di Diego Leandro Genna
È quasi giorno. Le stelle si stanno spegnendo una a una.
Tra le rughe sul viso del vecchio Ravi le tenebre si annidano come lombrichi nei solchi di campi consumati.
Ravi fuma e blatera la sua solita solfa. Il figlio avrebbe fatto bene a studiare o a scegliere un’altra strada, lui lo sapeva e l’aveva avvertito, era una vitaccia, non ne valeva la pena, e a fare quel dannato lavoro non si portava a casa nemmeno un pugno di riso. Tutti i giorni così. Da sempre.
Sundar ha imparato, negli anni, a isolarsi da quella voce ruvida, la relega ai suoni della barca e del mare, il motore diesel che sbuffa tra le brume della notte, la bandiera sfilacciata che freme nel vento o l’ansia dell’onda che bussa costantemente sulla murata della barca. Un pescatore che non sta mai zitto è come un uccello che non vola. Questo è ciò che pensa Sundar di suo padre. Ma non glielo ha mai detto.
Il padre si lamenta. Lui ascolta tutto il resto.
Tutti i giorni così. Da sempre.
E mentre sulle labbra morbide dell’alba affiorano le prime sillabe di luce e il vecchio Ravi, che non ha smesso un attimo di parlare, la sigaretta penzolante dalla bocca, sistema il pescato nella cassetta da portare al mercato, il figlio Sundar tira le reti, in silenzio.
Devono fare in fretta. Prima che il sole scateni la sua ferocia. Prima che gli altri pescatori, i pochi rimasti, giungano al mercato.
Ravi getta la sigaretta oltre la sponda della barca. Le labbra screpolate dal sale. Le dita rachitiche.
Riprende a brontolare sul fatto che avrebbero dovuto vendere barca, motore, reti e attrezzi da pesca, che tanto non servono più a niente. Sundar non ascolta. Continua a tirare le reti come avevano fatto i suoi antenati. Tutti i giorni. Da sempre.
Il sole sta spalancando la sua bocca dall’alito afoso, sprezzante sulle miserie del mondo. Le fauci di un cane rabbioso che morde l’aria con luccicanti denti aguzzi.
Per Ravi e Sundar è il momento di volgere la prua alla riva, correre all’ombra, prima di trovarsi sotto un latrato di radiazioni nocive.
Il mare è piatto, una distesa molle e plumbea. Il filtro della sigaretta che ha gettato il vecchio Ravi orbita come un piccolo satellite intorno alla barca. Non c’è un filo di corrente, che tradotto nei pensieri di Sundar significa poco pescato. Costellazioni di alghe morte, detriti e frammenti di rifiuti descrivono impercettibili movimenti intorno a una via lattea di schiuma grigio-verdastra. Sundar e Ravi sono pronti a partire. L’ultimo lembo di rete è stato salpato.
L’aria è già appiccicosa, il cielo una rancida crema che si scioglie sulle loro teste. Ravi mette in moto il motore che con uno sbuffo di fumo nero e un bofonchiare di ruggine si sveglia dal sonno salmastro. Gesti ripetuti all’infinito: ingrana la marcia avanti, accende un’altra sigaretta, accelera e bofonchia qualcosa anche lui. Sundar è seduto a prua e non può sentirlo. È il padre a timonare. Tutti i giorni. Come sempre.
Sundar osserva la costa avvicinarsi, la striscia dorata di sabbia che luccica, i grossi macigni neri, la fascia verde della vegetazione, i tetti della baraccopoli e, alle spalle, la città che cresce molto più in fretta degli alberi, con i palazzi e le gru dei cantieri. Sundar poi si volta verso il padre e gli chiede a voce alta come è andata.
“Come è andata? La solita merda. Come tutti i giorni. Come sempre!”, risponde il padre senza distogliere lo sguardo dal punto all’orizzonte che sta fissando.
“Niente di grosso?”.
“No, la solita roba piccola, minutaglia inutile”.
“Forse hai ragione tu. Forse dovremmo smetterla”.
Sundar pensa ai cugini che hanno scelto di abbandonare il mare e sono andati in cerca di fortuna, in città, a lavorare tra il catrame e il cemento. Sente lo stomaco contorcersi.
Il padre rimane stranamente zitto. Nemmeno lui potrebbe fare a meno del mare. Lo sa bene, lo ha sempre saputo. Ma non lo ammetterebbe mai al figlio. Prova pena per Sundar, per la sua condizione di pescatore in un mare che non è più lo stesso. Se avesse avuto i soldi, lo avrebbe costretto ad andare a scuola e invece a breve lo vedrà ancora una volta avviarsi a testa bassa verso il mercato nella speranza di racimolare qualcosa.
Sono i soliti volti raminghi che si aggirano tra i banchi sbilenchi, legno sudicio, rigagnoli rivoltanti, assi storte che sorreggono lamiere e palme e nylon sfilacciato a coprire il dedalo del mercato dai dardi del sole.
Nugoli di insetti, puzza di sudore e piscio.
Sono volti di donne che fanno la spesa, che non hanno soldi, che contrattano con tenacia e decidono il valore di ogni singolo pezzo.
Pozze di liquami, gemiti di mendicanti e moribondi.
Sono volti di rigattieri impassibili, assuefatti alla noia; volti corrugati di contadini che trascinano ceste di ortaggi marci e frutta fermentata; volti furbastri di ladruncoli scalzi che sobbalzano sul terreno sconnesso, in agguato, e scivolano tra la melma in cerca di distrazioni altrui, serpentelli della povertà.
Caldo umido, viscido, nauseabondo.
Sundar urla, come tutti i giorni, da sempre. Urla con la foga di un venditore ambulante, sfrattando tutto il silenzio che ha condensato in petto nella notte tra lo sciabordio riflesso delle stelle e le lamentele del padre.
“Tappi! Tappi e bottiglie! Sacchetti senza buchi! Ciotole, coperchi!”.
Urla dei soliti articoli alle solite facce che si soffermano appena sul suo banchetto di rifiuti freschi di giornata e avanzi invenduti. Un secchio di plastica celeste, intatto, con il manico e tutto, un pallone bucato, una bambola senza braccia, la camera d’aria di una bicicletta. Sono lì da settimane. C’è un mazzo di cannucce, un mucchio di infradito spaiate, una piramide di flaconi, boccette e tubetti, un’accozzaglia di plastica colorata con incrostazioni marine di vario genere.
Tutto quello che non trova collocazione nel suo banco, Sundar lo vende all’ingrosso, alle porte della città dove i pescatori svendono la plastica al chilo, per pochi spiccioli. Plastica che sarà sterilizzata, triturata, ridotta in poltiglia e ricomposta, riciclata, riutilizzata. Plastica che tornerà plastica e forse un giorno tornerà in mare. È così. È un ciclo vitale.