di Gioacchino Toni
«il terrorismo sfida costantemente l’Occidente nella sua evidente difficoltà di gestire il corpo dell’Altro, di percepirlo, comprenderlo e accettarlo [come testimonia il riemergere] di una cultura pseudoscientifica del controllo dei corpi, che affonda le proprie radici nella criminologia tardo-ottocentesca» (Barbara Grespi)
«l’operatore del drone è un’immagine specchio di quella del suicide bomber» (Hugh Gusterson)
«i kamikaze sono gli uomini della morte certa, i piloti di droni sono gli uomini della morte impossibile» (Grégoire Chamayou)
In questo scritto verranno presi in esame i saggi di Barbara Grespi e Maurizio Guerri relativi rispettivamente al controllo del corpo nei conflitti contemporanei e al confronto tra il ricorso ai droni occidentale e ai kamikaze da parte mediorientale nelle guerre recenti, pubblicati sul volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) [su Carmilla].
Barbara Grespi, nel saggio “Il controllo dei corpi nel quadro dei conflitti contemporanei”, si sofferma sulla rilevanza etica, ideologica e culturale del rapporto tra corpo e guerre e sul suo trattamento iconico nella contemporaneità. La studiosa mette in luce come nei conflitti contemporanei sembrano confrontarsi una politica occidentale tendente alla rimozione del corpo e una politica mediorientale votata invece alla sua esposizione. Se da un lato i bombardamenti occidentali effettuati con i droni determinano una «fantasmatizzazione del pilota, che attacca da un altrove radicale» e una «cancellazione del corpo del nemico bombardato, ridotto a puro disturbo visivo a malapena registrato dalle riprese a bassa definizione» (p. 343), dall’altro il nemico mediorientale sembra fare del corpo del combattente il centro delle proprie tattiche di guerra soprattutto attraverso il corpo-bomba del kamikaze e la decapitazione di alcuni prigionieri da parte dell’Isis. A tal proposito, la documentazione filmata e diffusa in internet «costituisce non soltanto la cruda esibizione del corpo del nemico ucciso, ma anche l’autorappresentazione di un Sé radicalmente altro, che alla “civile” soppressione dell’avversario, senza contatto fisico e di conseguenza senza una netta auto-percezione della propria responsabilità, contrappone la presa in carico dell’atavico gesto del boia. Con questa politica, il terrorismo sfida costantemente l’Occidente nella sua evidente difficoltà di gestire il corpo dell’Altro, di percepirlo, comprenderlo e accettarlo; la riemersione di una cultura pseudoscientifica del controllo dei corpi, che affonda le proprie radici nella criminologia tardo-ottocentesca, è forse la più interessante spia di questa impasse, nonché del grande bisogno, soprattutto statunitense, di circoscrivere la differenza culturale all’interno del proprio sistema di pensiero» (p. 344).
Grespi pone l’accento su come la minaccia di subire un attacco da parte dei kamikaze determini in Occidente l’ossessione del riconoscimento preventivo mentre, inversamente, per gli attentatori suicidi il problema diviene quello di non farsi individuare. Di fronte al rischio di attentati l’obiettivo dei servizi di sicurezza occidentali è pertanto quello di riconoscere preventivamente e a tal proposito nel 2007 il Dipartimento di Sicurezza Interna degli Stati Uniti ha dato il via al “Project Hostile Intent” al fine di formare agenti per migliorare le loro «capacità di interpretare i corpi, rilevando tutti quegli elementi comportamentali, gestuali e vocali che rendono un viaggiatore sospetto e meritevole di ulteriori, più aggressive indagini antiterroristiche» (p. 345). Alle tecniche di osservazione sul campo si sono aggiunti sofisticati sussidi tecnologici denominati “Future Attribute Screening Technology” con lo scopo di monitorare la temperatura basale, il movimento oculare e il battito cardiaco. I dati raccolti da tali tecnologie vengono poi trasmessi agli agenti della “Transportation Security Administration”, sottosezione dei “Behaviour Detection Officers”: «a loro spetta l’incarico di osservare i passeggeri, inquadrandone il comportamento e producendo un calcolo del “coefficiente di pericolosità” di ogni individuo, ovvero della probabilità che egli nutra intenzioni criminose» (p. 346). Tale coefficiente si basa sostanzialmente sul riconoscimento delle emozioni secondo un modello proposto dallo psicologo statunitense Paul Ekman, l’ideatore del “Facial Action Coding System”, consistente in una misurazione obiettiva dei micromovimenti facciali che dovrebbe poi essere convertita in un codice informatico destinato alla produzione di “tecnologie sensibili alle emozioni”. Al momento il supporto informatico si limita alla rilevazione delle espressioni involontarie del volto, mentre è all’abilità umana degli agenti che spetta il compito di interpretare tali espressioni riconoscendo i segni di stress corrispondenti alla paura di essere scoperti, i sintomi della menzogna ecc.
Nei tentativi di prevenire i crimini e di riconoscere i segni del volto che rivelano affermazioni menzognere è facile intravedere rispettivamente le ossessioni che abitano Minority Report – il film di Steven Spielberg, liberamente tratto dall’omonimo racconto di Philip K. Dick, è uscito nel 2002 in pieno “clima 11 settembre” –, e quelle caratterizzanti la popolare serie televisiva Lie to Me (Fox 2009-2011), che non a caso vanta la supervisione scientifica dello stesso Ekman. Per certi versi la serie tv sembra rispondere alle critiche mosse all’applicazione del metodo dello psicologo statunitense negli aeroporti, con un opera di divulgazione del suo metodo di lettura del volto – in cui si mescolano semiotica, fisiognomica, neurologia e scienza naturale delle passioni –, ricorrendo ad un’operazione di mitizzazione e certificazione attuata attraverso la fiction e un testimonial-divo (Tim Roth).
In realtà gli agenti addetti al riconoscimento dei potenziali terroristi più che all’analisi accurata del volto fanno riferimento agli aspetti gestuali degli individui: sintomi fisici, formule emotive, sottocodici simbolici, marcature somatiche (!) ecc. Risulta comunque difficile pensare che a una frontiera tutti questi aspetti del fenomeno gestuale possano essere valutati congiuntamente e in tempi stretti ai fini dell’individuazione di un possibile terrorista; «è evidente che fra la rilevazione di un eccessivo stress sospetto e l’interpretazione univoca di formule emotive, soprattutto fra una cultura e l’altra, il passo è lungo» (p. 350).
Sull’onda del convincimento che il corpo non mente mai e che sia pertanto possibile individuare un potenziale terrorista dalla sua gestualità, si sono diffuse sul mercato editoriale americano deliranti pubblicazioni di psicologia spicciola come Body Language of Terrorists (2015), testo scritto da «un’esperta di comunicazione e body language – consulente forense, trainer di personaggi pubblici e attori, nonché autrice di bestseller internazionali, quali Te lo leggo nel pensiero o Come eliminare i rompiballe e vivere felici – e un ex agente dell’Fbi» (p. 352). Tale libro presenta una catalogazione empirica della gestualità del terrorista che, seppur priva di qualsiasi base scientifica, merita di essere considerata per la sua sintomaticità socio-culturale. «Infatti, la spiccata finalità pratica del volume – che si offre al comune cittadino come un manuale salvavita che può aiutarlo a presagire la minaccia terroristica, e come un promemoria dei suoi doveri civili – produce un pensiero totalmente governato dall’ansia dell’Alterità e capace di proiettare un’ombra oscura sulle attuali scienze e pratiche di controllo dei corpi» (pp. 351-352). Nel libro viene prospettata una delirante classificazione del terrorista in alcune varianti identitarie derivate dalla diversa combinazione delle sue principali emozioni: ansia, paura, arroganza, rabbia. Si propongono così classificazioni che tendono ad applicare, non di rado invertendone il significato, caratteristiche ritenute proprie alla cultura occidentale a culture diverse. Ad esempio, quando nel corpo dell’Altro vengono individuati gesti che nella cultura occidentale denoterebbero orgoglio ed eroismo, si invita a leggervi un’intenzione aggressiva.
«Nel contemporaneo sistema di controllo dei corpi, [la] dimensione immaginaria del gesto – associata a un’idea di corpo come medium che elabora immagini e le trasmette con un proprio linguaggio e una propria forma di memoria – viene totalmente rimossa. Nei luoghi di transito, infatti, ci si sforza di omologare la rilevazione del gesto alle altre misurazioni corporee effettuate. La stessa osservazione in video degli stili di comportamento, al di là del fatto che risponde alla filosofia bellica occidentale dell’operare a distanza, viene sperimentata come tecnica di oggettivazione attraverso la tecnologia: registrato da una videocamera, il gesto diventa più facilmente prova, assomiglia di più alle rilevazioni dei molti sensori che completano l’attività di sorveglianza degli agenti, e che proprio perché non contengono variabili “umane” sono considerati attendibili, “gender, culture and age-neutral”» (pp. 355-356).
I dati puramente fisiologici rilevati dai sensori (movimenti oculari, battito cardiaco ecc.) attribuiscono una misura matematica ai gesti denotanti ansia rilevati dagli agenti. Ci si basa pertanto, sottolinea Grespi, «su un’idea di corpo antica, che riesuma la fiducia nella sua trasparenza, nella sua capacità di riflettere all’esterno il proprio interno, manifestando in superficie i segni di ciò che nel profondo lo muove. Body Language of Terrorism traduce questo implicito in un assioma ricorrente: “the body doesn’t lie”, presentato come distillato di esperienza, ma in realtà frutto di un ben noto modello di pensiero, quello attraverso cui la fisiognomica si congiunge alla criminologia ottocentesca» (p. 356).
L’immaginario distopico di un film come Gattaca – La porta dell’universo (1997) di Andrew Niccol, ha ipotizzando un futuro votato alla crescente indexicalità, precisione e infedeltà iconica del dato identificativo. Nel film si prospetta una società futura che ricorre all’identificazione attraverso l’impronta delle dita su un sensore in grado di forare la pelle e analizzare il sangue controllando il Dna. Per superare i controlli che danno accesso a un’agenzia riservata a una élite genetica, il protagonista del film ricorre a campioni di sangue altrui facendo attenzione a rimuovere al contempo le proprie tracce biologiche senza preoccuparsi eccessivamente del diverso aspetto del volto, visto che per accertare l’identità in quella società non si presta più tanta attenzione all’immagine. Se lo scenario distopico prospettato dal film è in linea con lo sviluppo del sistema di identificazione indexicale affermatosi a fine Ottocento, la “guerra al terrore”, sostiene Guerri, sembra invece «far ritorno all’iconicità e all’affanno numerico. In particolare la mano che lascia tracce aniconiche ridiventa la mano che gesticola, che produce forme riconoscibili o che contiene indici metrici» (p. 360).
L’analisi della gestualità introdotta nella lotta al terrorismo mediorientale sembra prescindere totalmente dalle differenze culturali che in alcuni casi danno significati diversi ai medesimi gesti e, soprattutto, non tiene conto di come, a maggior ragione in una dimensione globalizzata come l’attuale, il significato da attribuire ai gesti muti costantemente attraverso processi di appropriazione e riappropriazione simbolica, così come non si cura del fatto che le violenze del controllo alterano, e non in maniera univoca, le modalità con gli individui reagiscono. Insomma, negli aeroporti americani si è in balia dell’arbitrio di guardie che, dopo un grottesco corso di formazione, si prodigano nell’arte dell’interpretazione del corpo dell’Altro applicando su di esso formule semplicistiche e stereotipate con pretese di scientificità.
Maurizio Guerri, nel saggio “Il drone e il kamikaze. Due immagini della guerra contemporanea”, analizza il drone occidentale e il suicida mediorientale come figure caratterizzanti i conflitti del nuovo millennio. «Il suicida compie la propria missione di morte e distruzione contro civili o militari – senza alcun obiettivo specifico se non quello di suscitare terrore – annientando se stesso mentre compie il proprio attacco con una violenza pari a quella che infligge ai propri nemici. Nella maggior parte dei casi i nemici sono obiettivi fortuiti e astratti, mentre concreto è il loro ferimento o la loro morte […] L’altra immagine è quella del drone, una macchina volante dotata di occhi elettronici per muoversi e per lanciare ordigni il cui volo è gestito da un uomo a distanza di sicurezza dalle operazioni; l’aeromobile opera sul cielo del territorio nemico con l’obiettivo di eliminare i propri targets una volta che essi siano stati localizzati attraverso diversi sistemi che si concretizzano in un’immagine sullo schermo» (p. 365).
Se l’immagine del gesto dell’attentatore suicida genera orrore tra gli occidentali, la conduzione della guerra attraverso i droni è percepita dagli stessi, almeno a livello diffuso, come una pratica decisamente più umana rispetto all’azione del kamikaze e alle pratiche di guerra tradizionali: il ricorso ai droni consente infatti di preservare vite sul fronte amico. Ben diversa è la percezione sul fronte opposto, tra le popolazioni civili mediorientali spesso colpite da quelli che vengono ipocritamente definiti dalla retorica occidentale “effetti collaterali” della guerra a distanza.
Nell’opinione pubblica occidentale si è fatta strada una logica che schematizza così lo scontro in atto: «da un lato la radice [della violenza mediorientale] sarebbe da ricondurre all’adesione dei terroristi a versioni “radicali” dell’Islam, dall’altra parte i paesi occidentali con tutta la loro eredità in termini di libertà, laicità, illuminismo conducono le loro guerre in modo violento, per lo più all’interno delle convenzioni del diritto internazionale e in nome della democrazia» (p. 366). Insomma, si sarebbe di fronte ad uno “scontro di civiltà” tra il sistema democratico capitalista, con il suo modo “civile” di condurre la guerra, e il mondo islamico-terrorista, con le sue modalità barbare e crudeli di partecipazione al conflitto. Secondo Guerri, in realtà, non si è affatto in presenza di uno “scontro di civiltà”, quanto piuttosto a due diversi modi condurre la guerra, probabilmente si tratta di «due pieghe dello stesso tipo di conduzione del conflitto […] all’interno del pianeta globalizzato che è dominato e unificato da un sistema economico capitalistico» (p. 367). Il drone e il kamikaze non rappresenterebbero tanto i simboli di due differenti civiltà che si scontrano, quanto piuttosto «due figure in cui si condensano due modi del conflitto all’interno dello stesso sistema economico che mettono in discussione l’idea stessa di guerra così come è stata condotta dalle origini fino alla fine della Guerra fredda» (p. 367).
Al fine di ricostruire un passaggio della genealogia delle figure del kamikaze e del drone, lo studioso riprende alcune riflessioni degli anni Trenta di Ernst Jünger (Sul dolore, 1934) e di Walter Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936) in cui queste due tipologie sono state prese in considerazione.
Nel suo scritto Jünger prende spunto dalla notizia di un siluro messo a punto dalla marina militare giapponese guidato da un essere umano che alloggia su di esso all’interno di una piccola cabina: un pilota al contempo “arto tecnico” e “vera intelligenza del proiettile”. Una “costruzione organica” in cui l’essere umano rappresenta se stesso e utilizza il suo corpo come parte integrante «del sistema tecnico-lavorativo di cui anche la guerra è divenuta parte» (p. 369). Jünger osserva anche che la civiltà occidentale dall’Ottocento in avanti è dominata «dall’impulso a rimuovere il rapporto diretto del soggetto con la vita, come perdita di esperienza, come volontà di “rimuovere il dolore e di separarlo dalla vita”. I diversi settori della scienza e della tecnica possono essere concepiti nel loro complesso come dominati da una tendenza a stabilire la rimozione del dolore e a impiantare una condizione di “comfort” in ogni ambito della vita» (p. 369).
Con la riduzione della vita a mera funzione del sistema economico-lavorativo, l’esistenza dell’essere umano si inserirebbe «all’interno del sistema del lavoro, fino a diventare – come nell’esempio citato del proiettile umano – un “arto” dello strumento o la sua “intelligenza”» (p. 371). Secondo Jünger l’uomo proiettile rappresenta «una figura in cui si esprime il massimo sacrificio dell’uomo contemporaneo nel porsi al servizio del sistema tecnolavorativo» (p. 371). Guerri sottolinea come in Jünger l’uomo proiettile venga visto come figura pienamente in linea con la logica novecentesca che impone all’individuo di sacrificarsi al sistema tecnolo-lavorativo. «La figura di colui che sacrifica la propria vita in una operazione bellica appartiene alla fenomenologia della conduzione dello scontro violento nell’epoca del dispiegamento del lavoro su scala planetaria e in esso possiamo leggere il tipo di rapporto che il sistema del lavoro istituisce con il singolo» (pp. 372-373).
Se da un lato nel proiettile umano Jünger individua «il massimo assorbimento possibile dell’uomo nel sistema della tecnica», dall’altro, però, nella figura di chi è pronto ad un sacrificio tanto estremo individua anche una possibile nuova forma di libertà e ciò risulta meglio comprensibile prendendo in considerazione le sue riflessioni a proposito di un romanzo di Joseph Conrad – probabilmente Agente segreto (1907) –, ove individua nell’anarchico russo di cui si narra la figura dialettica e complementare a quella dell’uomo proiettile giapponese. Il rivoluzionario del romanzo di Conrad, nel portare al seguito una bomba al fine di tenersi pronto a farsi esplodere nel caso di arresto, porta per certi versi agli estremi l’idea di libertà individuale. «Le immagini dell’uomo-proiettile e dell’anarchico russo sono figure sovrapponibili e allo stesso tempo in tensione dialettica. Da un lato l’uomo-proiettile si caratterizza per un sacrificio definitivo al sistema della tecnica e del lavoro, che si traduce in un totale assorbimento al suo interno, fino all’essere sacrificabile per scopi militari; dall’altro l’anarchico russo sembra invece il rovesciamento dell’uomo-proiettile: nella misura in cui l’oggettivazione conduce a una estraneazione da sé, a una capacità del soggetto di guardare alla propria esistenza corporea come a un “avamposto” in grado di condurre alla conquista di qualcosa di più alto, l’anarchico russo appare come una figura allegorica della rivolta e della libertà nella tecnica» (p. 374).
All’estremo sacrificio al sistema tecnico-lavorativo del pilota giapponese si contrappone il sacrificio per la libertà dell’esistenza dell’individuo dell’anarchico russo. «Il kamikaze con il suo sacrificio costituisce l’inserimento totale del singolo al sistema lavorativo declinato sul piano bellico, l’anarchico russo è colui che si sacrifica in nome della irriducibilità della propria singolarità al piano tecnolavorativo planetario […] Nella forma del kamikaze o dell’anarchico Jünger afferma che la dimensione del sacrificio massimo dell’individuo sia essenziale per comprendere la relazione dell’uomo contemporaneo con il sistema planetario in cui è situato» (p. 375).
Ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica notoriamente Benjamin sostiene che tutte le tecniche umane, compresa l’arte della guerra, «sono dominate da una tensione dialettica i cui poli sono individuabili nel “sacrificio” (“prima tecnica”, aura, cultualità) e nel “gioco” (“seconda tecnica”, riproducibilità, esponibilità). L’attività su cui si fonda la “prima tecnica” è il sacrificio umano sia in senso religioso […], sia in senso tecnico- artistico […], o su un piano bellico come virtù del sacrificio eroico in battaglia. Al polo opposto di questa tensione dialettica, Benjamin pone la “seconda tecnica”, quell’elemento che in ogni attività tecnico-artistica non ha nulla a che fare con il lavoro, anzi la emancipa da esso» (pp. 376-377). Il filosofo tedesco, dopo aver letto negli anni Trenta di esperimenti inglesi volti a realizzare aerei comandati a distanza da utilizzare come obiettivi durante le esercitazioni, pensa all’immagine degli aerei teleguidabili in grado di fare a meno dell’equipaggio come ad un’allegoria di un’esperienza ludica (seconda tecnica) contrapposta al sacrificio produttivo-lavorativo (prima tecnica). Sostenendo che le due tecniche, seppure in misura variabile, sono ravvisabili in ogni attività umana, è nei “nuovi media” dell’epoca che Benjamin individua la possibilità di ampliare la sfera d’azione della seconda: così come «gli aerei teleguidabili alludono alla possibilità di movimento e di osservazione libera dal sacrificio del lavoro alla scoperta di un “inconscio spaziale”, così la fotografia e il cinema alludono a un ambito estetico in cui il sacrificio e il lavoro abbiano ceduto spazio al gioco, intraprendendo un viaggio nell’“inconscio ottico”» (p. 378). Nel filosofo lo sguardo fotocinematografico diventa così «allegoria di un mondo che l’uomo ha la possibilità di costruire in base alla propria capacità estetico-immaginativa, libera per la prima volta dal riferimento passivo a un essere o a un ordine di valori che preesiste rispetto all’attività dell’uomo stesso». (p. 382). Chiaramente, è bene ricordarlo, in Benjamin affinché si possa dispiegare la dimensione emancipativa della seconda tecnica occorre passare attraverso un processo rivoluzionario che metta fine alla schiavitù del lavoro.
L’uomo-proiettile a cui fa riferimento Jünger e l’immagine dell’aereo senza pilota di cui parla Benjamin, secondo Guerri, indicano ancora oggi «i limiti dello spazio al contempo estetico e politico in cui ci muoviamo» (p. 388). Drone e kamikaze sembrano allora davvero immagini speculari del modo di condurre la guerra ai nostri giorni. «Il drone è l’arma massimamente “auratica” in quanto colui che conduce l’attacco è assente dal luogo in cui l’attacco stesso è condotto. […] Viceversa il kamikaze è la concretizzazione dell’identità tra corpo e arma, l’inclusione dell’arma nel corpo che esclude la salvezza di colui che conduce un attacco» (p. 388). Sviluppando i ragionamenti di Jünger e di Benjamin, le figure del drone e del kamikaze che conosciamo ai giorni nostri appaiono come le due facce della medesima logica del sacrificio interna ai conflitti che si danno in un mondo dominato dal capitalismo. «Il kamikaze si sacrifica attingendo a una disciplina che viene posta al servizio della tecnica distruttiva delle armi contemporanee, finendo per dissolversi con l’ordigno che porta con sé. Nel caso del drone, invece, siamo in presenza del sacrificio che è tutto spostato sugli obiettivi nemici attraverso la messa a distanza tecnica dello Uav [Unmanned aerial vehicle]. L’etica dell’autosacrificio e quella dell’autopreservazione appaiono così come le modalità attraverso cui si dispiega una violenza bellica che si svolge da un lato con gli attentati suicidi, dall’altro con gli attentati fantasma» (p. 389).
Serie “Guerrevisioni“