di Alberto Molinari
Riccardo Brizzi – Nicola Sbetti, Storia della Coppa del mondo di calcio (1930-2018). Politica, sport, globalizzazione , Le Monnier, Firenze, 2018, pp. 261, € 16,00
In questo volume Riccardo Brizzi e Nicola Sbetti – rispettivamente docente e ricercatore di Storia contemporanea presso l’Università di Bologna – ricostruiscono la storia della Coppa del mondo di calcio usando la chiave interpretativa della storia politica e restituendo un quadro complessivo delle dinamiche che hanno caratterizzato la competizione lungo il Novecento e nel primo scorcio degli anni Duemila. Attraverso una narrazione appassionante, basata su una molteplicità di fonti e su una ricca bibliografia che comprende testi italiani e stranieri, gli autori coniugano in modo efficace una serie di puntali annotazioni di carattere tecnico-sportivo e una rigorosa analisi dei risvolti politici, economici e sociali dei Mondiali, in una prospettiva attenta tanto alle dimensioni nazionali quanto alle relazioni internazionali e ai processi di globalizzazione che coinvolgono lo sport. Il saggio rappresenta quindi un importante contributo agli studi storici dello sport che, come notano Brizzi e Sbetti nell’introduzione al volume, possono contare anche in Italia su una ormai consolidata letteratura all’interno della quale però, a differenza di ciò che accade in altri Paesi, «le ricerche sul pallone non rispecchiano il predominio che questa disciplina ha sulle altre» (p. 1).
Dopo un capitolo dedicato alle origini dei Mondiali, gli autori ripercorrono le diverse edizioni della Coppa del mondo proponendo una periodizzazione articolata in base a quattro presidenze della Fédération Internationale de Football Association (FIFA) – quelle di Jules Rimet, Stanley Rous, João Havelange, Joseph Blatter – e incentrata su alcune tematiche come la progressiva politicizzazione dell’evento sportivo, l’ampliamento degli orizzonti geopolitici del calcio, le trasformazioni degli equilibri politico-sportivi internazionali, la crescente commercializzazione delle competizioni mondiali e la loro dipendenza dalle logiche legate ai media e allo sviluppo del marketing, senza trascurare le dinamiche proprie di ciascun torneo e le loro ricadute sulle vicende delle compagini nazionali e della politica interna dei rispettivi paesi.
La prima edizione dei Mondiali si tiene nel 1930 in Uruguay – il paese che può vantare la vittoria nei tornei olimpici del 1924 e del 1928 – e coincide con il centenario dell’indipendenza della nazione sudamericana. La competizione si svolge nel clima di «una mobilitazione totale» che coinvolge, «oltre alle istituzioni sportive e politiche», «i settori della comunicazione, della cultura e dell’economia, sia pubblici che privati» (p. 29). Nel corso del torneo – vinto dalla squadra di casa in una finale con l’Argentina caratterizzata da un’accesa rivalità nazionalistica – emergono chiaramente, come «elementi fondamentali per un’organizzazione di successo», «il sostegno dello Stato, la passione popolare, la monumentalità architettonica e la simbologia nazional-sportiva» (p. 33). D’altra parte, a partire dagli anni Venti è cresciuta nei governi la consapevolezza che il calcio, come lo sport in generale, può assumere una rilevante valenza politica tanto in termini di prestigio e di rafforzamento dell’identità nazionale quanto sul piano delle relazioni internazionali.
Per la successiva edizione del 1934, la FIFA sceglie come sede dei Mondiali l’Italia, un Paese che può contare su un interesse popolare per il calcio e su una nazionale emergente, guidata dall’esperto Vittorio Pozzo e arricchita da talenti sudamericani naturalizzati. Come è noto, per il fascismo, che considera lo sport parte integrante del progetto totalitario, i mondiali rappresentano un’occasione da sfruttare pienamente per ragioni di prestigio e in funzione propagandistica e di ricerca del consenso. La vittoria della nazionale – salutata da festeggiamenti nelle piazze delle città e dei borghi italiani – viene presentata dalla stampa «al contempo come un trionfo personale del Duce e di una nazione coesa dietro la propria guida» (p. 46).
Nell’edizione del 1934 si registrano un crescente coinvolgimento dei media (stampa e radiofonia, con le celebri radiocronache di Nicolò Carosio), un aumento del fenomeno del turismo sportivo (con migliaia di tifosi che provengono dall’Austria, dalla Francia, dall’Olanda), un successo della competizione anche dal punto di vista economico.
Quattro anni dopo la nuova vittoria dell’Italia nei Mondiali di Francia viene celebrata dal regime, «alla vigilia del Manifesto della razza», «come lampante manifestazione di superiorità etnica degli italiani» (p. 53). Nell’arena dello sport emergono però anche i sentimenti avversi al fascismo del pubblico francese che, sostenuto da alcune migliaia di fuoriusciti antifascisti, contesta la nazionale di Pozzo durante la partita d’esordio a Marsiglia.
All’altezza dello scoppio della guerra, che costringe alla sospensione della Coppa, sotto la guida di Rimet – «il presidente dell’“età dei pionieri”» – «il Mondiale si è consolidato sul piano sportivo e finanziario. Anche se il torneo in Uruguay è poco più di un campionato americano e quelli del 1934 e del 1938 sono poco più di un torneo europeo è proprio in questa fase che vengono messe le basi della futura espansione e che il suo significato politico viene riconosciuto» (p. 6). La «retorica apolitica» della FIFA fondata sulla concezione dello sport come realtà “separata” e “neutrale”, si rivela utile «a mantenere un buon grado di coesione e solidarietà interna fra i suoi membri» ma non può evitare che il calcio internazionale e i Mondiali vengano «visti e usati anche come un’arena politica». (p. 41)
Nelle prime competizioni internazionali del dopoguerra – segnate dal clima della guerra fredda, quando la “cortina di ferro” diviene «una barriera concreta, anche se non insormontabile per gli scambi sportivi» (p. 63) – alcune vittorie e sconfitte assumono un valore simbolico che trascende l’ambito sportivo.
Nell’edizione mondiale del 1950 in Brasile la sconfitta della squadra di casa, battuta in finale dall’Uruguay, viene vissuta come una tragedia nazionale; per questa partita, giocata al Maracanã di fronte a 200.000 spettatori, nel mondo brasiliano verranno evocate immagini catastrofiche, come “la nostra Hiroshima”.
Qualche mese prima dei Mondiali svizzeri del 1954, l’Ungheria batte per 6 a 3 l’Inghilterra; l’incontro, passato alla storia come “the match of the century”, rappresenta «una sorta di ”Suez calcistica”» che simbolicamente «anticipa di tre anni la piena presa di coscienza da parte della diplomazia di Londra della fine del suo ruolo di potenza mondiale» (p. 73). I successi dell’Ungheria, dominatrice del calcio mondiale nella prima metà degli anni Cinquanta, assumono a loro volta un significato politico, in quanto appaiono «come il prodotto della riorganizzazione dello sport nei Paesi dell’Europa Orientale» e sono funzionali «a mettere in risalto la superiorità del nuovo sistema sociopolitico» e del blocco comunista in competizione con i Paesi capitalistici (p. 74). Per la Germania Ovest invece il trionfo calcistico nella Coppa del mondo disputata in Svizzera, «sopraggiunto a pochi mesi di distanza dalle prime elezioni libere dell’autunno 1953 e quasi anticipando la resurrezione economica e sociale», finisce per diventare «uno dei miti fondativi della RFT e dell’attuale Germania» (pp. 76-77).
L’edizione del 1958 in Svezia è dominata dal Brasile di Pelè, Garrincha, Vavà e Didi, grazie allo straordinario talento dei singoli e alle innovazioni tecnico-tattiche introdotte dall’allenatore Vincente Feola. La vittoria brasiliana contribuisce alla «nascita del mito globale della nazionale brasiliana» e «a cambiare radicalmente l’immaginario occidentale nei confronti dei neri e dei meticci» (pp. 83-85).
I Mondiali di Pelè coincidono con gli anni della decolonizzazione. Consapevoli dell’importanza dello sport nei processi di costruzione della nazione, la leadership dei paesi in lotta per l’indipendenza cerca «di trarre un vantaggio identitario […] dalla passione per il calcio» (p. 88) e spesso organizza tornei nell’ambito delle celebrazioni per la fine del dominio coloniale.
Le aspirazioni dei paesi del Terzo mondo che cercano di emergere in campo calcistico si scontrano con la linea della FIFA, incarnata dal britannico Stanley Rous, entrato in carica nel 1961. Rous è «il presidente della “stabilizzazione intorno alla diarchia Europa-Sudamerica»: «la sua presidenza permette alla FIFA di rafforzarsi nel quadro però di un rigido eurocentrismo, che di fatto esclude il cosiddetto “Terzo Mondo”» (p. 6); anche se la decolonizzazione favorisce l’ingresso di nuove federazioni, la FIFA resta «un’istituzione controllata da dirigenti uomini, bianchi e in larga maggioranza europei» (p. 92).
Dopo i mondiali del 1962 in Cile che confermano il predominio brasiliano nel calcio internazionale, e quelli di Londra nel 1966 che rappresentano il riscatto della squadra inglese, la presidenza Rous si chiude nel 1970 con i Mondiali di Messico ’70. A due anni di distanza dalla strage di Piazza delle Tre Culture, il governo messicano cerca di dare l’immagine di un paese pacificato ed efficiente, sfruttando anche una tecnologia televisiva d’avanguardia, già sperimentata in occasione delle Olimpiadi del ’68, che consente di trasmettere dal vivo immagini satellitari a colori.
Il Brasile batte in finale la nazionale “azzurra”, reduce dalla vittoria negli Europei del 1968 che aveva in parte ricucito nell’immaginario collettivo la ferita della sconfitta con la Corea del nord nel Mondiale inglese. Ma nella memoria italiana sportiva – e non solo – rimane impressa la rocambolesca vittoria in semifinale sulla Germania per 4 a 3 che scatena un’inattesa esplosione di nazionalismo sportivo.
Nel 1974 l’elezione del brasiliano João Havelange alla presidenza della FIFA rappresenta «uno spartiacque e l’avvio di una terza fase “commerciale-televisiva”». Gli equilibri politico-calcistici internazionali si modificano in senso antieuropeo, aumentano le squadre che partecipano alla fase finale e si assiste a un «esplicito sfruttamento commerciale dei Mondiali» (p. 6): la presidenza di Havelange «paradossalmente» si fa «allo stesso tempo portatrice degli interessi politici e culturali delle nazioni “terzomondiste” e di quelli economici delle multinazionali commerciali, ancorati nel cuore dell’Occidente capitalistico» (p. 114).
Dopo i mondiali del 1974 nella Repubblica Federale Tedesca – vinti dalla Germania Ovest nella finale contro l’Olanda di Rinus Michels e Johan Cruyijff, la squadra rivelazione del torneo con il suo “calcio totale” – l’edizione del 1978 si svolge nell’Argentina della Giunta militare guidata dal generale Videla. Ancora una volta per una dittatura il Mondiale costituisce un’eccezionale occasione per alimentare sentimenti nazionalistici e trasmettere all’interno e a livello internazionale l’immagine di un paese unito e normalizzato, nel quale regnano efficienza e ordine. La conquista del titolo da parte dell’Argentina – anche grazie a favoritismi e partite “sospette” – chiude “il mondiale della vergogna”: quello dei governi che per interessi politici ed economici hanno avvallato una competizione organizzata da un regime spietato, dei giornalisti compiacenti verso i militari, del silenzio del mondo dello sport sui desaparecidos. Fuori da questa “pagina nera” dello sport sono rimasti i giornalisti che non hanno abdicato al ruolo civile dell’informazione e i pochi gruppi che si sono generosamente battuti cercando di boicottare la manifestazione e di rompere la separatezza tra sport e politica.
Quattro anni dopo i Mondiali sono ospitati dalla Spagna della transizione democratica post-franchista e consentono «di mostrare a livello planetario il volto di un Paese finalmente affidabile, organizzato e dinamico» (p. 131). Per l’Italia, l’immagine-simbolo è quella dell’ottantacinquenne presidente della Repubblica Sandro Pertini, «protagonista di un’esultanza incontenibile in tribuna, mentre un’intera nazione si rivers[a] con le bandiere tricolori nelle strade e nelle piazze italiane per festeggiare, a 44 anni di distanza dall’ultimo trionfo mondiale, una nuova vittoria» (p. 137).
La Coppa del mondo messicana del 1986 vede il “trionfo planetario” di Diego Maradona che guida alla conquista del titolo l’Argentina nell’era dei Mondiali televisivi; quella di Italia ’90, vinta dalla Germania Ovest, è segnata dal business e dalle sue storture, nel tramonto della Prima Repubblica; in linea con l’obbiettivo della FIFA di sostenere la diffusione del calcio anche laddove è una disciplina poco popolare, nel 1994 il Mondiale sbarca negli Stati Uniti e termina con la vittoria del Brasile che si aggiudica per la quarta volta il titolo battendo l’Italia ai rigori nella finale.
Nel 1998, con l’uscita di scena di Havelange, la guida della FIFA è affidata ad un suo delfino, lo svizzero Joseph Blatter, «il presidente dell’età della “globalizzazione” della Coppa» (p. 6). Blatter prosegue nel solco del suo predecessore, innalzando ulteriormente il Mondiale «a megaevento planetario, fatto di introiti in crescita esponenziale, di visibilità mediatica globale» (p. 6), con un’estensione delle sedi del torneo a tutti i continenti, esclusa l’Oceania. D’altra parte, «il successo planetario dell’evento organizzato dalla FIFA ha un lato oscuro fatto di interessi poco nobili e corruzione che paradossalmente però hanno contribuito, al pari dei media e degli sponsor, all’affermazione del calcio come fenomeno globale» (pp. 6-7).
Nell’era di Blatter i mondiali francesi del 1998, con la vittoria della squadra locale, mostrano l’immagine, fragile e ben presto incrinata, «di una Francia multietnica e pacificata e di comunità riconciliate attorno a un trionfo mondiale», mentre quattro anni dopo la prima edizione asiatica che si svolge tra Corea del Sud e Giappone «pone fine a una lunga competizione tra Seul e Tokyo, alimentata dall’antagonismo secolare tra i due Paesi» (p. 180).
Dopo l’edizione tedesca del 2006 – vinta dagli “azzurri” – che trasformano i Mondiali in «un autentico business planetario» (p. 192), la Coppa del 2010 si tiene nel Sudafrica di Nelson Mandela, suscitando grandi speranze di sviluppo per il Paese e per l’intero continente africano e premiando sul piano sportivo squadre come la Spagna, vincitrice del torneo, l’Olanda e la Germania capaci di rinnovarsi e di mettere a frutto gli investimenti fatti nei settori giovanili.
La stagione dei Mondiali sotto la presidenza Blatter si chiude nel 2014 in Brasile, in un’edizione vinta dalla giovane e multietnica nazionale tedesca nella finale contro l’Argentina, dopo avere eliminato in semifinale il Brasile con un clamoroso 7 a 1 che fa nuovamente «sprofondare in crisi un’intera nazione» (p. 211).
Padrone del calcio mondiale per diciassette anni, Blatter è costretto a dimettersi nel 2016, travolto dagli scandali e dalle accuse di corruzione.
Il nuovo presidente della FIFA, l’avvocato italo-svizzero Gianni Infantino, avvia «una rottura tranquilla con l’ingombrante eredità del suo predecessore» (p. 197): da un lato Infantino mantiene l’approccio imprenditoriale inaugurato da Havelange e accelerato da Blatter, dall’altro promuove alcuni cambiamenti di carattere organizzativo e sportivo, come lo spostamento degli equilibri geopolitici dall’asse africano-asiatico-caraibico verso un rinnovato protagonismo dell’Europa e l’ampliamento del numero delle squadre partecipanti da 23 a 48, una formula che offre alle nuove nazioni coinvolte maggiori possibilità di partecipare alla fase finale della Coppa e nel contempo favorisce gli interessi economici della FIFA. Come scrivono gli autori, la presidenza di Infantino «sembra così aprire una fase ulteriore di quel processo di globalizzazione del calcio già ampiamente promosso dai suoi predecessori» (p. 199).
Sul piano politico-sportivo, i nuovi vertici della FIFA devono misurarsi anche con un’eredità di Blatter: l’assegnazione, avvenuta nel 2010, delle edizioni dei mondiali 2018 in Russia e di quelli del 2022 in Qatar, due designazioni in parte condizionate da «voti di scambio, accordi sottobanco e corruttele» (p. 215).
Nonostante le polemiche e i sospetti sollevati dalla stampa, in particolare anglosassone, queste decisioni vengono accolte favorevolmente negli ambienti della FIFA dove è cresciuta la convinzione che i regimi autoritari siano «più efficienti nell’organizzazione di mega-events» (p. 215). La scelta dei due paesi dipende inoltre, in buona misura, dagli interessi economici in gioco: «se la Russia e il Qatar sono riusciti ad ottenere i Mondiali di calcio, è anche e soprattutto perché entrambi i Paesi, attraverso grandi compagnie filo-governative come Gazprom o fondi sovrani come la Qatar Investment Authority, avevano realizzato importanti investimenti economici nel mondo del calcio» (p. 216).
Ancora una volta, per i paesi organizzatori la Coppa del mondo di calcio si presta ad essere sfruttata in termini economici e politici. Nelle ultime pagine del volume, uscito pochi mesi prima dei Mondiali russi, gli autori riassumono così la strategia politico-sportiva del Cremlino che include la competizione calcistica da poco conclusa, un prezioso tassello risultato sostanzialmente funzionale al regime di Putin: «Mosca ha fortemente voluto i Mondiali del 2018, poiché rientravano in una più ampia strategia in cui lo sport era usato dal Cremlino per rispondere a tre esigenze primarie: rafforzare l’immagine internazionale della Russia, definir le priorità dello sviluppo regionale e infine mantenere il sostegno sia delle élite politico-economiche – in particolare dei cosiddetti oligarchi – sia delle masse» (p. 216).
Sul futuro della competizione rimangono aperti diversi interrogativi che rimandano anzitutto alla polarità e al nesso nazionale/globale. Se, da un lato, il torneo mondiale rimane fondato sull’idea di rappresentanza nazionale e continua a suscitare pulsioni e sentimenti identitari, dall’altro la dimensione del calcio, sempre più globalizzata sul piano sportivo e politico-economico, si configura come una complessa rete di interessi e poteri che travalicano i confini degli Stati-nazione.
Rispetto a chi preconizza la marginalizzazione delle nazionali e il declino dei Mondiali in un calcio dominato dallo strapotere economico e mediatico dei grandi club, Brizzi e Sbetti chiudono il loro saggio sottolineando il perdurante successo della competizione, collocato «lungo un sottile confine»: «All’interno di un mondo e di un calcio sempre più globalizzati la Coppa del mondo è non solo sopravvissuta ma ha consolidato la propria statura di megaevento internazionale, tanto sul piano sportivo che su quello economico. Il suo successo si colloca lungo un confine sottile: la competizione ha sposato e per alcuni versi promosso le logiche della globalizzazione, ma ha al contempo usufruito della riattivazione delle identità locali che si è amplificata all’alba degli anni Duemila e di cui le squadre nazionali simbolicamente restano una delle ultime vestigia, contribuendo a fare della Coppa del mondo di calcio la madre di tutte le competizioni sportive di squadra» (p. 220).