di Iuri Lombardi
Particolare è sicuramente l’esordio poetico di Paolo Lago con la raccolta I pirati del sud (Camponotto editore, 2018), che l’autore livornese presenta al pubblico italiano e per la prima volta come poeta. Paolo Lago già noto studioso di letteratura e saggista di notevole fattura, questa volta esordisce come poeta con una raccolta apparentemente semplice – vale a dire non complicata dal punto di vista stilistico o metrico – e che ci introduce, forse pur senza volerlo, nella dimensione dell’eterotopia come ci ha abituati nei suoi lavori monografici e storiografici. Una dimensione che tracima da ogni verso e ci trasporta su di un piano onirico e che, come ho avuto modo di riferire in un’altra occasione, fa del poeta un autentico esploratore della storia e dello spazio.
Non è un caso che Paolo Lago sia toscano e la Toscana come sappiamo è il tempio della poesia moderna, ma pare essere, almeno per i lirici nati in questa terra, da Dante a Petrarca sino ai più recenti Campana, Caproni, Luzi, Bigongiari, un itinerario privato di misteriosi viaggi interiori. Lo è stato per il Dante della Commedia come per il Petrarca del Canzoniere, lo è stato per il Campana, nello specifico per quel lembo di Romagna toscana, lo sono state le terre di Navacchio e il pisano per Bigongiari, la Firenze in bianco e nero del Luzi degli anni quaranta; e adesso questa Toscana, come in altre occasioni, è l’oggetto del canto di Lago.
Tuttavia, quello che sto dicendo può sembrare un paradosso: la raccolta parla di un viaggio dei pirati verso i mari del sud e sino a prova contraria la Toscana sud non è, eppure ciò che affermo non deve essere letto tramite una lente geografica o storica, ma attraverso un paesaggio interiore che appartiene al poeta soltanto, e che non tiene conto né di bussole né di aspetti topografici e geografici. I mari del sud dove scorrazzano pirati, corsari, tagliaborse, marinai, bella gente o di malaffare per Paolo Lago sono i mari e le coste della sua Toscana, quella strisce azzurra e immensa che proprio davanti alla sua Livorno gli si spalanca. Il mare di Paolo è dunque il Ligure e poi il Tirreno; è quel mare che fa affiorare a distanza di poche miglia dalla città natale del poeta l’arcipelago: l’Elba, la Capraia, la Gorgona, il Giglio, Pianosa, tutte terre che hanno una propria storia sinistra fatta di pirati e di soprusi, di strani esili di imperatori, come nel caso di Napoleone, e di galeotti.
Livorno stessa, città particolare, ha nel suo passato un trascorso straordinario; sorta di recente, quasi come fanalino di coda della storia toscana, a seguito dell’insabbiamento del porto di Pisa, per essere popolata dopo l’edificazione furono portati là galeotti e prostitute, braccianti, pescatori, proletari d’ogni sorta. Livorno quindi è il velo squarciato, il disgelo dell’ipocrisia perbenista: la città del frutto proibito. E si sa; il frutto proibito simboleggia da sempre la mela di Eva: amo solo le rose che non colsi.
Livorno, il mar Ligure e poi il Tirreno (almeno secondo la Marina militare internazionale che segna il confine tra i due mari sulla linea di Portoferraio) sono dunque il mare del sud per il poeta, uno dei tanti mari lontani – secondo la sua immaginazione – pieno di tentazioni, avvolto in un mistero perpetuo, un crocevia di possibili avventure e amorose e picaresche. Il Ligure con le isole e la terraferma, con il proprio capoluogo dell’anima Livorno – che a me ricorda il luogo del dolore e della nostalgia di Caproni – è dunque il non stato dove il poeta, Paolo Lago, proietta non solo la propria fantasia ma ne sviluppa una topografia sua privata, interiore e che solo lui può visitare con discrezione. L’eterotopia del sogno, il non luogo, è quindi teatro dell’eversione nel concreto delle cose, di una ribellione senza mezze misure e che fa della dimensione della vita una eterna estate.
L’estate è infatti la stagione che il poeta più descrive in queste poesie, quasi a fare una similitudine con la giovinezza e gli affanni del corpo: gli ardori, la sofferenza malinconica della bellezza (anche fisica) contemplata; il segno mancato di un tempo che diventa altro e che non ha coordinate né di fatto né esistenziali. Quel mare e quei luoghi, questa geografia dell’inquietudine, questo paesaggio interiore risponde solo a leggi ontologiche e trasognate e a nessuna altra (per fortuna) giurisdizione.
La sezione centrale che dà il titolo alla raccolta ne è testimonianza di questo aspetto e non solo riguardo allo scippo del pomo proibito, ma in generale ad uno stato d’animo solo del poeta. Si viene quindi ad allestire in questo caso una teatrologia di eventi e di personaggi, di combinazione e sostituzione dei ruoli: un soqquadro piratesco. Il poeta, di fatto, diventa corsaro lui stesso; e poi sirena e canto, ma si scambia per osmosi anche per una costa – Assalonne! Assalonne! – la Toscana e per una città: Livorno. L’autore, l’io di queste poesie, il narratore dei pirati e delle acque è dunque l’assassino di se stesso; reduce da un delitto, avendo ucciso lui della routine del quotidiano: adesso è pronto per un lungo viaggio. Come Gulliver il viaggio di Paolo Lago gira attorno alle sue cose, ai suoi luoghi, ai posti della sua vita rivisitati e proiettati in un’altra dimensione.
Il pirata, infatti, non solo naviga trafugando oro dalle altre navi, non solo è affamato di bottino, non solo è un esteta; è soprattutto un trasformista di ruoli e quando il pirata diventa il poeta stesso ecco che Paolo non si accontenta del proprio sogno e va in cerca dell’onirico di altri poeti. Il caso vuole che la raccolta proponga, ad epilogo, alcune traduzioni eseguite dall’autore nel corso degli anni. Si tratta di valide traduzioni di Orazio, Catullo, Baudelaire, Rimbaud e anche questo non a caso.
Lago oramai diventato, nella dinamica circolare del suo libro, un pirata scippa traducendo i classici ma non tutti: dei grandi poeti sceglie coloro che in vita sono stati degli attentatori al sistema, dei ribelli dello stato di cose. Orazio, esempio della dottrina epicurea, Catullo, il cantore dell’amore fisico e materiale, Baudelaire il primo poeta del vizio e dell’ozio, Rimbaud il cantore della modernità per eccellenza. Ecco allora che il discorso torna: l’autore non adotta mezze misure e continua a navigare in caccia nel proprio mare. In quel mare che proprio di fronte a Livorno, attorno alla torre della Meloria, i genovesi e i pisani si sono combattuti sino all’ultimo sangue per le sorti e di quell’area geografica e di parte della Sardegna (ecco il sud!) suddivisa allora per metà sotto le circoscrizioni e liguri e toscane. Quel mare del sogno, della trasgressione è dunque un teatro epico ma anche ontico, dove il pirata si riconosce e si battezza nel nome non del signore- è avverso ad ogni tipo di autorità – ma nelle gesta di un sogno.
Il mare del sud non ha, almeno sembra non avere una eccezione funebre come in altri casi letterari; nell’occasione di Lago è puro sogno: l’inaugurazione della vita. Un sogno partorito in mare e nel segno di una Toscana magica e piena di misteri.