di Federica Ruggiero
Per caso ti accorgi di essere in un letto che non è il tuo. Non sapresti dire dove sei, ma se non altro ti solleva constatare di trovarti qui e non per strada, o rannicchiata su un divano, col collo dolorante per il bracciolo esageratamente alto per essere utilizzato come cuscino.
Dalle fessure delle persiane abbassate fasci luminosi – impossibile dedurne l’inclinazione – ti feriscono le palpebre. Attraverso la fitta coltre di capillari, una miriade di colori indistinguibili, che ti piace immaginare come agglomerati di costellazioni, galassie grigie e verdi e rosse. Sembrano semafori epilettici. Potrebbe essere tardo pomeriggio, come potrebbe essere l’alba, che non potresti vedere nemmeno se lo volessi, perché l’unica finestra della stanza affaccia a ovest. Le pupille roteano vorticosamente, palleggiano da un’estremità all’altra come parassiti sotto pelle che zampettano all’impazzata. Riemergi da un sonno deludente e senza sogni, il cervello è intorpidito da sostanze psicotrope di natura imprecisata che hai ingerito per costringere l’organismo a un oblio poco soddisfacente ma quantomeno frastornante. Sulle tempie il sangue pulsa senza sosta, eppure ti senti la pressione bassa e non pensi di avere le forze per tirarti su.
Te ne stai ad occhi chiusi, ma probabilmente sei sveglia. Sei reduce da innumerevoli notti trascorse a girarti e rigirarti nel letto nell’attesa di addormentarti, anche se sapevi bene che non sarebbe servito a nulla e che avresti fatto meglio ad alzarti e a convincerti che l’insonnia non sia un problema, che il dormire è sopravvalutato e che in fondo te ne basta poco per essere ugualmente rilassata e produttiva.
Potrebbe essere l’alba come potrebbe essere tardo pomeriggio, poco prima di sera, quando il sole è calato ma il cielo ne conserva l’alone. Ad occhi chiusi, distrattamente ti chiedi perché non possa essere sempre così. Perché debba tutto finire, e poi ricominciare. Perché il mondo debba per forza riprendere a funzionare, instancabilmente, ogni giorno, e non possa indugiare un po’ di più in questi intermezzi.
Poco dopo il tramonto o poco prima dell’alba c’è soltanto silenzio, e cresce dentro l’impressione di non dover essere lì. Come quando da piccola hai aperto la porta sbagliata e hai sorpreso i tuoi genitori in una litigata furiosa. Ti hanno guardata sconcertati, si sono vergognati della loro ingenua supposizione che dalla tua cameretta non potessi sentire le urla nell’altra stanza. Forse la tua insonnia è iniziata proprio quella volta, quando hai cominciato ad avere il terrore che, mentre dormivi, da qualche parte stesse avvenendo qualcosa di estremamente importante e che tu te lo stessi perdendo e non avresti dovuto permettertelo. Fuori posto, ed è un piacere, hai lo stesso presentimento di dovertene andare via per ristabilire il giusto ordine delle cose, e invece non riesci a distogliere l’attenzione, forse per la mera eccitazione di spiare una scena a cui non dovresti assistere e a cui eppure prendi parte.
Quando aprirà gli occhi tutto questo sarà svanito. Non osi aprire gli occhi, vuoi prolungare ancora per un po’ la piacevole incertezza di non poter stabilire la consistenza di ciò che stai vivendo. Ti crogioli nell’attimo che precede qualcosa che deve succedere, che ancora non succede ma che presto succederà, e si attarda così tanto che potrebbe non succedere affatto. La sospensione di non concludere mai quello che cominci e di lasciarti mille porte aperte perché in fondo scegli di non scegliere ancora per un po’, di trattenerti laddove tutto è ancora possibile e fantastichi su tutte le possibilità che una decisione spazzerà via come crisalidi abortite.
Qualcosa ti preme sullo sterno. Sono le troppe sigarette e il principio di tosse per non esserti ben coperta i giorni passati.
Ma c’è qualcosa di più. Qualcuno di più. Percepisci un refolo, un alito. Un respiro ti riscalda la spalla come se non fossi da sola. Allunghi la mano sulle lenzuola tiepide e stropicciate, e il tatto conferma quel che stai a poco a poco realizzando. Sprazzi fluorescenti ti imbrattano la memoria a quel semplice tocco.
Sei felice che sia lì con te. Per un attimo hai temuto che dopo l’amplesso se ne sarebbe andato a dormire da un’altra parte, lasciandoti da sola in quello stanzino stretto, come un vecchio congegno che ha esaurito la propria utilità. È rimasto lì con te, ti dorme addosso e non sei sicura di essere preparata a questa sensazione inaspettata. Togli lentamente la spalla da sotto il suo mento per non svegliarlo. Vorresti guardarlo, vorresti accarezzarlo. Lui sospira ed emette qualche gemito, continua a dormire ma inconsapevolmente deve aver avvertito la tua presenza e ti stringe a sé.
Quando aprirà gli occhi tutto questo sarà svanito. Se dovessi spiegarlo non ne saresti capace. Quando siete svegli è quasi impossibile questa prossimità e ora che l’hai provata saranno ancora più insopportabili gli sforzi impacciati che stentate per sostenere una distensione fittizia. Forse pensi che sarebbe stato meglio non provare mai nulla di tutto questo. Ti ferirà a morte ogni volta che poserà su di te il suo sguardo acquoso, pieno di un’indifferenza che non è nemmeno vendicativa ma soltanto smorta e insignificante. Quando aprirà gli occhi non sarà rimasto nulla. Strizzi gli occhi per intrappolare tra le ciglia questa intimità irripetibile.
Se esiste un Dio ti prego fa che ti uccida ora, in questo allucinato dormiveglia, tra le sue braccia, col suo respiro addosso. Accenni un sorriso mentre qualche lacrima ti riempie le palpebre, affondi nel petto di quel qualcuno di cui non puoi vedere le sembianze. Premi il viso contro di lui, ma in fondo devi aver intuito che non è chi ti aspettavi che fosse.
“Sei sveglia?”
“No”.