di Sandro Moiso
Daniel Lord Smail, Storia profonda. Il cervello umano e l’origine della storia, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp. 236, € 24,00
Per chiunque si occupi di discipline storiche e storiografiche, sia a livello professionale che per semplice interesse personale, la ricerca di Daniel Lord Smail, docente di Storia a Harvard, costituirà sicuramente una lettura straordinaria e stimolante. Anche per coloro che alla fine non dovessero condividerne gli assunti e le conclusioni.
L’intento dichiarato dall’autore è quello di spingere le barriere della storiografia attuale ben al di là dei quattromila anni prima di Cristo che hanno costituito il canone della storia ereditata dalla tradizione ebraico-cristiana del mondo occidentale, superando, allo stesso tempo, anche il limite del documento scritto che di fatto, e ancora per gran parte della storiografia attuale, ha finito col costituire il confine tra Storia e Preistoria.
Per rendere possibile questo approccio il docente di Harvard si affida non soltanto ai risultati ottenuti dall’antropologia e dalla paleontologia, ma anche ai più recenti risultati delle ricerche condotte nei settori dell’etologia, della biologia, della genetica, della fisiologia e della neuro-fisiologia. Non soltanto della specie umana.
Volendo, e citando un autore che resta in qualche modo sullo sfondo della ricerca senza mai essere direttamente nominato, l’opera può essere compresa tra due affermazioni di Karl Marx: la prima è quella in cui il filosofo tedesco prende in considerazione il fatto che l’umanità non sia ancora uscita dalla Preistoria, mentre la seconda riguarda la necessità che la storia dell’Uomo in quanto specie, debba prima o poi giungere a fondersi con la storia della Natura.
Daniel Lord Smail spinge così lo sguardo storico nella profondità del tempo, almeno fino alla comparsa dell’Homo ergaster, un milione e settecentomila anni fa. Primo rappresentante del genere Homo ad avere un apparato dentale, una scatola cranica e un rapporto dimensionale tra maschi e femmine simile a quello dell’Homo odierno. Anche se in realtà, seguendo i percorsi di ricerca delle scienze naturali applicate all’evoluzione delle forme di vita e delle specie, lo storico spinge il suo sguardo ben più indietro: non solo alla comparsa dei primati ma addirittura a quella dei rettili.
Il fine di tale sguardo nei corridoi del tempo che la storia umana «condivide con i dirupi del Grand Canyon, dove la semplice immensità del tempo è sotto gli occhi meravigliati di tutti», non è quello di stupire o abbacinare il lettore con luminose e affascinanti letture del nostro passato, alla ricerca di una mai meglio definita genuina natura umana, ma è piuttosto quello di dimostrare come sia necessario superare i limiti di una Storia basata sulle civiltà, gli Stati, le forme proprietarie e sociali sviluppatesi a partire dai millenni successivi al Neolitico e alla rivoluzione agricola, per arrivare a comprendere il complesso e lunghissimo processo di formazione delle società e dei comportamenti umani.
Una Storia che inizia, come minimo, nell’età della pietra antica e che ha visto almeno tre tipi di umanità succedersi, espandersi e, a tratti, convivere sul pianeta in aree diverse, in sequenze temporali sempre più brevi. Prima l’Homo ergaster tra 1.700.000 anni fa e circa 100.000 anni fa (essendo ormai largamente condivisa tra i paleoantropologi l’ipotesi che H. ergaster e Homo erectus di fatto coincidano) che lasciò il continente africano di origine circa un milione di anni fa per iniziare la colonizzazione del mondo a partire dall’Asia Meridionale. Poi, circa 600.000 anni fa, una seconda diaspora che vide la nascita di un «ramo del cespuglio evolutivo ominide che si è estinto con i Neanderthal, all’ incirca tra i 30.000 e i 40.000 anni fa». E, per finire, con la comparsa in Africa circa 140.000 anni fa della nostra specie attuale, H. sapiens, che intraprese un terza diaspora, lasciando il continente d’origine «tra 85.000 e 50.000 anni fa per stabilirsi nel Vicino Oriente, in Asia, in Australia, in Europa e nelle Americhe nel corso di un processo incredibile che non poté dirsi concluso fino a quando anche l’ultima isola del Pacifico venne raggiunta negli ultimi 1.000 anni. Tutte le popolazioni non-africane provengono da questa diaspora. Resta da vedere se gli esseri umani moderni sopravvivranno al di fuori dell’Africa tanto quanto H. erectus».
Questi dati potrebbero apparire al lettore più attento come già ampiamente noti, ma ciò che colpisce nell’intreccio tra dati storici, biologici e antropologici messo in opera da Lord Smail è offerto dal fatto che queste migrazioni e successive colonizzazioni dei nostri più lontani antenati costituiscano già di per sé elementi imprescindibili della storia dell’uomo. Storia che, nell’esposizione, non ha bisogno delle cosiddette civiltà per diventare tale, poiché è proprio nella sua profondità che si sono venute a creare le caratteristiche bio-culturali della nostra specie.
Ipotesi che non soltanto porta l’autore a chiedersi, con gli esponenti dell’antropologia radicale come Marshall Sahlins, se davvero l’agricoltura sia stata una conquista oppure una scelta obbligata , collegata alla riduzione della megafauna presente sui territori colonizzati; neppure la più intelligente, una volta considerate le conseguenze della stessa (nascita di società in cui il potere era concentrato nelle mani di un numero ristretto di individui, generalmente maschi, con una riduzione e specializzazione delle funzioni legate al sesso femminile; aumento delle ore di lavoro necessarie per il mantenimento degli standard alimentari e conseguente riduzione della varietà della dieta; nascita di religioni organizzate tese a consolare i nuovi “sudditi” per la perdita dei vantaggi e delle libertà individuali e di gruppo appartenenti alle società pre-neolitiche).
L’autore , però, non è alla ricerca né di una presunta e perduta età dell’oro né di comportamenti umani “innati” quali avrebbe voluto individuare la prima socio-biologia. Il suo è invece un tentativo, in gran parte convincente ed interessante, per collegare la naturale evoluzione delle specie individuata da Charles Darwin con una sorta di adattamento lamarckiano della stessa, ma di carattere storico-sociale oltre che ambientale.
Proprio per questo motivo nei due capitoli più interessanti ed innovativi del suo studio, il quarto e il quinto, intitolati rispettivamente «La nuova neurostoria» e «Civiltà e psicotropia» lo storico statunitense fa largo ricorso alle più recenti scoperte della neurofisiologia, della biologia e della genetica per rintracciare una storia dello sviluppo del cervello umano e delle funzioni dell’intero sistema nervoso legate in particolare alla chimica, potremmo dire, delle sinapsi e di tutte quelle sostanza prodotte dal nostro corpo (dopamina, ossitocina , adrenalina solo per citarne alcune) che di volte in volta alterano in maniera spiacevole oppure piacevole i nostri comportamenti e il nostro modo di percepire noi stessi e, allo stesso tempo, l’ambiente e la società che ci circondano.
Ecco allora che la leopardiana ricerca del piacere trova nella chimica del cervello, soltanto per fornire una definizione approssimativa di ciò di cui si parla, una spiegazione scientifica di non secondario valore mentre, allo stesso tempo, l’abitudine alla sottomissione e alla paura dell’autorità (politica, religiosa o gerarchica, qualunque essa sia) oppure la rivolta contro i meccanismi sociali e psichici che le producono a loro volta trovano, nell’interdizione o nella produzione guidata di sostanza psicotrope, nuovi elementi di comprensione del comportamento umano. Sia individuale che sociale.
È chiaro a questo punto che i testi scritti, la cui storia è ambigua, come i differenti motivi della loro produzione, e molto più recente rispetto al lento formarsi e definirsi dei processi chimici che costituiscono il “programma adattativo” dei nostri comportamenti individuali e collettivi, diventano strumenti di ricostruzione storica molto meno importanti di quanto fino ad ora la storiografia “istituzionale” abbia potuto pensare ed affermare. Non diventano, certo, per questi motivi inutili, ma si rivelano strumenti adatti soltanto a percepire una ristrettissima sezione di tempo dell’umano divenire, quello che per mille motivi, non ultimo forse quello legato alla comparsa della proprietà privata (come aveva forse intuito il giurista tedesco Samuel Pufendorf già nel corso del XVII secolo), è stato definito storico e civile rispetto ad un precedente tempo barbaro, primitivo e senza storia, quindi Pre-istorico.
Guarda caso una definizione di ciò che è storico rispetto a ciò che non lo è, che calza a pennello con gli ideali della colonizzazione “bianca” e occidentale del resto del globo in epoche recentissime (sostanzialmente gli ultimi cinque secoli), durante le quali più volte i conquistatori hanno classificato i popoli sottomessi come senza storia. Rifiutando di vedere o cogliere la limitatezza, questa sì davvero barbarica, di una visione che dà alla scrittura e alla narrazione ordinata secondo date legate al calendario gregoriano una funzione fondamentale nella ricostruzione del nostro (?) passato. Come afferma lo stesso autore:
Anche se l’esclusione dell’Africa dal racconto della storia dell’umanità fosse il risultato dell’inerzia culturale piuttosto che deliberato razzismo, credo che siamo moralmente obbligati a esaminare quelle eredità non evidenti che continuano a impedirci di insegnare una storia che inizi in Africa. Mentre ci spostiamo dal sacro all’umano, da un tempo storico strutturato all’interno della cronologia mosaica a un tempo definito dal cervello e dalla biologia, dobbiamo imparare a pensare all’Africa come nostra madrepatria. 1
Credo sia qui inutile sottolineare come oggi, più che mai, si stiano raccogliendo i frutti amari di un insegnamento della Storia monco a tutti gli effetti di qualcosa come un milione e settecentomila anni oppure anche soltanto di 134.000 anni. Insegnamento che ha posto al centro della sua riflessione e ricostruzione elementi estremamente volatili e volubili della conoscenza umana quali la scrittura, il potere politico, lo Stato nazionale e l’economia legata alla proprietà e alla appropriazione privata del frutto del lavoro collettivo, di cui una miriade di profughi dispersi in mezzo a un mare un tempo ritenuto nostrum non sono altro che la prova materiale più evidente.
Insegnamento che, oltre tutto, nell’esaltare le conquiste tecnologiche delle civiltà, soprattutto nella raccolta e nella trascrizione delle informazioni, dimentica quali enormi potenzialità biologiche di apprendimento e conoscitive, legate a tutti i sensi del nostro corpo, la specie abbia messo da parte o abbandonato più o meno inconsapevolmente in tempi recenti (approssimativamente gli ultimi 6.000 o 10.000 anni). Come afferma l’autore la storia non potrà in futuro fare a meno della biologia, così come l’evoluzione degli studi della stessa non potrà più fare a meno della Storia. Proprio come un certo filosofo originario di Treviri aveva predetto alla metà del XIX secolo.
Avvertenza:
Il presente articolo è già comparso, soltanto in forma lievemente diversa, sul numero di agosto della Rivista di Studi Italiani, ma l’importanza degli argomenti trattati nel testo di Smail mi ha spinto a riproporlo su Carmillaonline.
D. Lord Smail, Storia profonda, pag. 24. L’autore fa qui particolare riferimento alla fondamentale opera di Martin Bernal, Atena Nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, il Saggiatore , Milano 2011 ↩