di Fabrizio Lorusso
Attualmente in Messico ci sono oltre 22.000 corpi non identificati nelle fosse comuni del servizio medico forense. La Commissione per i Diritti Umani ha registrato la presenza di 1.306 fosse clandestine con circa 4.000 corpi sepolti dentro. Sono oltre 37.000 i desaparecidos, la maggior parte dei quali sono vittime di sparizione forzata, cioè di un crimine commesso da funzionari pubblici direttamente o da altri criminali con la connivenza o l’acquiescenza di questi. Il 2017 è stato l’anno più violento della storia recente, superando il 2011 con oltre 30.000 omicidi dolosi, e il 2018 non promette bene dato che da gennaio ad agosto gli omicidi sono stati 21.857, il 20% in più rispetto all’anno prima. Viene ucciso in media da tre anni un giornalista ogni mese e sono almeno 360.000 i rifugiati interni, cioè decine di migliaia di famiglie che sono dovute fuggire in altri stati o emigrare all’estero. La cifra accumulata delle vittime di omicidio e femminicidio è di quasi 250.000 grazie a 12 anni di militarizzazione e paramilitarizzazione della sicurezza pubblica con il pretesto di una presunta guerra alla droga, che in realtà è funzionale alla protezione del capitale privato e finanziario e agli investimenti stranieri, durante le presidenze di Felipe Calderón (2006-2012) ed Enrique Peña Nieto (2012-2018). Questo bollettino di guerra non ha tolto la speranza a migliaia di persone che da anni, e in alcuni casi da decenni, lottano per la verità, la giustizia, la riparazione e la non ripetizione dei crimini e per sconfiggere corruzione e impunità.
Tra questi sicuramente ci sono i genitori dei 43 studenti della scuola rurale di Ayotzinapa che da 4 anni lottano incessantemente per riavere i loro figli e sapere cosa è successo veramente perché “Vivi li hanno portati via, e vivi li rivogliamo”, come recita il lemma che dagli anni ’70 accompagna la lotta dei familiari dei desaparecidos in America Latina. Ne ha scritto molto bene Luis Hernández sul quotidiano messicano La Jornada:
In un Paese in cui i cadaveri senza nome sono trasportati su dei camion-frigorifero per mesi e mesi[i], e in cui ogni settimana appaiono nuove fosse clandestine, la dignità e la persistenza dei genitori dei 43 sono il seme di un altro Paese. La loro lotta indistruttibile per la verità e la giustizia è un punto critico della salute pubblica nazionale. A Enrique Peña e ai funzionari del suo governo coinvolti nel caso li perseguiterà per sempre il fantasma di Ayotzinapa. Il futuro governo avrà nella “notte di Iguala” una prova del fuoco definitiva. Dalla sua decisione di toccare gli interessi che frenano il chiarimento dei fatti, dalla sua volontà e capacità di risolvere questo crimine di lesa umanità dipenderà, e molto, il giudizio della storia. Più che di commissioni, è l’ora della verità.
Nella notte del 26-27 settembre del 2014, a Iguala, nel meridionale stato del Guerrero, i ragazzi furono vittime di un attacco orchestrato da differenti autorità, come la polizia locale, la federale, la ministeriale e la statale, con l’acquiescenza e la partecipazione indiretta, per quanto s’è potuto provare finora, dell’esercito messicano, cioè del 27esimo battaglione di stanza a Iguala. Le autorità hanno monitorato gli studenti già dal pomeriggio e tra le 9 e la 1 di notte, per oltre 4 ore, hanno condotto una vera e propria operazione di repressione e di caccia all’uomo, servendosi di corpi speciali paramilitari noti come bélicos e di gruppi del crimine organizzato per portare a termine la strage. 42 studenti sono tuttora desaparecidos e i resti calcinati di uno solo di loro, Alexander Mora, sono stati identificati.
6 persone, tra cui 3 studenti, sono state uccise quella notte e decine ferite. La reazione nazionale e internazionale è stata fortissima e, insieme a scandali di corruzione e alle numerose mattanze delle forze armate che sono vere e proprie esecuzioni extragiudiziali, ha segnato nettamente la presidenza di Peña. Ome se non bastasse la procura Generale della Repubblica e il governo hanno sostenuto una verità fallace, detta “storica” solo da loro, che è stata ottenuta con la minaccia e la tortura degli indiziati. Inoltre su 130 detenuti per il caso nessuno è imputato per sparizione forzata. Le indagini di esperti internazionali e dei giornalisti e attivisti messicani hanno portato alla distruzione della versione ufficiale, che sostiene che i 43 sono stati rapiti e bruciati da narcotrafficanti nella discarica di Cocula, nei pressi di Iguala, e hanno costruito una versione più realistica, anche se incompleta.
Restano aperte almeno quattro piste per le indagini, non esplorate e anzi occultate dalla procura: la caserma e il ruolo del 27esimo battaglione militare a Iguala, che potrebbe aver occultato i corpi dei ragazzi e forse cremati, vista la tradizione stragista dell’esercito nel Guerrero ed essendo l’unica struttura ad avere forni crematori; la pista dei cellulari di alcuni studenti che sono stati accesi e hanno ricevuto chiamate anche molte settimane dopo la sparizione forzata e che, secondo le geolocalizzazioni, si trovavano in strutture militari come il campo n. 1 a Città del Messico; la possibilità che 25 studenti siano stati portati a Huitzuco dalla polizia locale di quella città e non a Cocula nella notte del 26; il mistero del quinto autobus, nascosto dalle indagini ufficiali ma esistente e occupato dagli studenti la notte del 26, su cui ci sarebbe potuto essere un carico di eroina che potrebbe essere stato uno dei moventi iniziali dell’attacco di polizia e crimine organizzato contro i bus (che sono in totale dunque non quattro come dice la procura, ma cinque).
Viste le grandi irregolarità, le torture ai detenuti e la mala fede nella conduzione delle indagini, la versione costruita dal governo e la conduzione del caso viola il dovuto processo e i diritti umani ed è da rifare. Più o meno è questo il contenuto di una sentenza di un tribunale del Tamaulipas (il Terzo tribunale collegiale del 19esimo circuito) in cui viene seguita una parte del caso giudiziario. La sentenza, emessa il 30 maggio 2018 in risposta ai ricorsi presentati dai detenuti per il caso Iguala, è storica in quanto riconosce la gravità delle irregolarità commesse e chiede la costituzione di una Commissione di Indagine per la Verità e la Giustizia e la possibilità di un intervento internazionale, di uno scrutinio e di un accompagnamento di istituzioni come l’ONU, la Corte Interamericana dei Diritti Umani e il GIEI (gruppo interdisciplinare di esperti indipendenti), che già aveva investigato e demolito la verità ufficiale tra il 2015 e il 2016. Si chiede quindi a gran voce il ritorno degli esperti e la commissione della verità.
Il prossimo presidente, eletto con una maggioranza inedita nella storia democratica del Messico, Andrés Manuel López Obrador, ha promesso la creazione della Commissione e la risoluzione del caso in un comizio proprio a Iguala in cui hanno partecipato sul palco i genitori dei 43. Sarà per il nuovo governo, che per la prima volta è sostenuto da una maggioranza di sinistra e ha promesso una lotta dura contro corruzione, disuguaglianze e privilegi, un banco di prova importantissimo. Ciononostante in questi ultimi mesi di governo, Peña ha fatto di tutto per invertire gli effetti della sentenza e fermare la Commissione sul caso: vari ministeri, tra cui la difesa, ovviamente, e la presidenza hanno interposto circa 200 ricorsi contro il tribunale del Tamaulipas.
Ma il 19 settembre un tribunale gerarchicamente superiore ha confermato la sentenza e ha quindi dato una svolta al caso e all’inizio di un processo di verità e giustizia per Ayotzinapa. Il futuro governo sta promuovendo in questi mesi una serie di incontri pubblici, stato per stato, per formulare proposte per la pacificazione e la riconciliazione nazionale, un esperimento difficile e anche controverso che però sta generando iniziative e discussioni sulla guerra interna, il ruolo dello Stato e dei poteri economici, sul narcotraffico, le vittime e la giustizia transizionale che da tempo il Messico meritava. Le aspettative sono forse troppo alte, ma almeno qualcosa si muove. Di certo la lotta dei collettivi di cercatori e di familiari dei desaparecidos, come quella dei genitori di Ayotzinapa e delle storiche organizzazioni degli anni della cosiddetta “Guerra sporca” degli anni ’70 e ’80, non si fermano e non si limitano alle belle parole. Le manifestazioni e le iniziative, chiaramente, non si fermano per questo motivo e questo 26 settembre 2018 di nuovo i movimenti sociali accompagneranno i genitori dei 43 studenti al grido di ¿Dónde están? e !Justicia¡ per cui si possono seguire e organizzare le azioni globali mediante l’hashtag #Ayotzinapa4años.
La ricerca di vita per i familiari dei desaparecidos
Possiamo intendere la “ricerca di vita” come la risposta immediata alla domanda: “Che cosa stanno cercando i familiari delle persone scomparse?”. Le indagini, le esplorazioni sul campo e le ricerche instancabili, che realizzano i familiari in un’infinità di luoghi diversi in lungo e in largo nella difficile geografia nazionale con il fine di trovare in vita o anche morti i propri cari, si riassumono in un concetto emergente e potente, derivato del discorso stesso delle vittime e delle organizzazioni in lotta per i desaparecidos in Messico.
Tutto questo è quotidianità terribile per migliaia e migliaia di persone nel contesto della cosiddetta “guerra al narcotraffico”, un conflitto interno che non è altro che una strategia di militarizzazione dei territori e di controllo sociale simile a una guerra civile, combattuta tra diversi attori armati per ottenere rendite economiche e politiche, quote di potere e di traffici leciti e illeciti, protezioni e business di ogni tipo.
Mediante la onnipresente violenza fisica, simbolica e strutturale il corollario della guerra diventa il controllo biopolitico dei corpi, delle menti e dei gruppi sociali potenzialmente trasformatori, così come la repressione delle domande di giustizia sociale e di redistribuzione che provengono dai settori più marginali e vulnerabili che, guarda caso, sono anche quelli più colpiti dalla violenza imperante, militare, di polizia e paramilitare: sono i giovani, i poveri, le donne, le comunità rurali e indigene, i custodi delle risorse naturali, i giornalisti e gli attivisti. La società messicana è incastrata tra i fuochi della guerra, dell’impunità, della corruzione, delle disuguaglianze, del mercato inselvaggito, dell’individualismo consumista e ideologizzato e dell’accumulazione per espropriazione e spoliazione, rilanciata dal modello neoliberista globalizzato e dalle riforme strutturali degli ultimi anni.
Mi ha colpito ed emozionato molto leggere della búsqueda de vida (ricerca di vita) nell’introduzione del libro Memoria de un corazón ausente. Historias de vida (Memoria di un cuore assente. Storie di vita) (lo trovi qui in PDF LINK), scritta dal difensore dei diritti umani e cofondatore nel 2009 dell’organizzazione, oggi nazionale, FUNDEC (Fuerzas Unidas por Nuestros Desaparecidos en Coahuila), Jorge Verástegui González. Il volume, illustrato dall’artista e attivista Alfredo López Casanova e pubblicato dalla Fondazione Heinrich Böll Stiftung è una collezione di storie di donne che raccontano la vita dei loro cari scomparsi e, in questo modo, invertono le narrazioni che si focalizzano solo sui familiari “che restano” e che cercano i desaparecidos e ridanno vita e contenuto agli assenti e al loro vissuto prima della sparizione.
Come segnala la stessa introduzione, il libro “cerca di cambiare la narrativa, restituendo la storia di persone scomparse in base al concetto di ricerca di vita, il quale sorge analizzando che cosa c’è dietro alle azioni di ricerca di un desaparecido e comprendendo che la relazione intima tra chi sta cercando e la persona cercata è un vincolo profondo che va oltre la fisicità, la materialità e la corporalità per trasferirsi alla affettività, la soggettività e al vissuto. In un senso fisico, ma anche in uno soggettivo, ciò che si cerca è vita, visto che i nessi possono essere biologici, “di sangue”, e allo stesso tempo affettivi, come succede tra fratelli o tra madre e figlio, ma possono essere solo affettivi, come tra coniugi o amici, per cui “la connessione affettiva è quella che riveste di vita la ricerca di chi è desaparecido” ed è sintetizzato dalla metafora per cui l’assenza significa che “sparisce una parte del cuore”.
Esistono due possibilità di rincontro che sono la localizzazione in vita o senza vita della persona scomparsa e, anche se in quest’ultimo caso pare paradossale parlare di una “ricerca di vita”, in realtà succede che la vita è intesa come battito fisico di cuore e polmoni, ma anche soprattutto come affettività e soggettività singolare da recuperare. Addirittura i resti ossei di un proprio caro, estratti da una fossa clandestina, rappresentano una vita soggettivamente presente per chi la sta cercando ed eventualmente per chi la trova dopo aver percorso tante strade in senso fisico come in senso metaforico, dopo aver solcato sentieri della memoria in cui l’assente ha lasciato le sue orme. I cercatori e le cercatrici di fosse clandestine trovano tesori di inestimabile valore, non solo ossa, resti o semplici indizi.
La desaparición rompe il vincolo fisico ma soprattutto quello affettivo, provocando di conseguenza un impulso irrefrenabile al movimento, alla ricerca e anche all’azione collettiva, a qualunque costo e rischio, con il fine di ritrovare i vincoli e avviare un processo di chiusura del lutto che, fino a quel momento, era rimasto congelato o sospeso, aperto indefinitamente. In molti collettivi di familiari questo dolore si può socializzare e il lutto diventa condiviso e più sopportabile, spingendo all’azione e alla ricerca di vita.
“Los otros buscadores: buscando vida entre los muertos”(Gli altri cercatori: cercando vita tra i morti) è il nome emblemático del nuovo collettivo di Mario Vergara, cofondatore del collettivo de Los otros desaparecidos de Iguala nel 2014 che continua a lottare a cercare suo fratello Tomás, sequestrato nel 2012 a Huitzuco, stato del Guerrero.
Nel 2016 uscì un reportage di Juan Flores Mateos centrato sulla figura di Mario ma anche di altri uomini e donne che in Messico intraprendono la ricerca dei loro cari e denunciano la complicità o l’inerzia delle autorità. Il titolo del pezzo era, giustamente: “Encontrar a los muertos para darle vida a los vivos” (Trovare i morti per dare vita ai vivi).
Parlando dei dolori e le conseguenze fisiche e psicologiche della ricerca nel caso dei genitori dei 43 studenti di Ayotzinapa, Luis Hernández Navarro spiega:
La sofferenza non diminuisce con gli anni. Né la sua, né quella del resto dei genitori e fratelli degli studenti scomparsi. La sparizione forzata è uno dei delitti più atroci. Le famiglie soffrono in un primo momento per il terribile colpo rappresentato dall’assenza. Poi soffrono l’afflizione della ricerca e dell’incertezza. Non hanno modo di processare il lutto. Non hanno modo di dire addio.
La sofferenza, i sensi di colpa, i cattivi momenti hanno avuto effetti devastanti sulla salute dei familiari. Le patologie che già avevano sono peggiorate, mentre ne emergono di nuove. In 16 famiglie su 43 ci sono malattie molto gravi, in maggioranza legate al diabete, l’ipertensione e la cattiva alimentazione. Il febbraio scorso è morta Minerva Bella Guerrero, madre di Everardo Rodríguez bello, il quarto di sette figli. La zia Mine, come la chiamavano i suoi cari, era una donna allegra, che amava ballare, fino a che la tristezza causata dalla sparizione forzata di suo figlio non l’ha spenta. Nel letto di morte ha chiesto a sua figlia di trovare suo fratello e di abbracciarlo più forte che può.
Francisco Rodríguez, marito di Minerva, usa una maglietta con scritto: Muoverò montagne per stare con te. Neanche lui s’arrende. Ha promesso a sua moglie che avrebbe trovato sua figlio Everardo e non si fermerà finché non avrà adempiuto la sua promessa. Le famiglie degli altri ragazzi l’hanno salutata con un bollettino di guerra: è morta combattendo il cancro e l’impunità di un governo che non le ha mai dato risposta circa il destino di suo figlio. Riposi in pace.
La chiusura del lutto sospeso implica che, secondo Verástegui, “solamente con il rincontro delle due persone esiste la possibilità di andare avanti e transitare da uno stato di incertezza a un nuovo senso di vita”. Cercare resti della vita fisica, allora, significa fare un salto, una rotazione, nella comprensione normalizzata e comune sulla morte e recuperare una parte importante della vita di chi si sta cercando. Implica anche ritrovarsi nel “non-senso delle sparizioni forzate” e intraprendere un viaggio di ritorno allo stato precedente.
L’interiorizzazione della búsqueda de vida è un elemento di costruzione di nuove identità individuali e collettive, aspetto fondamentale nei movimenti sociali, a partire dalla reazione contro l’aggravio, l’ingiustizia e l’abuso, e soprattutto dinnanzi a quello stesso dolore, quel dolore comune, che provano tutti e tutte le vittime e che le unisce in communitas. Il lavoro di Memoria de un corazón ausente usa il metodo della storia orale per ridare voce e vita agli assenti mediante la narrazione di chi li sta cercando e, così facendo, ricostruisce scampoli di senso dentro l’incertezza limbica e dolorosa della desaparición.
Leggi su Carmilla l’archivio “Ayotzinapa” LINK
[i] Il riferimento è alla notizia diffusa la settimana scorsa di un camion-frigorifero enorme pieno di cadaveri (157 corpi) che deambulava per il territorio dello stato di Jalisco per via della mancanza di spazio nelle strutture preposte alla conservazione e identificazione dei cadaveri. Il “camion della morte”, parcheggiato in una di zona periferica di Guadalajara, visto l’odore di putrefazione che emanava, ha suscitato le proteste degli abitanti ed è stato spostato. Questa pratica è proibita dal 2013 ma viene ancora realizzata i varie località. http://www.eluniversal.com.mx/estados/lo-que-sabemos-de-los-cuerpos-hallados-al-interior-de-un-trailer-en-jalisco