di Sandro Moiso

Sandro Luce, Soggettivazioni antagoniste. Frantz Fanon e la critica postcoloniale, Meltemi editore, Milano 2018, pp. 308, € 20,00

A quasi sessant’anni dalla prematura scomparsa dell’autore, l’opera di Frantz Fanon (1925 – 1961) sembra acquisire una sempre maggior importanza nell’ambito degli studi post-coloniali e una ancor più significativa nell’ambito della più generale riflessione sui temi dei rapporti tra dominatori e oppressi, cultura e nazione e, soprattutto, sui concetti di modernità, progresso e diritti così come ci sono stati trasmessi da una vulgata storica, politica e filosofica ancora troppo influenzata dai miti e dagli scopi indicibili del colonialismo europeo e dei rapporti di produzione/sopraffazione di stampo occidentale.

La figura e l’azione dell’intellettuale originario della Martinica hanno infatti influenzato non soltanto i movimenti di liberazione nazionale dell’Africa e di quello che un tempo veniva definito, con un termine che derivava ancora da uno schema classificatorio figlio della concezione di progresso tipica dell’Occidente conquistatore, Terzo Mondo e dei suoi leader . Non solo ha influenzato Che Guevara e il Black Panther Party, ma anche, guardando con più attenzione, l’opera successiva di Michel Foucault oppure il radicalismo di una intellettuale e militante come Houria Bouteldja (qui).

Le sue opere principali,1 scritte sostanzialmente nel decennio 1951- 1961 e pubblicate in gran parte dopo la sua morte per leucemia, sono ancora di grandissima attualità e utilità, soprattutto per chi voglia adoperare e applicare nelle proprie ricerche il concetto di post-moderno così come è stato definito da Jean-François Lyotard.

Se infatti appare sempre più evidente come le grandi narrazioni globali prodotte dall’Illuminismo, dal Positivismo e da un troppo male inteso Marxismo, che Karl Marx per primo avrebbe rigettato, siano sempre meno adeguate per spiegare e ricostruire le vicende che hanno portato agli attuali rapporti di potere e dominazione tra classi sociali, generi e nazioni e se è sempre più evidente come il concetto di razza e nazione siano sempre più fragili di fronte alla reale esperienza storica e alle più moderne ricerche e conferme della genetica,2 l’opera di Fanon può ancora costituire non soltanto una guida per la ricerca e per l’azione, ma anche un autentico grimaldello per scardinare troppo facili certezze e assunti che finiscono spesso per l’inquinare ancora la riflessione e il pensiero politico di un malinteso antagonismo ancora influenzato dalle teorie tardo ottocentesche. Di fatto dal liberalismo e dal razionalismo positivista di stampo borghese ed eurocentrico.

E’ per questo motivo che l’opera di Sandro Luce, pubblicato da Meltemi in una collana, Linee, che da tempo presta particolare attenzione alle ricerche prodotte dai Postcolonial Studies e da quelle degli studiosi dei Subaltern Studies, è interessante, utile e necessaria.
L’autore, dottore di ricerca presso l’Università di Salerno e autore di un saggio su Michel Foucault3 e di numerosi altri pubblicati su riviste e volumi collettanei, nella prima parte del testo sottopone il pensiero di Fanon alla “prova della modernità” mentre nella seconda analizza la sua influenza sugli studi postcoloniali aprendo una sorta di serrato confronto tra gli autori di questa corrente e le principali intuizioni e formulazioni dello stesso, in particolare sui temi dell’idea di nazione e di cultura, dell’anticolonialismo e degli intrecci tra corpi, psiche e dominio coloniale.

Quest’ultimo punto si rivela particolarmente significativo, considerato che il “vissuto”, individuale e collettivo, assume nella riflessione fanoniana una centralità decisiva. Da qui

i suoi ripetuti appelli alla rivolta degli oppressi, le sue invocazioni contro il dominio dei saperi – si pensi a quello psichiatrico – che si affermano ineludibilmente come verità assoggettanti. Sono analisi potenti, prive di eufemismi, che rinviano sempre ad una realtà violenta e drammatica nella quale la condizione degli oppressi emerge innanzitutto dai loro corpi umiliati, segnati dalla brutalità coloniale, privati della loro voce, eppure inquieti, attraversati dal desiderio di ribellione e dall’ambizione di contrapporre al dominatore la forza della propria azione.
Fanon mette in campo una vera e propria “fenomenologia del corpo” che, nell’evidenziare quanto i meccanismi di disumanizzazione siano inscindibili dall’oggettivazione e dalla bestializzazione dei corpi dei soggetti colonizzati, ne preannuncia anche le capacità metamorfiche e la potenza eversiva.4

Ma Fanon apre anche la riflessione su come la violenza sui corpi si accompagni ad una forse ancora più pericolosa: quella esercitata sulle culture “altre” attraverso un’assimilazione al canone europeo «per mezzo di una vasta operazione di culturalizzazione che va tenacemente combattuta». Motivo per cui la lingua, il velo delle donne, l’uso degli strumenti di comunicazione di massa possono diventare strumenti di rivendicazione culturale, utili a diffondere il verbo rivoluzionario proprio rovesciando e mostrando la reale funzione degli assunti di un’unilaterale narrazione della modernità, bianca e occidentale.

«Strappare la maschera bianca significa per l’oppresso rifiutare la figura dell’alterità nella quale viene incapsulato e liberarsi così dai complessi di inferiorità e dai meccanismi nevrotici che lo assillano».5 Allo stesso tempo

l’obiettivo fanoniano non è però quello di riattivare figure arcaiche attraverso le quali plasmare identità essenzializzate e comunitarie da opporre, secondo la logica binaria Noi/Loro, a quella del colonizzatore occidentale. I comportamenti e le pratiche culturali vanno sempre pensate all’interno di precise articolazioni storiche e non possono che essere l’esito mai definitivo di un movimento incessante ed indefinito.6

Questo aspetto, naturalmente, finisce col riguardare la definizione del concetto di Nazione, che rischia, una volta assunto un canone identitario “stretto”, di assumere i connotati in esso infusi dal canone europeo, con tutte le conseguenze inerenti la repressione delle minoranze o di coloro con non appartengono alle etnie o alle classi dominanti una volta raggiunta la liberazione dall’assoggettamento coloniale. Contribuendo così a diffonderne, ancora ed ancora, le sue velenose radici. Tema particolarmente importanti all’interno degli studi postcoloniali e motivo per il quale, secondo Luce:

Solo attraverso un’operazione di ‘provincializzazione’ del lessico politico-giuridico della modernità occidentale e della sua attitudine generalizzata e formalizzante, dietro le quali si nascondono inevitabili forme di gerarchizzazione ed esclusione, sarà possibile provare ad immaginare quelle […] ‘sfere pubbliche diasporiche’, crogiuoli di un ordine politico post e trans-nazionale nel quale le soggettivazioni politiche saranno l’esito, mai definitivo, di rivendicazioni e di antagonismi che nascono dalla relazione tra elementi eterogenei e da un’attività di immaginazione, che sia capace di “strappare il velo del reale” e trasformarsi in impulso per l’azione.7

A questo punto però, anche se il testo di Sandro Luce non si addentra in questo discorso, sarebbe d’uopo sottolineare che i Postcolonial Studies e le formulazioni di Fanon potrebbero costituire sicuramente anche un ottimo punto di partenza per ripercorrere la storia dello stesso Occidente e della stessa Europa in cui una mai abbastanza discussa unità culturale e cristiana nasconde, in realtà, un lungo processo di sradicamento e repressione di tutte le forme comunitarie, di tutte le culture e di tutti i modi di produzione che hanno preceduto l’avvento prima della società mercantile e del suo dominio formale e, successivamente, di quella capitalistica, industriale e finanziaria, e del suo dominio totale sulle genti, le culture e l’immaginario, Una battaglia durata secoli, iniziata molto prima dell’avvento della rivoluzione industriale e spesso liquidata troppo facilmente a ‘sinistra’ con la riduttiva formula dell’“accumulazione originaria”.

In cui il moderno concetto di nazione «colma il vuoto lasciato dallo sradicamento di comunità e gruppi parentali, trasformando quella perdita in linguaggio della metafora.»8 Linguaggio in cui l’idea dello Stato-nazione ha costituito la metafora più potente, per cui la violenza esercitata sui corpi e sul corpo sociale nel suo insieme ha finito col sostituire la sacralità del corpo e dei corpi (compresi quelli dei re e dei santi) con il corpo sacro e intangibile dello Stato nazionale.

In questo modo l’individuo europeo potrebbe scoprire di aver vissuto con molto anticipo i drammi vissuti successivamente dai popoli colonizzati e dati per scontati come conseguenza dell’”inevitabile” progresso e della modernità e ritrovarsi così davanti alla necessità di strapparsi anch’egli dal volto la “maschera bianca” impostagli ormai da lungo tempo. Cancellando così in un sol colpo le panzane di cui si nutrono non solo i sovranismi e i nazionalismi, ma anche i socialismi e le democrazie nazionali e contribuendo alla riscrittura di un discorso di lotte che, una volta liberato anche dagli identarismi partitici non solo parlamentari, possa realmente aprirsi ad una maggiore integrazione tra comunità, generi, etnie, culture accomunate dalla volontà/necessità di opporsi all’oppressione politica, economica e culturale odierna.
Superando in questo modo anche l’annosa questione del “soggetto rivoluzionario” per riscoprire i ‘soggetti’. In ogni angolo del mondo.
Pensiamoci.


  1. F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 1962; F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche, ETS, Pisa 2015 e tutti gli altri scritti raccolti sia nelle opere selezionate curate da Giovanni Pirelli e raccolte in Fanon, voll. 1 e 2, Einaudi, Torino 1971, che negli Scritti politici volume I. Per la rivoluzione africana, DeriveApprodi, Roma 2006 e Scritti politici volume II. L’anno V della rivoluzione algerina, Derive Approdi, Roma 2007  

  2. Occorre a questo proposito qui ricordare la figura di Luigi Luca Cavalli Sforza, recentemente scomparso, che con la sua ricerca sul genoma umano ha sicuramente contribuito a demolire definitivamente il concetto di “razza”, così come il colonialismo e l’imperialismo occidentali avevano contribuito a creare a partire dalla seconda metà del XVIII secolo proprio allo scopo di creare una separazione netta e un muro invalicabile tra dominatori e dominati, tra popoli bianche a popoli altri secondo una linea del colore assolutamente insignificante in Natura. Si consiglia a questo proposito la lettura o la consultazione di L.L. Cavalli Sforza, Geni, popoli e lingue, Adelphi, Milano 1996 sintesi del ben più ampio L.L. Cavalli Sforza, A. Piazza, P. Menozzi, Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, Milano 1997  

  3. S. Luce, Fuori di sé. Poteri e soggettivazioni in Michel Foucault, Mimesis, Milano 2009  

  4. S. Luce, Soggettivazioni antagoniste. Frantz Fanon e la critica postcoloniale, Meltemi editore, Milano 2018, pp. 9-10  

  5. S. Luce, Soggettivazioni antagoniste, op. cit., p.10  

  6. Ivi, p. 11  

  7. Ivi, pp. 186-187  

  8. H.K. Bhabha, I luoghi della cultura in H.K. Bhabha (a cura di), Nazione e narrazione, Meltemi, Roma 1997, p. 196 cit. in S. Luce, Soggettivazioni antagoniste, op. cit., p. 180