di Maurizio Marrone
Matteo Meschiari, Bambini. Un manifesto politico, Armilliaria 2018, pp. 100, € 10,00.
Bambini, di Matteo Meschiari, è molte cose. Nel sottotitolo l’autore dice che è un manifesto politico, e sicuramente lo è. Ma è anche un saggio che contiene una raccolta di saggi, ciascuno dei quali, a sua volta, ospita riflessioni di matrice politica, ovviamente, ma anche antropologica, sociologica, pedagogica, di psicologia cognitiva e di analisi del costume. Per evitare inutili e inefficaci rincorse paratattiche e per non rischiare di perdersi nelle molte suggestive e a volte ardite peregrinazioni che compongono il testo, bisogna fidarsi del suo autore: considerare Bambini come un trattato politico e partire quindi dalla questione “politica” che, come un antico arcolaio, compone in filato la matassa intrecciata delle sue argomentazioni. Sostanzialmente tutto il testo è una lunga e composita cogitatio in margine ai concetti di oppressione e controllo. Fin qui niente di nuovo. Molti autori prima di lui hanno percorso lo stesso cammino: Karl Kraus, Guy Debord, Siegfried Kracauer, Zygmunt Bauman, solo per citarne alcuni che con lui condividono il medesimo sguardo eccentrico. In maniera del tutto originale però Meschiari, per dar corpo alle sue analisi, non prende in esame la società dello spettacolo e dei consumi, la fenomenologia del rifiuto reificato o l’universo falsificante dei media. Nella sua ricostruzione, la prima forma di controllo, spietata ed esiziale, che la vocazione all’ortodossia della nostra società reca in sé come portato genetico, è quella subita dai bambini sin dal momento della loro venuta al mondo (e anche prima).
Detto questo, però, prima di proseguire è indispensabile introdurre un elemento che funge da fondamento inespresso di tutto il suo discorso. Meschiari è un pensatore che spazia dall’antropologia alla poesia, dalla narrativa allo studio cognitivo del paesaggio ma, prima di tutto ciò è, e soprattutto, si professa anarchico. Una forma di anarchia che ripudia la lettera di alcuni dei suoi padri nobili e guarda altrove.
La critica allo stato e alle istituzioni, la lotta contro un certo tipo di società di diseguali, è esattamente il principio correttivo di quella società e di quelle istituzioni… È previsto dal sistema, è un dentro nel dentro. E invece quello che si deve fare è stare fuori, semplicemente… non bisogna mai pensare a contrario, perché significa rinchiudersi con le proprie mani nel vecchio anello dialettico. Bisogna pensare prima di tutto alla libertà in sé, a una sorgente esterna, radicata nell’Altrove, in qualcosa che non è solo a-statale, a-sociale, an-archico, ma che è addirittura inumano. Questo Altrove è la terra… All’anarchia dovremmo sostituire la geoanarchia, un’anarchia che apprende tutte le sue libertà, tutti i suoi pensieri, tutte le soluzioni pratiche ai problemi sociali dalla terra, la terra sotto i piedi… Il fatto è che c’è più anarchia nelle linee di costa della Bretagna che in tutta l’Enciclopedia anarchica di Sébastien Faure.1
Senza addentrarci nel pensiero geoanarchico di Meschiari basti dire che il bambino, o quanto meno la sua evocazione simbolica, nell’accezione che ci riguarda, sembra rappresentare in qualche modo una delle forme a-topiche di quell’Altrove. È pura empatia prelinguistica, è apertura incondizionata verso il fuori, è sete di conoscenza prima che la conoscenza abbia luogo, è l’elemento selvatico e pre-razionale (o forse irrazionale) sul quale si innestano, per negarlo, tutte le fratture dicotomiche che da tempo immemore la società impone a se stessa: buono/cattivo, giusto/sbagliato, normale/difforme, civile/selvaggio, cultura/ natura, padrone/servo. Il bambino è “l’addirittura inumano” unico rifugio di un’umanità irrimediabilmente perduta. Egli rappresenta la purezza anarchica e la primigenia forza selvatica della pura vita; è la libertà in sé, del corpo e dell’immaginazione, che irrompe nell’orizzonte di un mondo imbavagliato da regole pubbliche e private consustanziali a ogni società. In potenza, egli incarna la prima e unica forma di antagonismo, pura e incontaminata, in grado di eccedere le forme codificate di controllo che la società impone a se stessa per autoperpetrarsi. Questa scintilla di autentica rivoluzione, tuttavia, contiene, come un meccanismo di autodistruzione, la matrice del suo destino improduttivo; per il bambino, infatti, l’evento simbolico della sua nascita coincide con la proclamazione della sua condanna a morte proprio in quanto soggetto antagonista. Il semplice darsi della sua neonata potenza ribelle, infatti, innesca nella società una meticolosa e implacabile pulsione al controllo che, a calci e sputi, spinge il bambino lontano dalle terre selvagge e lo riporta entro il perimetro familiare del mondo governato da regole e codici di comportamento.
Ma per quale ragione la società fa ogni sforzo possibile per strappare quanto prima il bambino alla sua cruda animalità e alla sua spontanea irresponsabilità? Perché, dice Meschairi, «le società si reggono su modelli di ortodossia brutali e perché la nostra società in particolare intreccia questi modelli a una precisa ideologia produttiva. Il bambino inoperoso e irresponsabile deve diventare al più presto un cittadino operoso e responsabile» (p.20). L’ansia di produttività e la compulsione competitiva a essa sottesa, tuttavia, non risalgono, come molti ritengono, alla rivoluzione industriale inglese del 1700, ma alla nascita del neolitico, al momento cioè in cui si passa da una società di cacciatori e quindi sostanzialmente nomade, a una di agricoltori e quindi prevalentemente stanziale. Secondo questa ricostruzione, che non pecca certo di originalità, il capitalismo avrebbe origine non 300 ma 10.000 anni fa. È in questa fase preistorica che, per la prima volta, si insinua nella società il demone della produzione come pensiero unico, ed è in questo periodo che prende forma la visione del bambino non più solo come espressione pura di slancio empatico, ma come soggetto che può essere “messo al lavoro” e quindi inserito, suo malgrado, nella logica del profitto e del controllo. Riportata ai giorni nostri questa è la ragione fondante che determina la sempre maggior urgenza con la quale si cerca di trasformare ogni bambino in un piccolo adulto. Perché, per l’ortodossia imposta dalla nostra società, la potenza simbolica della natura selvatica del bambino ne mette in evidenza il carattere inoperoso. Un bambino è un soggetto improduttivo e questo non è tollerato dall’ideologia dominante.
Il libro si snoda tutto all’interno di questa oscillazione antinomica: da una parte la necessità di pensare il bambino come unico soggetto biopolitico cui intestare la possibilità dell’ultima residua forma possibile di resistenza; dall’altra l’analisi lucida e impietosa dei molti meccanismi di controllo che, come le I.A. di Matrix, con «limpida e raccapricciante precisione» ne disinnescano alla radice il potenziale eversivo. «Dalla nascita delle prime città alle aule di scuola dell’Ottocento (che poi sono le nostre), il progetto è uno solo: rassodare la società demonizzando l’altro(ve)» (p. 80).
Sarebbe impossibile restituire fedelmente il ricco campionario di esempi che l’autore fornisce per illustrare il funzionamento di tale meccanismo di “bonifica”; anche perché i libri è bene leggerli e questo è sicuramente un libro che merita di essere letto. Basti però dire che Meschiari si aggira tra questi esempi come fossero tracce nitide di un paesaggio anziché mere funzioni significanti. Per questo motivo è più simile all’Elias Canetti di Massa e Potere che non a Kraus o a Debord. Tra i molti esempi tuttavia vale la pena di menzionarne due, solo in forma di citazione, perché entrambi mettono in atto strategie di controllo particolarmente invalidanti e definitive.
Il primo riguarda il rapporto madre/figlio. L’evento tecnocratico in cui si sono trasformati la gravidanza, il parto e i primi mesi di vita del bambino, preclude una volta per tutte, alla madre e al figlio, il contatto con la matrice selvatica del loro stesso essere, unico varco attraverso il quale, secondo Meschiari, ci è dato accedere a una autentica comprensione di noi stessi e del mondo: «La prima e più importante cesura è quella tra madre e figlio perché fonda il vero taglio su cui operare ogni taglio futuro. Non una separazione ideologica ma carnale, emotiva, e un’abitudine all’assenza sentimentale dell’altro come paradigma di autonomia e autosufficienza» (p. 53).
Il secondo riguarda la scuola, autentico laboratorio politico del controllo che, per il modo verticistico e unidirezionale in cui è pensata e organizzata, sottrae esperienza anziché elargirla, ostenta potere anziché favorire apprendimento: «Quello che si perde entrando in una classe, per restarci come minimo dieci anni, non è solo il rapporto con il fuori, ma una vera e propria modalità di apprendimento, un’attitudine cognitiva dove la libertà di scelta (con i suoi errori e i suoi successi) lega la conoscenza alla curiosità e all’esplorazione, non all’accettazione e alla punizione… Se si vuole assoggettare un popolo non bisogna usare la legge o la polizia, ma la scuola» (pp. 82-87). A scuola si consuma il destino politico del conflitto tra l’ortodossia e quelle che Meschiari chiama le sorgenti pure della libertà e dell’immaginazione, ed è qui che forse egli vorrebbe risuonasse nitido come un canto di rivolta l’inno liberatorio di Roger Waters: «We don’t need no education, we dont’ need no thought control.»
E quindi? Se il bambino è l’unico strumento in grado di scardinare i raffinati dispositivi di controllo che la società ha pazientemente elaborato nell’arco di millenni, ma se quegli stessi dispositivi sono già in azione contro di lui prima ancora che egli venga al mondo, cosa facciamo? Ce lo chiediamo noi e se lo chiede l’autore alla fine del suo viaggio.
È vero, Bambini è un trattato politico e un libro sulle strategie di controllo ma, prima ancora, è un libro su di noi. Sulla speranza di salvezza dell’umanità che, smarrita, si aggira tra le macerie di un disastro che essa stessa ha minuziosamente programmato. Senza anticipare nulla del suggestivo finale, e senza ovviamente rispondere all’ultima domanda, chiudiamo queste riflessioni così come Meschiari apre il libro: con La strada di McCarthy e con il corto circuito tra morte e speranza che ne cosparge di cenere livida i paesaggi.
Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto? (Chiede il figlio al padre)
L’uomo sputò un grumo di catarro e sangue sulla strada. Alzarmi stamattina, disse.2