degli attori fuori campo diventano suoni suggestivi e spesso i protagonisti sembrano recitare con i loro sguardi fissando il vuoto: i due studenti che si mettono sulle tracce di Itō e Ōsugi, si muovono in un gioco di realtà e finzione, nel tentativo di rappresentare l’ellissi umana e politica dei due libertari. Eiko e Wada sono ricercatori e indagano sulla vita politica di questi personaggi intersecando le esistenze dei protagonisti in un gioco complesso e affascinante. Yoshida esalta alcune problematiche che la coppia Ōsugi-Itō cercava di affrontare sublimando la loro idea libertaria e antistatalista. Il crimine di Stato perpetrato in quell’occasione rimane un fatto storico di analisi e riflessione. È la consapevolezza forse, come ammette lo stesso Yoshida nel 1970 in una intervista alla rivista «Cahiers du Cinema», che “alcuni dei problemi posti da Ōsugi sono quelli che ancora sopravvivono nel sociale del Giappone contemporaneo e sono utili per capire come cambiare le cose e in che modo farlo”» (pp. 96-97, n. 40).