di Valerio Evangelisti
[Il 28 giugno scorso è morto Harlan Ellison, uno dei più importanti scrittori americani di fantascienza e di fantastico. Riprendo da Robot n. 43 gran parte di un mio articolo su di lui, scritto originariamente quando Ellison era ancora in vita.]
L’antologia Dangerous Visions è del 1967. È con essa, e con due integrazioni successive, che Harlan Ellison conquista autentica fama nel campo della fantascienza, in cui peraltro era già attivo dall’inizio del decennio, quale leader di una nuova generazione di autori statunitensi: quella dei Samuel Delany, dei Norman Spinrad, dei Roger Zelazny, dei Thomas Disch. Una generazione che, pur se con temi ed esiti narrativi diseguali, sembra mantenere un filo diretto con i campus americani in rivolta, e adottare la provocazione, stilistica e contenutistica, quale propria forma di espressione.
La generazione precedente, quella della fantascienza “sociologica” degli anni Cinquanta, aveva innovato nei contenuti, ma non si era in fondo staccata di troppo dagli stilemi della science fiction dominante. I romanzi di Frederik Pohl e Cyril M. Kornbluth avevano denunciato alcune patologie della società dei consumi, ma in forme narrative quanto mai tradizionali e pochissimo letterarie; lo stesso si può dire per William Tenn e altri minori. L’autore più rappresentativo e abile di tutti, Robert Sheckley, era spesso scaduto dalla satira alla barzelletta fine a se stessa, fino a partorire un buon numero di storie goffe e insensate. Tra tutti costoro, del resto, l’unico scrittore realmente radicale era stato Mack Reynolds, militante trotzkista impegnato a illustrare in racconti e romanzi tesi apertamente marxiste. Ma era più noto all’estero (in Italia, per esempio) che in patria e i suoi intenti didascalici erano un po’ troppo scoperti. C’era stato poi Dick, naturalmente, il Dick “sociologico” di alcuni dei suoi primi romanzi; ma Dick era già allora un’altra cosa.
No, una vera radical science fiction nasce negli Stati Uniti solo attorno a Dangerous Visions (e in Inghilterra attorno alla rivista New Worlds), e ha in Harlan Ellison l’uomo di punta, l’organizzatore e il teorico. Tutti i temi un tempo ritenuti scomodi, anche da una parte consistente della letteratura generale, entrano nella fantascienza e vi si insediano: il razzismo, la libertà sessuale, lo sfruttamento, l’imperialismo. La fantascienza svela di colpo la propria intima vocazione, già coltivata alle origini da H.G. Wells e C.S. Lewis, di “letteratura del presente”, anche se per fini di metafora si proietta nel futuro (o nel passato). Le invenzioni mirabolanti, le speculazioni tecnologiche si trasformano in pura zavorra. Ellison o Spinrad non sono più interessati alla “ferraglia” di quanto non lo sia Dick. Ciò che preme a loro, e ai loro compagni di cordata, è piuttosto la condizione umana in presenza di meccanismi alienanti. Da cui due innovazioni di rilievo: l’attenzione alle psicologie e l’adozione di tecniche narrative inconsuete e funzionali al fine. La distanza dalla letteratura mainstream si assottiglia, ed è in fondo quest’ultima, generalmente meno ricca di stimoli e di invenzioni, ad avere la peggio.
Il romanzo di Spinrad, Bug Jack Barron, e il racconto di Ellison “Repent, Harlequin!” said the Ticktockman, rappresentano forse il culmine di questa stagione felice. Destinata al tramonto, come accade a tutte le stagioni della fantascienza: sia per lo spegnersi dell’America ribelle della seconda metà degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta, sia per i meccanismi di mercato che spesso finiscono per ricondurre la narrativa di genere all’ordine, in nome dei gusti medi del pubblico di massa.
Tuttavia, se la chiusura del periodo delle “visioni pericolose” lascia un terreno seminato di cadaveri, Harlan Ellison, quasi unico tra i suoi colleghi, resiste all’emarginazione. A parte una brillante attività di sceneggiatore televisivo (recano la sua firma alcuni dei migliori episodi della serie Star Trek), rimane attivo, anzi attivissimo, in campo letterario, e seguita a rilasciare brillanti e logorroiche dichiarazioni in cui si legge la pervicacia dell’enragé che non si è mai rassegnato al conformismo. Ha tuttora schiere di lettori e uno status culturale invidiabile largamente riconosciuto. Come mai tanta longevità, in un campo — quello della narrativa di genere — che spesso, per il suo legame con l’attualità, contempla il jeu de massacre tra le regole evolutive?
Un primo motivo può essere rintracciato nell’atteggiamento di Ellison proprio nei riguardi del genere. Abbastanza presto, cioè dai primi anni Settanta, dopo avere partorito un’antologia di fantascienza quanto mai tradizionale (Partners in Wonder, 1971), Ellison dichiara di coltivare non la science fiction, ma la narrativa fantastica nella sua accezione più estesa. Ciò già corrispondeva alla pura verità, ma Ellison sostanzia la propria presa di posizione con una rutilante serie di racconti del tutto inclassificabili, destinati a essere raccolti in corpose antologie.
Una di queste è Shatterday; dove, se è piuttosto chiaro che la fantascienza è il lievito comune a molte storie, è altrettanto chiaro che tutte, in misura maggiore o minore, ne violano le convenzioni.
Come già Dick, Harlan Ellison sceglie quindi di muoversi all’interno della narrativa di genere senza lasciare che sia un genere qualsiasi a condizionare la sua scrittura. E lui, quale autore, che si pone in primo piano; dopo di che ogni classificazione diventa assolutamente secondaria. Un atteggiamento già riscontrabile, fin dagli anni Sessanta, nella sua conclamata distanza dal fandom, cioè dalla comunità organizzata degli appassionati di fantascienza: da lui visto (come da Spinrad o da Delany, in forme addirittura più estreme) quale fucina di conservazione o, peggio, origine di mode effimere.
Ellison sceglie dunque di essere se stesso e di impedire che un’appartenenza gli tolga libertà. Spazia dall’horror alla satira, dal fantastico poetico al surreale. Ma ogni volta ciascun suo racconto (è meno incline ai romanzi) reca la sua grinta, spesso confinante con la ferocia. Frutto di un ego smisurato, ma anche della capacità di avere sempre il polso del presente.
Tuttavia l’arma vincente di Harlan Ellison non è solo l’autonomia dalle etichettature. È anche la curiosa e personalissima miscela che egli opera, nella propria scrittura, tra materiali nobili e materiali vili. Allusioni precise a una condizione umana alienata, satire feroci del potere, denunce circostanziate di attentati alle libertà civili, si miscelano a elencazioni puntigliose di mercanzie d’ogni genere tratte di peso dalla pubblicità. Più ancora, collaudati e sapienti meccanismi di suspense si mettono al servizio di uno stile letterario di qualità mediamente elevata, ricco di sintesi eccellenti e di geniali giri di parole.
Il mondo apparente di Ellison è quello del supermercato e della televisione; apparente perché egli non vi aderisce, pur abbondando in dettagliatissimi riferimenti, ma lo propone quale fonte primaria di disagio. La marca di un televisore e l’intestazione di un atto d’accusa completo di nome e di cognome; la citazione di un certo yogurt e di una certa torta sono l’indicazione esplicita di dove si stia smarrendo la sostanza umana. Richard Wright ha scritto, in American Hunger, che l’esasperazione del nero statunitense nasce dal vedere la propria umanità trascurata a favore di oggetti banali, ricchezze miserabili, roba. I racconti di Ellison — non solo quelli di Shatterday, ma quasi tutti — sono per l’appunto pieni di roba. Ed è da ciò che è possibile arguire, sotto parole leggere e meccanismi narrativi che sembrano convenzionali, il permanere della radicalità dell’autore oltre le stagione della contestazione aperta, oltre Dangerous Visions.
La qualità raffinata dello scrivere non è dunque casuale, ma si modella su una corposità di fondo, presente anche dove l’humour pare prevalere — corposità dovuta a un persistente atteggiamento critico verso l’iperconsumismo capitalista, con i suoi effetti di reificazione totale. È proprio questo uno dei trait d’union che collegano Ellison alle tendenze più recenti di certa narrativa statunitense attuale, quale quella dei Pynchon, De Lillo, Robbins, Katz e altri ancora. Certo, Ellison non evade dal “genere”, anche quando il suo genere non è uno solo, ma sono tutti; certo, il suo sperimentalismo narrativo non oltrepassa limiti precisi di leggibilità. Ma il disagio verso la società dello spettacolo, l’ossessione motivata per i mass media, la consapevolezza dell’invasione di scatolame a buon mercato là dove esistevano valori umani lo collegano strettamente a tutta una leva di scrittori che hanno aiutato la letteratura americana a salvarsi dall’opacità mercantile.
Troppo individualista per considerarsi, o per essere considerato, un antesignano, Ellison testimonia, con la propria parabola culturale, il ruolo centrale che ha avuto la fantascienza — certa fantascienza — nella crescita di nuove proposte narrative. Sono rari i nuovi scrittori americani che non riconoscono il proprio debito verso di essa; sono rari quelli che non si appropriano di questo o di quell’altro dei suoi elementi. Partita in sordina, come genere letterario negletto e isolato, la fantascienza ha saputo dissodare per decenni il retroterra culturale di intere generazioni, non solo in America, spargendovi a piene mani una massa impressionante di idee. Non meraviglia, quindi, che la stessa letteratura generale abbia finito per restituire, non solo in America, nelle forme a essa proprie, le sollecitazioni ricevute.
A ben vedere, con Dangerous Visions la fantascienza ha dato l’avvio a un lento suicidio, protrattosi per un’altra ventina d’anni e culminato con la fine dell’esperienza cyberpunk. Suicidio, però, che comportava una fruttuosa rinascita, fuori dalle etichette e dagli schemi. Mentre con il ritorno della science fiction più tradizionale, rivaleggiante in noia con la divulgazione scientifica più piatta, il pulp tornava alle proprie origini etimologiche e li si emarginava, nascevano scrittori di frontiera (da Neal Stephenson a John Shirley, da Pat Cardigan a William Gibson) che spostavano il genere sulla linea d’ombra da cui poteva toccare, senza peraltro mai confondersi del tutto, l’ambito culturale in senso lato. Una linea su cui operavano oramai da tempo Ballard e Vonnegut, e avevano operato Dick, Leiber e Sturgeon. Ma se tutti costoro potevano essere ridotti alla stregua di casi individuali, con grande soddisfazione della critica più conservatrice, la nuova leva non poteva più essere liquidata a quel modo.
Le “pericolose visioni” della fantascienza si comunicavano ad altri campi narrativi, perché erano state esse che, per prime, avevano segnalato l’incanto e l’incubo delle società iperconsumistiche e iperelettroniche, e additato l’incubo della mercificazione totale, della sussunzione marxiana condotta alla follia. La fantascienza aiutava quindi i giovani narratori americani a uscire dalle secche del minimalismo, e ad affrontare, attraverso il proprio ausilio (e quello, parallelo, del fumetto, dell’horror, del rock), i nuovi territori della comunicazione dilatata a ogni sfera dell’esistente.
Harlan Ellison rappresenta un po’ il crinale di questa operazione. Non è affatto un caso che sia stato perennemente ignorato — e lo sia tuttora — dalla provincialissima critica italiana, “specializzata” o meno. Che si pretende, da chi solleva il sopracciglio quando in un romanzo si menziona anche semplicemente di un telecomando? (esagero, ma mica tanto). Ancora oggi, si cita Dick come un autore che in realtà non scriveva fantascienza “vera e propria”, ma “qualcosa d’altro”, di “diverso”. Quando le pagine culturali del nostro più diffuso quotidiano nazionale faranno menzione di Harlan Ellison, sarà come quando, al termine del giro del mondo in 80 giorni (intendo il film, non il romanzo), una donna mette piede in un rigidissimo club vittoriano: un piccolo terremoto, con pipe e tazzine da tè che volano da ogni parte.
Eppure, malgrado le rarissime traduzioni di suoi racconti e le pessime presentazioni critiche, ciò che Ellison impersona, come clima culturale che egli stesso ha contribuito a creare, sta facendo sentire il proprio peso anche in Italia. Si paragonino le sue puntigliose elencazioni di programmi televisivi, di mercanzie da grande magazzino, di personaggi del mondo dello spettacolo a quelle, del tutto analoghe, care ad alcuni nostri giovani narratori. La derivazione più diretta è nella presa d’atto della quotidianità alienata che ci circonda e ci soffoca. Quella meno diretta è da scrittori stranieri che nutrono le stesse inquietudini, con cui hanno preso contatto, la prima volta, per il tramite della fantascienza.