di Armando Lancellotti

Marino Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma, 2018, pp. 256, € 20.00

Alcune delle ragioni che rendono apprezzabile il libro di Marino Ruzzenenti sono la chiarezza delle tesi esposte, la precisione ed il rigore con cui vengono sostenute ed argomentate alla luce di una corposa documentazione e di ricchi riferimenti storiografici. Idee e punti di vista probabilmente destinati a ridestare discussioni tra gli studiosi, in realtà mai del tutto sopite, ovvero fra i sostenitori della discontinuità tra antisemitismo religioso (e cattolico in particolare) ed antisemitismo razziale (premessa e causa della Shoah) e i fautori della tesi della tangenza e convergenza, senza una sostanziale soluzione di continuità, tra le due principali modalità storiche di odio antiebraico.

L’autore – che delimita il campo altrimenti sterminato del suo studio, chiarendo l’intenzione di considerare esclusivamente le posizioni ufficiali ed istituzionali della Chiesa riguardo agli ebrei ed in particolare a partire dal pontificato di Leone XIII e non altri aspetti del problema dei rapporti tra il mondo cattolico, gli ebrei d’Europa e la Shoah – appoggia risolutamente la tesi della consequenzialità e continuità e pertanto, fin dalle prime pagine, prende le distanze da quello che considera un apriori storiografico dogmatico, osservato – salvo qualche rara eccezione – non solo da tutti gli storici cattolici, ma anche da buona parte degli storici laici ed ebrei, forse preoccupati questi ultimi di non incrinare i rapporti tra ebraismo e Chiesa. Un apriori che distanzia l’antisemitismo cristiano (per questo il più delle volte chiamato antigiudaismo) da quello razzista (nazista in particolare) ed eliminazionista, sostenendo che il primo non si fondi su principi razziali, ma solo religiosi e che abbia come suo fine la conversione, il cui conseguimento estinguerebbe il disprezzo e l’ostilità.

Secondo Marino Ruzzenenti codesta interpretazione dei fatti risulta essere funzionale, in buona sostanza, ad una lettura riduzionistica del ruolo svolto dalla Chiesa nella elaborazione delle categorie dell’odio antisemita e nella loro diffusione, proprio nel momento storico decisivo per lo sviluppo del razzismo come ideologia forte del pensiero e della cultura occidentali, cioè in quella seconda metà dell’Ottocento in cui sul soglio pontificio a Pio IX succede Leone XIII. Ecco allora perché l’assunto aprioristico della netta differenza propende per la separazione tra le posizioni di certi ambienti ecclesiastici, come la rivista dei gesuiti – la Civiltà cattolica – su posizioni rozzamente e grossolanamente antisemite ed il papato, quello di Leone XIII e della sua Rerum Novarum, presentato come un pontificato “sociale e liberale”. Rappresentazione lontana dalla realtà storica dei fatti, secondo Ruzzenenti, che sostiene e spiega come il papa stesso sia stato attore in prima persona della politica antisemita della Chiesa tra ‘800 e ‘900, cioè nel momento storico in cui si formarono le idee che poi sarebbero tragicamente confluite nell’antisemitismo genocida della Shoah.

In sintesi Ruzzenenti ritiene che per pesantezza delle accuse rivolte, per virulenza degli attacchi, per persistenza storica del fenomeno, per corrispondenza quasi perfetta tra provvedimenti discriminatori adottati (o auspicati) da Chiesa e stati cristiani nel passato e dalle legislazioni razziali degli anni Trenta del ‘900 poi, l’antisemitismo cattolico abbia agito da premessa, da presupposto propedeutico allo scatenamento dell’antisemitismo razziale. Infatti, anche l’argomento secondo il quale l’ostilità antiebraica cattolica non avrebbe contenuti e connotati razzisti – poiché contrari ai fondamenti della fede cristiana – è privo, pensa l’autore, di cogenza logica, dal momento che l’attribuzione collettiva e sulla base di stereotipi e pregiudizi di colpe e misfatti, il determinismo che vincola necessariamente l’individuo e il suo comportamento al gruppo e alle sue presunte caratteristiche, la trasmissione ereditaria e persistente nel tempo di quei medesimi caratteri sono tutti aspetti essenziali del razzismo, tanto che abbia il suo fondamento in principi teologico-religiosi, quanto che li ritrovi in teorie pseudoscientifiche. E la “perfidia del popolo deicida” – per racchiudere in questa formula tutti i possibili stereotipi antisemiti – che apparterebbe a tutti i “giudei” in quanto tali, che ne determinerebbe inesorabilmente i comportamenti, che si trasmetterebbe di generazione in generazione, per secoli e millenni, non può non essere considerata la base granitica di un “razzismo antisemita religioso”, che neppure l’eventuale ed auspicata conversione alla “vera fede” elimina del tutto, come dimostra – afferma Ruzzenenti – il caso spagnolo degli Statuti di Limpieza de sangre del ‘500.

Di sicuro interesse sono poi le analisi che Ruzzenenti propone di due casi quanto mai significativi a supporto della tesi principale dell’intero suo lavoro: si tratta delle vicende dei partiti cristiano-sociali austriaco e francese, cioè di due paesi di radicatissima tradizione cattolica, che dal pontificato di Leone XIII ricevettero incentivo e sostegno alla partecipazione alla vita politica e all’impegno nella società. È noto quanto contemporaneamente molto differente fosse la situazione del mondo cattolico italiano, ancora per molto tempo vincolato al rispetto del non expedit di Pio IX e quindi anche per questo i casi austriaco e francese risultano ancora più decisivi per comprendere quali fossero i tratti essenziali e la cornice complessiva del pensiero sociale della Chiesa nell’ultimo quarto del secolo XIX. Quello austriaco fu il primo partito cristiano-sociale a prendere il potere e a conquistare posizioni di governo in Europa, quindi dalla Chiesa fu visto quasi come un avamposto del progetto del Vaticano di spingere il laicato cattolico all’impegno nel mondo civile e sociale, al fine di ricristianizzare la società moderna, cioè quella modernità che al controllo della Chiesa aveva iniziato a sfuggire alla fine del secolo precedente, con la rivoluzione francese e il pensiero illuministico.

Nell’interpretazione dei fatti di Ruzzenenti, ciò che muoveva l’attenzione della Chiesa per la società moderna, interesse poi espresso organicamente nella Rerum Novarum, non erano l’intento del dialogo con essa, la ricerca di una mediazione delle posizioni o la volontà di rendere moderna la Chiesa, ma, tutto al contrario, un progetto neoteocratico di ri-cristianizzazione della società laica moderna, del quale l’antisemitismo era parte integrante. E le presunte aperture della Rerum Novarum, tanto valorizzate dalla storiografia cattolica, in realtà rientravano in una complessiva visione conservatrice e statica della società, che leggeva le dinamiche sociali secondo modalità tradizionali e che criticava la modernità e i suoi prodotti, cioè tanto il capitalismo quanto il marxismo, visti come espressioni complementari di uno spirito moderno materialista ed ateo ed entrambi messi in relazione all’ebraismo, che, dopo l’emancipazione iniziata a fine Settecento, era considerato dalle forze politiche e sociali conservatrici come causa e al contempo effetto della modernità stessa e comunque ad essa consustanziale. Capitalismo e marxismo, l’uno dal lato dell’individualismo liberale e l’altro da quello del collettivismo socialista, erano giudicati come prodotti dello spirito giudaico e del suo razionalismo materialista.

Dopo l’elezione al soglio pontificio di Leone XIII, nel 1878, partiti cattolici come quello austriaco e quello francese furono spinti all’azione dal Vaticano, nel quadro generale della politica voluta dal papa di lotta contro la modernità, contro la civiltà moderna laica e liberale e sulla base del collante ideologico dell’antisemitismo, che avrebbe assicurato ottime possibilità di presa e di diffusione nella due società. Il tutto si reggeva sull’equazione per cui il giudaismo, emancipato ed assimilato, coincideva con la massoneria, quindi con le forze laiche, illuministiche, razionalistiche che con la rivoluzione francese avevano preso il comando della società “moderna”, capovolgendo quella “naturale”, poiché “cristiana”, dell’ancien régime. La lotta contro la modernità era quindi tout court una lotta contro gli ebrei e le loro cospirazioni massoniche. Alla modernità la Chiesa contrapponeva il programma di una riorganizzazione sociale corporativa e al confronto tra capitale e lavoro e allo scontro di classe sostituiva l’idea dell’armonia sociale da conseguire ricollocando la Chiesa stessa al centro della società, in posizione di guida e comando.

È illuminante e meritevole di ulteriori approfondimenti l’idea di Ruzzenenti che sembra cogliere uno dei presupposti del processo di avvicinamento e poi di stretta alleanza tra cattolicesimo e fascismo in una comune e convergente visione complessiva della società e delle sue dinamiche economiche: si tratta di quel corporativismo che, mutatis mutandis, dalla dottrina sociale della Chiesa a inizio ‘900 passò al nazionalismo italiano e da questo al fascismo, divenuto prima forza di governo e poi regime. Di questa complessiva visione della società parte essenziale – e quindi anello di congiunzione decisivo tra cattolicesimo e fascismo – era l’antisemitismo, che la Chiesa coltivava ed esprimeva da moltissimo tempo e che il fascismo adottò da un certo momento in poi e – come è ben noto – con esiti nefasti per gli ebrei italiani.

Questo importante nucleo tematico viene di seguito approfondito da Ruzzenenti nelle pagine dedicate al pensiero di Giuseppe Toniolo (o di Agostino Gemelli), figura assolutamente centrale per la genesi e lo sviluppo del pensiero economico sociale del cattolicesimo italiano, e non solo, e padre nobile del movimento cattolico italiano novecentesco. Toniolo elaborò una organica e generale teoria economica che intendeva, per sua stessa dichiarazione, muovere una critica del capitalismo moderno, dopo averne colto genesi e sviluppo e con finalità restauratrici, cioè con l’idea di ripristinare l’ordine sociale cristiano tradizionale. Si tratta di quella “neoteocrazia della modernità” che Ruzzenenti attribuisce al pontificato di Leone XIII come sua cifra essenziale, ovvero del «progetto di ricondurre il progresso tecnologico, industriale ed economico (le rerum novarum, appunto) all’interno di una società cristianamente ordinata secondo i principi eterni della Chiesa e della potestà divina rappresentata sulla terra dal pontefice, come vigeva nell’aura età media». (p. 77) Per questo Giuseppe Toniolo propose una “filosofia della storia” secondo la quale lo spirito laico e razionalistico del Rinascimento e poi a seguire il protestantesimo avrebbero sovvertito l’ordine naturale e divino delle cose e della società, introducendo un sistema economico e relazioni sociali incentrate esclusivamente sul principio del profitto individuale che causa eccessiva disuguaglianza. Insomma si tratta di quel capitalismo delle origini che trovò, secondo Toniolo, nel mutuo feneratizio, nel monopolismo e nel commercio speculativo i suoi pilastri fondamentali; in altre parole quello che, se volessimo attualizzare i concetti dell’economista cattolico, oggi chiameremmo capitalismo finanziario o finanziarizzazione dell’intera economia o subordinazione dell’economia produttiva all’economia finanziaria e speculativa.

Nel medioevo era stata la Chiesa a porsi come argine a queste storture economiche e sociali e, secondo il pensatore ed economista cattolico – dal 2012 beato, per decisione di papa Benedetto XVI – aveva tentato di opporsi alla deriva della società istituendo e promuovendo il sistema dei Monti di pietà, come alternativa alla speculazione, immancabilmente – anche per Toniolo – monopolizzata dagli ebrei. Ecco il punto saliente, pure secondo Toniolo, la degenerazione capitalistica della modernità costituiva un tutt’uno con l’imposizione dell’egemonia del dominio giudaico all’interno delle società cristiane. Lo strumento vincente di questo progetto/complotto giudaico per il controllo del mondo cristiano era quindi quello economico-finanziario.

L’anticapitalismo di Toniolo – come risulta dalle riflessioni di Ruzzenenti – cioè quello della dottrina sociale della Chiesa di Leone XIII, quello della Rerum Novarum, quello dei partiti cattolici sorti e promossi dal Vaticano in Austria, Francia e altri paesi cattolici, quello che poi a inizio ‘900 in Italia fu espresso anche dal nazionalismo e che in seguito, sia attraverso quest’ultimo sia grazie alla politica di avvicinamento tra fascismo e cattolicesimo, entrò nel fascismo era reazionario, antimoderno e apertamente antisemita.

Tornando ai partiti cristiano-sociali, quello austriaco fece breccia soprattutto presso la piccola borghesia, spaventata dal marxismo ed egualmente dal grande capitale e dalla modernità, che venivano identificati con l’ebraismo. A questo si aggiungevano numerosi elementi di nazionalismo völkisch, che sostenevano l’idea della contrapposizione inconciliabile tra Judentum e Deutschtum. Nel programma del partito del 1894 si ritrovano affermazioni antisemite sconcertanti, così come nei discorsi, ampiamente riportati da Ruzzenenti, del suo più importante leader Karl Lueger. Tutto questo non solo era noto alla Chiesa, ma – sottolinea l’autore – approvato dal Vaticano e da papa Leone XIII, nonostante alcune perplessità espresse da certi gruppi o esponenti del mondo cattolico viennese. Un così diffuso antisemitismo, in buona parte dovuto anche al solido e duraturo successo del partito cristiano sociale austriaco, può aiutare a capire – osserva Ruzzenenti – perché la “piccola” Austria, una volta annessa al Terzo Reich nel 1938, abbia dato un contributo percentualmente altissimo alla messa in opera delle politiche antisemite naziste e della Shoah.

Analogo è il caso francese del partito cattolico denominato “Democrazia cristiana”, che attinse a piene mani alle idee del campione indiscusso dell’antisemitismo francese dell’epoca: Édouard Drumont, autore de La France juive e fondatore del giornale reazionario ed antisemita La Libre Parole. Pure in questo caso, aiuti ed appoggi da parte del Vaticano e del papa agli ambienti e ai gruppi antisemiti francesi non tardarono ad arrivare, così come a tutto il fronte antidreyfusardo. La vittoria della Francia laica nell’affaire Dreyfus, paradossalmente, peggiorò la situazione, perché gli ambienti cattolici antisemiti si convinsero ancora di più che ci fosse un complotto ebraico in atto e che avesse ormai irrimediabilmente conquistato la guida del paese. È questo l’humus, alla crescita del quale la Chiesa cattolica contribuì in maniera fondamentale, da cui si sviluppò il partito dell’Action française di Charles Maurras, che fu antisemita, nazionalista, fascista, filomussoliniano, filofranchista e che animò la politica della Repubblica di Vichy, emanando una legislazione antisemita, senza che vi fosse alcuna esplicita richiesta o pressione da parte dell’occupante tedesco e che guidò il rastrellamento degli ebrei francesi per la loro deportazione a est.

Nel novembre del 1896 – ricostruisce Ruzzenenti – «nel periodo infuocato dell’affaire Dreyfus, si tenne a Lione il primo congresso nazionale della Democrazia cristiana, articolato in tre sessioni, la prima antimassonica, la seconda antisemita e la terza sociale». (p. 25) Il congresso discusse sulle norme antiebraiche la cui adozione il partito avrebbe sostenuto e promosso e ne individuò cinque; le prime due dichiaravano: «1. Il decreto del 1791, che ha dato il diritto di cittadini francesi agli ebrei, deve essere abolito. 2. Nel frattempo, gli ebrei devono essere esclusi dall’insegnamento pubblico, dalla magistratura, dagli impieghi amministrativi e dai gradi dell’esercito». (p. 27) È sin troppo facile osservare come questi provvedimenti, insieme ad altri, sarebbero stati adottati in seguito dalle legislazioni antisemite dei fascismi del XX secolo. In sostanza – conclude Ruzzenenti – si può sostenere che in Francia l’antisemitismo, profondamente radicato a fine ‘800 e inizio ‘900 e dai toni violentissimi, sia nato, si sia sviluppato e diffuso all’interno del mondo cattolico, sulla base del tradizionale odio antiebraico cristiano-cattolico e con l’aperto appoggio del Vaticano.

Tra gli organi della Chiesa che più si impegnarono nella politica antisemita, la Civiltà cattolica fu certamente in prima fila ed in particolare per opera – ricorda Ruzzenenti – di padre Giuseppe Oreglia, autore di numerosissimi articoli trasudanti un antisemitismo virulento. Nelle pagine della Civiltà cattolica si realizza anche il passaggio senza soluzione di continuità tra “antigiudaismo” e “antisemitismo” per mezzo della “razzializzazione” degli ebrei, che vengono esplicitamente definiti “razza” e in quanto tali, cioè in quanto “razza”, a loro vengono attribuite le peggiori caratteristiche dello stereotipo antisemita. È all’interno di questo quadro ideologico complessivo che la Chiesa spinse in Austria e Francia i partiti cattolici alla partecipazione all’agone politico, in vista di un progetto di riconquista cristiana della società, per la realizzazione del quale l’arma principale da utilizzare era proprio l’antisemitismo, al punto che fu la Chiesa stessa a richiedere per prima l’adozione di legislazioni speciali antiebraiche già a fine ‘800.

«Inoltre, ed è il caso di sottolinearlo, lo stesso Oreglia in un articolo del 1880 ipotizzava esplicitamente misure restrittive nei confronti degli ebrei in Europa, come la negazione della cittadinanza, la confisca dei beni e delle proprietà terriere, l’allontanamento dall’insegnamento e dal giornalismo, in buona sostanza i provvedimenti che, come abbiamo visto, diventarono a fine secolo programma politico dei partiti cattolici francese e austriaco e che, mezzo secolo dopo, formeranno l’ossatura della legislazione antisemita nazista e fascista». (p. 35)

Ed è sempre la Civiltà cattolica che arriva alla elaborazione del concetto della “segregazione amichevole”, che di fatto la Chiesa manterrà anche successivamente e che le permise non solo di tollerare, ma addirittura di considerare come opportuni molti dei provvedimenti antisemiti delle legislazioni razziali fasciste. Sulla rivista dei Gesuiti nel 1881 si leggeva: «Ma […] può ognuno congetturare quanta sia la sapienza dei moderni legislatori che, seguendo i principii liberali e massoni, tolsero ogni freno di leggi eccezionali a una razza forastiera a ogni paese dove abita; e quanto sia per essere vana e fuoco di paglia qualsivoglia agitazione antisemita, la quale non riconduca una legislazione speciale per gli ebrei; in forza di cui essi non siano già perseguitati o vessati, ma difesi e frenati contro sé medesimi e le loro vessazioni e persecutrici tendenze sempre riuscite fatali prima ai popoli che non seppero frenarli e poi agli stessi ebrei; contro i quali presto o tardi suole poi sempre prorompere l’odio e la vendetta popolari». (p. 37) Insomma, è da loro stessi – e dalla loro connaturata malvagità – che gli ebrei devono essere difesi, quindi segregati, come il sistema medievale dei ghetti aveva fatto in passato, in quella “età d’oro” della società cristiana che la Chiesa di fine ‘800 vorrebbe restaurare.

Sulla base di queste considerazioni, sostiene Ruzzenenti, continuare a dire che l’antigiudaismo religioso della Chiesa cattolica sia stato costitutivamente altro dall’antisemitismo razziale dei fascismi successivi appare argomentazione speciosa ed altrettanto si dovrebbe dire delle reticenze della storiografia cattolica nel riconoscere l’antisemitismo del pontefice, che viene percepito come una contraddizione rispetto alle presunte aperture alla società e alla modernità della Rerum Novarum, aperture che in realtà si muovono in tutt’altra direzione, cioè in quella di una “restaurazione neoteocratica“. Insomma si potrebbe dire che per Ruzzenenti definire Leone XIII un “papa sociale” perché emanò la Rerum Novarum sarebbe come pensare – come si erano illusi di poter fare i neoguelfi di metà 800 – a Pio IX come a un “papa liberale” solo perché indirettamente diede inizio al biennio delle riforme. La vera differenza tra i due papi, secondo Ruzzenenti, sta nel fatto che Pio IX dopo il Sillabo e la Quanta Cura si arroccò su posizioni di intransigente chiusura e rifiuto di dialogo con la modernità, mentre Leone XIII volle entrare nell’agone politico e sociale per creare un argine al laicismo, al liberalismo, alla democrazia e soprattutto al socialismo, assumendo una posizione attiva e di attacco alla modernità, ma uguale rimaneva il fondamento ideologico dei due papi. Per questi fini Leone XIII rispolverò il tomismo e lo impose come paradigma della visione della società, promuovendo una sorta di medievalismo a cavallo tra ‘800 e ‘900.

[continua]