di Giuseppe Ciarallo
[E’ in uscita Zona Letteraria, una rivista che si muove nel solco dei criteri dettati, a suo tempo, dal purtroppo scomparso Stefano Tassinari. Riportiamo l’editoriale, intitolato Vae victis, del suo direttore, lo scrittore Giuseppe Ciarallo.]
Zona Letteraria è il frutto di una delle più classiche congiunzioni astrali, non intesa come allineamento di corpi celesti ma come una serie di coincidenze favorevoli e nient’affatto prevedibili. Per un caso del tutto fortuito, infatti, sono entrati in contatto alcuni membri del collettivo redazionale di una rivista letteraria, da poco rimasto orfano di casa editrice a seguito della chiusura del “semestrale di letteratura sociale” al quale avevano lavorato negli ultimi nove anni, e un editore intenzionato ad annoverare tra le proprie proposte editoriali… una rivista letteraria con quelle caratteristiche. Mai incontro fu più utile ad entrambe le parti in causa.
Ma cos’è e cosa vuol essere Zona Letteraria?
Nel 2008, nel varare il suo progetto di rivista (Letteraria, avventura alla quale fin dal primo numero presero parte molti dei redattori di ZL) Stefano Tassinari, scrittore, poeta, intellettuale, agitatore culturale scomparso nel 2012, fissò delle linee guida che si possono riassumere nella seguente dichiarazione di intenti: ricreare una dimensione collettiva intorno alla quale far nascere uno strumento capace di essere punto di riferimento – nell’ambito di una sinistra sfilacciata – riguardo ai grandi temi sociali, culturali e politici, partendo dallo specifico letterario.
Ecco, Zona Letteraria vuole muoversi all’interno di questo tracciato, confrontandosi di volta in volta con argomenti che hanno a che fare con i conflitti sociali, con la Storia e le storie, con i cambiamenti di costume, con l’attualità e con il passato.
Ciò detto, in questo numero d’esordio abbiamo deciso di trattare lo spinoso argomento della vergognosa e inumana guerra che i governi dell’opulento occidente, e non solo, hanno dichiarato ai poveri anziché alla povertà. Una guerra all’insegna del “take no prisoners”, nella quale gli ultimi sono le vittime sacrificali predestinate, su cui riversare odio e indifferenza, nonché fastidio. Perché il povero, nell’epoca del capitalismo avanzato, del benessere illusorio e dell’american dream universalizzato, è lo specchio nel quale nessuno vuole vedersi riflesso, è l’immagine della spaventevole condizione nella quale ognuno vuole evitare di cadere, è la polvere da cacciare sotto il tappeto per ridare lustro e decoro a quartieri e città. Come vedremo, questo atteggiamento egoistico e disumano, acuitosi ai giorni nostri, ha radici antiche quanto il mondo. Vae victis!, dunque, guai ai vinti di queste società sedicenti democratiche.
Ma c’è un modo di invertire questa tendenza mefistofelica, questo tsunami che ogni ostacolo travolge e che porta il ricco ad essere sempre più ricco e il povero più povero, cancellando al contempo diritti acquisiti in anni di sangue, sudore e lacrime della classe lavoratrice? Una chiave di lettura interessante di questo fenomeno, in apparenza inarrestabile, e in qualche modo una proposta, ce la dà il poeta Edoardo Sanguineti quando afferma, in un suo testo del 2007, che i capitalisti odiano i proletari (usa proprio questo termine desueto, anzi invita a recuperarlo, estendendo la categoria ed includendovi – oltre gli operai – gli ingegneri, i laureati, i lavoratori precari, i pensionati) e che è necessario ricambiare tale sentimento, restaurando l’odio di classe. Si badi bene, Sanguineti non parla di odio individuale, ma di odio tra classi che hanno intenti e bisogni opposti, in contrasto con la malsana e bugiarda idea propagandata da destra e da certo centrosinistra, che vuole lavoratori e imprenditori (anche il termine “padroni” è desueto) “sulla stessa barca”, necessariamente uniti per far fronte a una crisi che investe l’intera società. Peccato che mai come nei momenti di crisi la forbice tra i benestanti e gli indigenti si allarghi sempre più e in modo esponenziale a favore dei primi.
Ma veniamo a Zona Letteraria. All’interno di questo numero troverete il racconto della grande crisi del ’29 in Furore di Steinbeck, delle “villas miserias” argentine, dei messicani poveri e del loro tentativo di varcare il confine con gli Stati Uniti, si parla del cinema di Ken Loach, sempre molto attento alle sorti del proletariato inglese, di criminalizzazione dei Rom, del pauperismo in Valdo e in San Francesco, di Goffredo Parise e di decrescita felice, della tecnologia applicata alla repressione della povertà a Singapore, di Woody Guthrie e di musica popolare e di protesta negli USA, di come la pittura ha nel tempo raffigurato gli ultimi, di Arte e povertà, e poi ancora di Italo Calvino, di Beppe Fenoglio e dei suoi contadini, della Cina dello scrittore Yu Hua, di Valerio Evangelisti, di Anthony Cartwright e del suo romanzo sulla Brexit, di John Berger e del suo Il settimo uomo, e di Lucio Dalla, di Gianmaria Testa, di Loriano Macchiavelli, di Maurizio Bovarini e persino di Superciuk. Senza dimenticare, nella rubrica Riflessioni, il rapporto tra “fame” e “potere” narrato in chiave psicanalitica.
Che cos’altro aggiungere? Buona lettura.
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