di Alessandro Barile
Jean-Claude Michéa, Il nostro comune nemico, Neri Pozza, 2018, pp. 248, € 18,00.
Cosa farne di Jean-Claude Michéa? L’intrico di contraddizioni attraverso cui prende forma la sua critica del capitalismo rischia di confondere anche il lettore più accorto. Poco letto e ancor meno compreso in Italia, dove è oggetto di un’incompresa venerazione da parte del cascame rossobruno di rito fusariano, l’autore si sottrae effettivamente a un catalogo poco ragionato delle etichette politiche. Il suo ultimo testo pubblicato in Italia, Il nostro comune nemico, contribuisce a questa faticosa ermeneutica. Il problema è che in Michéa convivono effettivamente più derivazioni politiche e filosofiche, poste in termini raffinati e anti-ideologici, che lo rendono suo malgrado, ma anche per sua precisa responsabilità, adatto a tutte le latitudini della politica “anti-sistema”. E’ d’altronde il suo vero obiettivo filosofico, quello di rompere definitivamente con qualsiasi attribuzione “di sinistra” al fine di recuperare un socialismo originario che, a suo dire, nulla avrebbe in comune con il concetto di sinistra.
Questo approccio, che contiene un guscio di verità conficcato dentro una serie di grossolane forzature storiografiche, lo rende effettivamente affascinante per quella destra mimetizzata dietro prose para-socialiste. Eppure confinare Michéa alla destra rossobruna sarebbe un errore, possibile solo grazie al deperimento che vive il dibattito politico di sinistra in Italia. In primo luogo, il pensiero filosofico dell’autore francese è rigidamente anti-hegeliano, laddove al contrario Hegel funziona da approdo di ultima istanza di qualsiasi palingenesi neo-statalista. I riferimenti essenziali di Michéa partono piuttosto da Spinoza, proseguendo con Proudhon, Rosa Luxemburg, Marcel Mauss e soprattutto George Orwell, massimo ispiratore del filosofo francese. Di conseguenza, le proposte anticapitaliste non fluiscono verso l’inevitabile esaltazione statalistica tipica del sovranismo populista, quanto piuttosto verso un recupero dei caratteri libertari e federalisti del socialismo utopistico, di marca fortemente anti-progressista (Michéa è d’altronde un fervido sostenitore della “decrescita”). Non a caso l’autore vede in Podemos, soprattutto nei suoi tratti populistici alternativi alla tradizione marxista, un esempio politico da consolidare, salvaguardandolo dai richiami della foresta che vorrebbero riportare il partito spagnolo sotto le bandiere dell’estrema sinistra classica.
A saperlo leggere – riuscendo cioè a depurare il suo discorso critico dalle incrostazioni arcaicizzanti di cui pure si compone – Michéa tornerebbe utile a vivacizzare il dibattito politico della sinistra italiana, avviluppato attorno a schemi ideologici che dovrebbero essere oggetto di discussione aperta e non sbarrata da reciproche scomuniche. Alcuni esempi: la «neutralità assiologica» dello Stato di diritto liberista è uno di quei temi su cui si avverte una subalternità alle categorie filosofiche dominanti. L’etica non è affare che è possibile confinare nella sfera del privato, come vorrebbe la vulgata liberista che ha sfondato in questi anni anche a sinistra. E’ al contrario il frutto di un rapporto di forza, che presenta oggi come neutrali alcune impostazioni di fondo dal carattere politicamente orientato. L’etica è dunque un fatto pubblico, e i valori etici un campo di battaglia da cui per troppo tempo ci siamo sottratti.
Ancora: la battaglia in favore della dissoluzione di qualsiasi confine, legata oggi al nodo delle migrazioni, non può avvenire in nome e per conto della libertà dei capitali di viaggiare indifferentemente sopra la vita delle popolazioni di cui, in ultima istanza, non sono che un’espressione reificata (il valore di scambio della mole di capitale fittizio che oggi domina i flussi economici non fa altro che incorporare astrattamente la mole di sfruttamento umano detenuto da quei capitali stessi). La lotta allo Stato, pure presente in Michéa e che lo rende alieno al nazionalismo, non può avvenire in nome e per conto dell’economia svincolata da qualsiasi briglia politica che, ancora oggi, trova la sua forma di rappresentazione ed esecuzione nello Stato.
Infine: se i concetti di destra e sinistra continueranno a sopravvivere ai tentativi del ceto politico di presentarsi alternativamente, è non di meno vero che oggi qualsiasi tentativo di veicolare una critica radicale al sistema liberale-liberista non può che procedere attraverso una chiarificazione dei rapporti tra socialismo e liberalismo, non in nome dell’ideologia (chi è “più marxista”), ma in base a comportamenti politici conseguenti.
Da questo presupposto, scrive Michéa, è necessario ingaggiare un corpo a corpo col “populismo”, etichetta entro cui trova ormai spazio ogni critica al capitalismo reale. Derubricarlo a “fatto di destra” non farà altro che marchiare in tal modo quel “popolo” che pure trova in esso risposta e rappresentanza (mistificata) a problemi reali. Nonché a reiterare quell’alleanza tra critica anticapitalista e liberalismo progressista che è alla base dell’attuale incomunicabilità tra sinistra e popolazioni subalterne.
In conclusione, la “traversata del deserto” – attuale topos lessicale della sinistra radicale – potrà riuscire solo rimettendo in discussione i propri presupposti ideologici. Non è una traversata nel tempo (“quanti anni ci vorranno”) ma nei contenuti della propria proposta. Da questa visuale un autore come Michéa potrà anche non fornire le soluzioni adeguate, ma contribuire a porre le domande giuste, forse sì.