di Alberto Molinari
Sergio Giuntini, “L’oppio dei popoli”. Sport e sinistre in Italia (1892-1992), Aracne editore, Canterano (RM), 2018, pp. 316, € 20,00
Secondo un luogo comune consolidato, la storia della sinistra italiana sarebbe segnata da una sostanziale sottovalutazione del fenomeno sportivo: nei partiti come in altre organizzazioni del movimento operaio, tra i dirigenti, i militanti e gli intellettuali, l’approccio allo sport risulterebbe esclusivamente viziato da pregiudizi e chiusure, incomprensioni e giudizi sommari (lo sport come espressione di valori e interessi “borghesi”, mero fenomeno di evasione, “oppio dei popoli”).
La ricerca di Sergio Giuntini, uno dei più importanti storici italiani dello sport, mostra invece come le diverse anime della sinistra abbiano espresso valutazioni articolate, in un arco di posizioni che oscillano con diverse sfumature tra la diffidenza o l’aperta ostilità nei confronti del fenomeno sportivo e la piena consapevolezza della sua rilevanza politica e sociale. Avvalendosi di una ricca documentazione e suggerendo molteplici spunti interpretativi, l’autore ricostruisce una vicenda complessa che rappresenta una pagina cruciale della storia dello sport nel suo intreccio con le dinamiche della società italiana tra fine Ottocento e l’ultimo scorcio del Novecento.
Dopo alcune considerazioni sull’interesse per lo sport dei “padri” del movimento comunista (Marx, Engels e Lenin), la prima parte del volume si concentra sul rapporto tra sinistra e sport in Italia fino al primo quarto del Novecento, in un quadro internazionale che vede la nascita dell’Internazionale Sportiva Socialista (1913) e dell’Internazionale Sportiva Rossa (1920).
Giuntini dà conto puntualmente tanto del dibattito teorico quanto delle pratiche politico-organizzative della sinistra in ambito sportivo, analizza il pensiero sullo sport di figure di primo piano del movimento operaio (da Alfredo Bertesi a Ivanoe Bonomi e Leonida Bissolati), si sofferma sulle capitali dello sport di classe (Milano e Torino) e su alcuni casi locali particolarmente significativi.
Il racconto si snoda dall’associazionismo di matrice risorgimentale allo sviluppo della ginnastica promosso dalle Società di mutuo soccorso a fine Ottocento e si concentra poi sul movimento dei “ciclisti rossi” che si diffonde in alcuni centri del Nord Italia. Nel primo Novecento, quando la bicicletta inizia ad affermarsi come strumento di libertà e di emancipazione sociale, i “ciclisti rossi” utilizzano questo mezzo a fini propagandistici e agiscono come reparti di “staffetta” e di autodifesa in occasione degli scioperi dando vita ad un fenomeno che verrà ripreso dalle “Guardie rosse volanti”, a fianco degli Arditi del popolo nel tentativo di contrastare la violenza fascista. Questa tradizione si rinnoverà dopo l’8 settembre del 1943 diventando parte integrante della Resistenza che utilizzerà la bicicletta come mezzo per trasportare documenti e stampa clandestina, mantenere i collegamenti tra i gruppi partigiani e coordinare scioperi e agitazioni.
Gli approcci allo sport della sinistra prima della Grande Guerra sono però segnati anche da una tendenza “antisportista”. In una parte del movimento socialista è diffusa la convinzione che lo sport rappresenti una pratica borghese, un diversivo rispetto alla lotta di classe, un’attività caratterizzata da aspetti alienanti e competitivi propri del capitalismo. Emblematica in questo senso è la posizione della Federazione Giovanile Socialista. Giuntini ricostruisce il dibattito tra i giovani del PSI che, influenzati dalle correnti massimaliste, manifestano un atteggiamento di rigido rifiuto dello sport, riconducibile alla «mancanza d’una accettabile elaborazione specifica»: «Il socialismo italiano del primo Novecento si fermava agli aspetti più eclatanti e degenerativi dello sport di matrice borghese senza enuclearne gli elementi che ne garantivano il successo. Allo stesso modo, non si curava di razionalizzare i motivi che spingevano le masse a riconoscersi in un tale sistema. Da qui l’apparente incompatibilità tra l’essere buoni socialisti e contemporaneamente praticanti o appassionati sportivi».
All’“antisportismo” fanno da contraltare le posizioni di autorevoli dirigenti socialisti della corrente riformista come Ivanoe Bonomi. Sulle pagine dell’“Avanti!” Bonomi richiama severamente i giovani della FGS invitandoli a riconoscere la passione sportiva che coinvolge anche ampie fasce del proletariato e a farsi carico quindi di un discorso politico sullo sport.
Nel saggio vengono poi tratteggiate alcune significative esperienze che maturano dopo la guerra, come l’attività dell’Associazione Proletaria di Educazione Fisica, la più importante società sportiva espressa dalla sinistra italiana nella prima parte del Novecento. Giuntini si sofferma sul “biennio rosso” dello sport, che coinvolge anche l’area “terzinternazionalista” del movimento socialista e il Partito comunista d’Italia, affrontando diverse questioni: dalle considerazioni di Giacinto Menotti Serrati sul valore della dimensione sportiva come strumento di educazione collettiva e di emancipazione umana alle indicazioni della stampa comunista sul lavoro politico da svolgere tra gli sportivi, dai tentativi di creare una Federazione sportiva autonoma del movimento operaio alla nascita della rivista “Sport e proletariato”, subito soffocata dal fascismo.
In questo scenario alcune pagine sono dedicate alle riflessioni di Antonio Gramsci sullo sport, letto in modo originale attraverso le categorie del marxismo; ormai divenuto un fenomeno di massa, per l’intellettuale sardo lo sport «andava pertanto studiato come una parte peculiare del processo di “riforma morale intellettuale” necessario alla rinascita italiana». Gli scritti di Gramsci sullo sport iniziano su “l’Avanti!” e proseguono attraverso le note elaborate in carcere negli anni Trenta quando a sinistra si levano altre voci critiche come quelle di Aldo Garosci, Carlo Roselli e Carlo Levi che su “Giustizia e Libertà” denunciano la strumentalizzazione fascista dello sport.
Dopo la Liberazione la sinistra dà vita a varie forme di promozione sportiva grazie all’iniziativa dell’ANPI, della CGIL e soprattutto del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile che aveva dato un significativo contributo alla Resistenza. Nei primi anni del dopoguerra il Fronte aggrega giovani di diversa estrazione politica, prevalentemente di sinistra, promuove un’intensa attività in ambito culturale e sociale e si impegna anche sul terreno dello sport, costituendo società sportive e partecipando a numerose competizioni. Con lo scioglimento del Fronte, a partire dal 1948 è l’Unione Italiana Sport Popolare a rappresentare i valori della sinistra nello spazio dello sport italiano. Tra questi, anzitutto il diritto allo sport e una concezione del fenomeno sportivo come pratica popolare di massa volta a realizzare momenti di partecipazione democratica e a fornire strumenti di emancipazione e di crescita sul piano individuale e sociale.
Nel frattempo la sinistra si muove con scarsa lungimiranza in due importanti occasioni sottolineate da Giuntini. Nel 1946 il Fronte della Gioventù rifiuta la proposta avanzata dal CLN di acquistare ad un prezzo conveniente “La Gazzetta dello sport”, rinunciando alla possibilità di controllare il più importante organo di informazione sportiva italiano. Nello stesso anno Pietro Nenni sostiene la candidatura di Giulio Onesti alla presidenza del CONI. Accreditato di vaghe simpatie socialiste, con una rapida giravolta Onesti si libera dai vincoli di partito legandosi a Giulio Andreotti, riporta la più importante istituzione sportiva nell’alveo governativo e mette in pratica un programma riassunto così da Giuntini: «Da un lato Onesti sanciva il principio e il diritto alla continuità tra sport fascista e sport post-fascista e, con un frettoloso colpo di spugna, assolveva i gerarchi sportivi fascisti e gli riapriva le porte del CONI e delle federazioni. […] Dall’altro lanciava il suo slogan più classico e sempre ribadito: “lo sport agli sportivi”. Rivendicava l’autonomia che aveva strappato ai partiti, fondando così il suo modello di sport che si proponeva di riprendere e rivitalizzare l’antico “neutralismo” decoubertiniano. Cioè lo sport come un mondo a parte, puro e incontaminato, lontano dalle brutture e dalle strumentalizzazioni della politica».
Giuntini ricostruisce inoltre le tensioni politico-ideologiche che attraversano i primi Giri d’Italia del dopoguerra e le simpatie del popolo di sinistra per il “laico” Coppi contrapposto al “democristiano” Bartali; la vittoria del campione toscano nel Tour de France del 1948, rimasta impressa nell’immaginario collettivo come un’impresa capace di pacificare l’Italia dopo l’attentato a Togliatti; la funzione della programmazione sportiva nelle Feste dell’Unità e il rinnovato interesse per lo sport della stampa comunista, nella quale spiccano i contributi di intellettuali come Italo Calvino e Alfonso Gatto e l’esaltazione dello sport dei paesi socialisti inteso come «modello sportivo sovietico collettivista e di massa contrapposto a quello individualistico e professionistico tipico degli stati capitalisti».
L’atteggiamento del Pci nei confronti dello sport si richiama alla lezione di Togliatti che negli anni Trenta aveva invitato il Partito a superare il ritardo del movimento socialista sul piano delle attività culturali, educative e ricreative di massa, compreso lo sport. Nel dopoguerra lo sport si incardina quindi nel modello del “Partito nuovo” togliattiano e nella sua filosofia volta ad aderire a tutti gli aspetti della società civile e a considerare anche la dimensione sportiva come parte integrante della nuova cultura di massa, terreno di contesa rispetto alle ipoteche reazionarie e alle strutture dell’associazionismo cattolico.
Nei decenni successivi la sinistra sportiva si identifica principalmente con l’UISP. Al percorso dell’associazione collaterale alla sinistra, e in particolare al Partito comunista, il saggio dedica ampio spazio seguendone la traiettoria a partire dagli anni Cinquanta, quando l’UISP è costretta sulla difensiva in un quadro segnato del clima della “guerra fredda” e dall’egemonia democristiana sullo sport. L’“opposizione sportiva” dell’organizzazione si attenua in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960. Rinunciando ad un atteggiamento critico, l’UISP si spende per la buona riuscita dei Giochi e per garantire un clima di pace sociale, in nome dell’interesse dello sport nazionale e in funzione di una propria legittimazione come forza “responsabile”. Gli anni Sessanta vedono poi un riposizionamento dell’organizzazione, l’elaborazione di nuove proposte politico-sportive e la maturazione di un profilo relativamente autonomo rispetto ai partiti di riferimento.
All’interno dell’associazione si rafforza e radicalizza una visione dello sport come servizio sociale, sottratto alle degenerazioni del professionismo, alla ricerca esasperata della prestazione e alla riduzione del fenomeno sportivo a spettacolo. Su questa lunghezza d’onda avviene l’intreccio tra l’UISP e i movimenti e le teorie critiche che nel ’68 e lungo gli anni Settanta animano anche il mondo dello sport.
Negli anni ’80 del craxismo e della DC di De Mita il Partito socialista e la Democrazia cristiana si lanciano «in una forsennata corsa a tutte le poltrone di governo e sottogoverno disponibili», comprese quelle sportive: «Di fatto la logica dello “scambio politico” applicata a quest’ultimo ambito viaggiava su un doppio binario: la notorietà maturata attraverso gli stadi da campioni, dirigenti, presidenti di club, veniva utilizzata per improbabili candidature regionali, senatoriali, ministeriali ecc. e, per converso, il potere derivante da un’alta responsabilità politica, favoriva l’ascesa di uomini di “Palazzo” verso le strutture direttive del sistema sportivo nazionale».
I mondiali di calcio di Italia ’90, segnati dall’affarismo e dallo sperpero di denaro pubblico, rappresentano poi un punto di svolta che accelera il declino e la fine della prima Repubblica. Come nota Giuntini, «da lì in poi la politica delle “grandi opere” e dei “grandi eventi” passò di scandalo in scandalo, di tangente in tangente, da un appalto truccato all’altro. S’ingigantì un affarismo senza fondo e scrupoli».
A sinistra questa deriva di Italia ’90 vede l’opposizione dell’UISP ed è al centro di un dossier su “Rinascita” dedicato ad una discussione critica sui mondiali. Nel contempo con la trasformazione del PCI in Partito Democratico della Sinistra la principale formazione della sinistra italiana vive una fase drammatica della sua storia che si riverbera sulla dimensione sportiva. Dopo la “svolta” della Bolognina anche l’UISP decide di mutare la propria denominazione abbandonando la storica formula dello “sport popolare” a favore di un più generico e politicamente asettico “sport per tutti”.
Tra disincanto e speranza, “pessimismo della ragione” e “ottimismo della volontà”, nelle conclusioni del suo saggio Giuntini accenna alle più recenti vicende della sinistra – segnate da abiure e perdita di identità, frammentazioni e assunzioni di paradigmi politici estranei ai valori storici del movimento operaio – e ai suoi riflessi in ambito sportivo. Mantenere viva la memoria storica della sinistra anche nel campo dello sport, conclude giustamente l’autore, «non rilancerà la malandata sinistra italiana ma almeno impedirà che si disperda un ulteriore pezzo del suo patrimonio ideale e politico».
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