di Domenico Gallo
“Questo è un piccolo universo!”
(Samuel R. Delany, Triton)
“Le stelle sono indispensabili”
(Philip Roth, Ho sposato un comunista)
La fantascienza in Italia è stata per decenni rigettata dalla cultura ufficiale o emarginata all’interno degli studi dedicati alla cultura di massa, dove un approccio alla Umberto Eco, curioso più delle degenerazioni prodotte dall’accesso popolare al sistema dei nuovi media, era il massimo a cui si potesse aspirare. Invece oltre un secolo di storia, lotte sociali, idee e paradigmi scientifici si sono riflessi e deformati all’interno di un laboratorio diffuso che ha utilizzato la narrativa di fantascienza come strumento di elaborazione politica; o meglio, il diffondersi di una letteratura popolare che ha come fulcro creativo l’impatto delle scienze e della tecnica sull’organizzazione sociale, i meccanismi con cui il potere si diffonde e si riproduce attraverso tecnologie e organizzazione, hanno consentito il costituirsi di un laboratorio politico basato sull’estrapolazione letteraria del presente e sulla sua critica. Naturalmente non si è trattato dell’unico strumento critico a disposizione per cogliere il secolo breve, ma durante tutta la modernità la fantascienza si è affiancata, più o meno ambiguamente, alla critica e ai desideri di trasformazione delle società occidentali. Alla fine dell’Ottocento assistiamo a una complessa convergenza di linee culturali, politiche ed etiche che hanno in comune l’idea di determinare il futuro, ovvero di innescare nel presente una serie di trasformazioni destinate a cambiare radicalmente i rapporti di potere esistenti e a realizzare nuove forme sociali. Tra queste linee è certamente importante la tradizione dell’utopia, ma riletta attraverso la lente della consapevolezza che non esiste, nascosta nei luoghi inaccessibili della Terra, un luogo buono e isolato, fondato sui principi democratici di uguaglianza, troppo spesso realizzati attraverso la pratica autoritaria della religione. Da questa critica all’utopia nasce l’esigenza di costruire una società migliore proprio a partire dai luoghi dello sfruttamento occidentale, combattendo, se necessario, all’interno di essi. Assistiamo allo scambio tra distanza geografica e dislocazione temporale, e ciò che era giusto ma così lontano che solo il racconto del viaggiatore rendeva vivo (come ne Le città invisibili di Italo Calvino), entra nel vivo delle comunità che prendono in mano i progetti di trasformazione impiantandoli nella dimensione temporale e attuando la trasformazione dell’utopia nel socialismo. Inoltre si diffonde la consapevolezza che si è concluso il piano di colonizzazione e conquista dell’intero pianeta, che le logiche di potere occidentali si sono estese in ognuna delle nuove terre e che è generalmente fallito il progetto che stava alla base si alcune migrazioni occidentali in cerca di una maggiore libertà spirituale, politica e materiale. Ursula Le Guin, nel suo celebre romanzo I reietti dell’altro pianeta (magistralmente sottotitolato “An Ambiguous Utopia”), riprende e critica la pulsione di ricerca di una libertà senza condizioni che è la radice più profonda dell’anima degli Stati Uniti d’America; e la maggior parte dei testi di fantascienza statunitense che focalizzano l’ipotesi di una colonizzazione extraterrestre (lunare, interna o esterna al sistema solare) ripropongono il tema politico delle origini della Federazione e della conquista della libertà dal dominio aristocratico inglese. Un esempio illuminante è La Luna è severa maestra, il romanzo dalle tendenze populiste di Robert A. Heinlein che legge in chiave futuristica la liberazione della Luna dai vincoli coloniali terrestri riprendendo i temi chiave della Rivoluzione Americana, ma lungo tutta la storia statunitense si trovano realmente sperimentazioni di natura utopica che vanno, per citare le più note, dalla teosofica Hebus Valley (1924), New Harmony (1925) di Robert Owen e l’esperienza socialista libertaria di New Philadelphia Colony (1932), fino alla North American Phalanx (1841), che si ispirava a Charles Fourier, alle esperienze olistiche e interdisciplinari dei profughi tedeschi del Bauhaus Institute, magari passando per le comunità eugenetiche e per finire alle comuni della generazione hippy. È un passaggio importante quello che dall’idealizzazione letteraria dell’utopia, legata al più alla speculazione intellettuale che alimenta la prolifica tradizione del buon governo, conduce alla costruzione dell’utopia come pratica, perché dimostra che anche le classi che per secoli erano state escluse dalla lotta per il potere e dalla cultura, e i cui desideri di pace e prosperità erano stati esclusivamente declinati all’interno dei sistemi di religione, aprioristici e completamente codificati, potevano invece essere modellati direttamente in un sistema di vita reale. È quell’accordo utopico che attraversa la cultura statunitense dalle origini fino a oggi, che appare e scompare, e che Philip Roth, nella conclusione del romanzo Ho sposato un comunista, magistralmente sintetizza e critica con queste parole: “Guardati dall’utopia dell’isolamento. Guardati dall’utopia della capanna nel bosco, dell’oasi che protegge dalla rabbia e dal dolore. Una solitudine inespugnabile” (p. 298). E contro la solitudine inespugnabile di molta grande letteratura statunitense, di Emerson, Toreau, Melville, fino a Hemingway e ai suoi molti epigoni, si schiera una cultura collettiva e urbana che, attraverso il sindacalismo, si sposta progressivamente dall’utopia al miglioramento quotidiano delle proprie condizioni di vita e di lavoro.
L’altra linea proviene dall’Illuminismo e dal mito del progresso scientifico e tecnologico, che ha supportato negli Stati Uniti la creazione di un ceto di tecnici sempre più numeroso e che ha giocato un ruolo ambivalente all’interno dei rapporti classe; un ceto che si è avvicinato e si è allontanato dalle prospettive dei movimenti democratici e socialisti, ma che ha costantemente cercato maggior potere di quello che le élite capitaliste parsimoniosamente gli avevano concesso. Negli Stati Uniti questo mito ha assunto forme autonome sempre più importanti, perché, come scrive Howard P. Segal[1] analizzando il contributo degli utopisti europei, nessuno di loro aveva individuato la tecnologia come fattore in grado di realizzare realmente l’utopia. Ed è negli Stati Uniti che tecnologia e utopia iniziano a condividere tratti dei loro destini, offrendo a molti intellettuali europei luoghi e sostegno ad alcuni esperimenti sociali. In realtà Robert Owen, a partire dal 1800, aveva intuito che l’applicazione di tecnologie in grado di moltiplicare la produzione umana avrebbe potuto liberare ricchezze in grado di sollevare la classe operaia dalla povertà, e aveva provato a organizzare a New Lanark, in Scozia, una città-fabbrica in cui agli operai e alle loro famiglie erano offerti, in cambio del lavoro, paghe più alte, una serie di tutele e di servizi essenziali, come scuole e servizi sanitari, oltre all’abolizione del lavoro minorile. Gli interventi sociali erano finanziati attraverso un’autoriduzione del profitto da parte dello stesso Owen e del suo socio, Jeremy Bentham, l’ideatore del Panopticon ripreso da Micheal Foucault in Sorvegliare e punire. Il tema è spinoso quanto centrale e Karl Marx ne fa uno dei propri snodi fondamentali. In “Macchine. Impiego delle forze naturali e della scienza”, quel testo tratto dal Quaderno V della collezione di manoscritti agosto 1861 – giugno 1863, e che costituisce la base del capitolo sulle macchine del primo libro de Il Capitale, recita che “l’introduzione delle macchine nel quadro della produzione capitalista non ha affatto lo scopo di alleviare e ridurre la fatica quotidiana dell’operaio”[2], né di servire come possibile riduzione dell’orario di lavoro. L’approccio di Marx tende parzialmente a perdersi nell’aritmetica dei processi di produzione per dimostrare quella che oggi è l’ovvietà dell’egoismo folle del capitalismo e del suo “crescente desiderio di accaparrarsi il tempo di lavoro altrui”[3], ma già allora intuiva che con la scelta strategica di introdurre le macchine nel lavoro “il capitale ottiene la possibilità di sostituire gli operai provetti con operai meno abili e quindi più soggetti al suo controllo”[4]. Il risultato finale del ragionamento marxiano, frutto anche dell’osservazione sul campo, è di una concezione della macchina come “forma di capitale ostile al lavoro”[5] in quanto rende superflua la cooperazione operaia, riduce il numero di operai necessari e “semplifica il nuovo lavoro rispetto al precedente”[6]. Senza addentrarsi nel tema centrale dell’analisi marxiana della macchina, è evidente che la percezione europea e statunitense del problema macchina per molti versi diverge. In questo senso l’analisi delle esperienze utopistiche statunitensi sviluppata da Segal ci consente di leggere un percorso alternativo a quello europeo e che consente di seguire quel filo rosso dell’ottimismo tecnologico che arriva fino a oggi.
Il terzo elemento è quello introdotto da David F. Noble e riguarda le radici religiose della tecnologia occidentale. In La religione della tecnologia Noble traccia un quadro storico estremamente interessante su come lo sviluppo della tecnologia si sia frequentemente intersecato ad aspirazioni spirituali, per cui, nel mondo anglosassone, in molti innovatori “l’impresa tecnologica è stata allo stesso tempo uno sforzo essenzialmente religioso”[7]. Se il potere temporale del cristianesimo romano è stato pervicacemente ostile all’impresa scientifica e tecnologica, fedele all’idea agostiniana per cui “l’umanità, nella sua condizione perfetta precedente [quella dell’Eden, n.d.a.] non aveva bisogno di tale artificio [la tecnologia, n.d.a.], e nemmeno ne avrebbe avuto dal momento del recupero di quello stato perfetto”[8], durante il Medioevo iniziano ad apparire nuove idee che vedono le opere tecnologiche degli artigiani non solo come “segno di grazia, ma come segno di preparazione e poi segno di imminente salvezza”[9]. Sempre di più, e Scoto Eriugena è uno dei filosofi che iniziano a focalizzare questo concetto, si considera che le artes mechanicae facciano parte di quelle capacità divine che l’uomo, imago dei, aveva posseduto prima della Caduta e che gli consentivano l’edenico dominio della natura, e non un retaggio terreno della sua condizione di peccatore. Anzi Eriugena arriva a sostenere che la conoscenza tecnica fosse “innata nell’uomo, un aspetto della sua dote iniziale, oscurata dal peccato originale fin dal momento della Caduta dell’uomo”[10], e di cui sopravvive solo una pallida traccia. Se seguiamo nei secoli questo filone, certo osteggiato e combattuto all’interno delle violente lotte per l’egemonia che hanno caratterizzato la storia del potere temporale della Chiesa, possiamo vedere come il miglioramento del mondo attraverso le tecnologie, soprattutto visto come riduzione della fatica associata alla sopravvivenza materiale, sia interpretato come un avvicinamento progressivo a quella condizione di perfezione che sarà finalmente raggiunta al momento dell’Apocalisse. E non deve essere dimenticato come molti scienziati del Seicento (in primis Isaac Newton) non separavano le scienze dalla religione, ma lavoravano all’interno di un paradigma che si poggiava sull’idea di una concezione razionale della creazione e sulla presenza del divino nella natura. Ma questa propensione a interpretare la vita terrena come un’anticipazione della vita futura (quella oltre l’esperienza umana), almeno nel concepire una progressiva trasformazione dell’uomo e dei suoi rapporti con la natura, trova nel nuovo Eden americano un luogo di straordinarie possibilità di sperimentazione. Anders Stephanson, nel suo geniale saggio Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, delinea come, a partire dalle prime comunità puritane, l’esistenza coloniale sia stata profondamente permeata da metafore bibliche che ruotavano attorno all’individuazione di un nuovo popolo eletto e della sua predestinazione a cercare e trovare una nuova terra. Dalle drammatiche vicende puritane, attraverso straordinarie visioni e opportunismi, si crea “una vera e propria matrice concettuale, un modello interpretativo dello spazio e del tempo dell’America” (p. 20).
L’analisi delle radici puritane è solo una tra le tante ragioni dell’eccezionalità statunitense, ma è certo utile per descrivere quelle differenze dal mondo europeo capaci di motivare il cambiamento dell’asse geopolitico che dai Paesi Bassi, e poi dalla Gran Bretagna, a partire dal 1945, si sposta negli Stati Uniti. Per molti versi si tratta di un mito, ma, in alcuni casi, l’analisi dei miti politici consente di individuare alcuni paradigmi che hanno mosso la storia. In questo caso l’immaginario che viene forgiato dalle vicende dei coloni puritani vede l’America come “la nuova Canaan, una terra promessa che le forze scelte dal Signore (…) devono riconquistare e trasformare per la sua gloria”[11]. Come era stata per la narrazione biblica dell’Esodo, ci troviamo di fronte a un’evidente teologia dell’elezione in cui, nella narrazione puritana, l’Inghilterra è una reinvenzione dell’Egitto e la comunità puritana ha preso il posto del popolo ebreo come popolo prediletto da Dio. Ma ciò che interessa in questo discorso è la potente componente profetica dell’esperienza puritana che si trasmette nel crogiolo della cultura statunitense e che caratterizza l’immaginario dell’intera nazione. Stephanson sottolinea che la padronanza della profezia da parte dei puritani “gli consentiva di capire il corso della storia e di ‘cooperare’ con esso”[12], ovvero si ritiene di possedere la capacità di partecipare a un destino collettivo. Sempre maggiore importanza assume la lettura e l’interpretazione del Libro della Rivelazione, che corrisponde all’Apocalisse di Giovanni della tradizione cattolico-romana, e che comporta una necessità di miglioramento dell’uomo durante la sua esistenza terrena e, come ebbe a scrivere John Adolphus Etzler in The Paradise Within the Reach of All Men, Without Labor, by Powers of Nature and Machinery: An Address to All intelligent Men, “Se l’uomo ha veramente perduto il paradiso con il peccato originale (…) deve essersi trattato del peccato di negligenza verso il dono più prezioso del suo Creatore, la facoltà della ragione (…) l’uomo non ha bisogno di mangiare il pane con il sudore della sua fronte”[13], ma in maniera più efficace attraverso un uso utilitaristico della natura, sfruttando vento e acqua attraverso mezzi meccanici.
Nell’aprile del 1926 la fantascienza nasce come fenomeno sociale, codificandosi come letteratura autonoma, attraverso la pubblicizzazione del proprio nome (all’inizio “scientifiction”) e un’editoria dedicata (Amazing Stories). La rivista nasce dall’idea di un emigrato dal Lussemburgo, Hugo Gernsback, a partire da una serie di esperienze editoriali specializzate nella divulgazione tecnologica e nella previsione, talvolta pittoresca, di invenzioni sul punto di essere realizzate. Si trattava di riviste come Modern Electrics e The Electric Experimenter (poi diventata l’importante Science and Inventions) che contenevano anche narrativa di predizione tecnologica, come era stato per la pubblicazione a puntate di Ralph 124C 41+ dello stesso Gernsback su Modern Electrics a partire dall’aprile del 1911, e sottotitolato A Romance of the Year 2660.
La fantascienza appena nata si trova così a collaborare alla creazione di un immaginario centrato sulla tecnologia in cui si fondono l’eredità utopica, la visione positiva della tecnologia e il ruolo guida che gli Stati Uniti progressivamente si stanno dando nel quadro geopolitico internazionale. Questa convergenza produce addirittura come conseguenza che la fantascienza e il lavoro di divulgazione di Gernsback si protendono verso la sfera politica, intuendo che l’elemento fondamentale della società moderna è il ruolo predominante della tecnologia e del suo inevitabile estendersi a livello di massa.
La dominante tecnico-scientifica che marchia questa nuova letteratura sarà letta in maniere molto diverse, talvolta antitetiche, segnalandoci che gli scrittori di fantascienza non sono stati capaci di predire il futuro, ma che molto spesso non avevano neppure l’ambizione di farlo, piuttosto cercavano di capire il presente, proiettando nel futuro quegli elementi che, davanti ai loro occhi di osservatori critici, si segnalavano come innovativi, pericolosi, inquietanti. In questo senso la storia della fantascienza si mostra come un laboratorio politico di estremo interesse, costellato di preziose contraddittorietà, che ci consentono di studiare l’evolversi di alcune componenti della storia delle idee, delle lotte per il potere e delle tensioni sociali del mondo occidentale. Roger Luckhurst definisce la fantascienza come la letteratura delle società saturate di tecnologie, “un genere [della letteratura popolare] che per questo motivo emerge nella modernità solo in tempi recenti (…). La componente di meccanizzazione della modernità inizia ad accelerare la velocità di cambiamento e trasforma in maniera evidente i ritmi della vita quotidiana. La differente esperienza del tempo associata alla modernità orienta la percezione verso il futuro piuttosto che verso il passato o verso un senso di ciclicità del tempo ascrivibile alle società del passato”[14]. Dal punto di vista cognitivo e del rapporto tra il soggetto e il mondo, Robert E. Schoeles e Eric S. Rabkin hanno letto l’evoluzione della letteratura come la storia dell’abbandono di una concezione mitica della realtà a favore di una tecnico scientifica e, in particolare, ipotizzano che la fantascienza sia stato il genere che in maniera più dirompente ha rappresentato il progressivo ridursi di spazio del mito. Tutte queste considerazioni portano a comprendere che la fantascienza è un mezzo espressivo intrinsecamente politico perché trova la propria ispirazione nella critica del presente, nella denuncia delle ingiustizie sociali e nell’immaginare delle alternative. Negli Stati Uniti la letteratura di anticipazione si è immediatamente proposta come produttrice di visioni di come la tecnologia avrebbe positivamente trasformato le città, i rapporti di potere, il lavoro e la vita quotidiana, e il caso del Technocracy Movement è emblematico. Nato sulla suggestione dello scritto utopistico Uno sguardo dal 2000 di Edward Bellamy e dalle teorie di Thorstein Veblen, l’economista che aveva ipotizzato la creazione di “soviet of technicians”, il movimento tecnocratico statunitense asseriva che la società era diventata troppo complessa per essere governata da politici e uomini di affari, e doveva essere affidata a esperti di tecnologie e scienze come ingegneri, fisici, agronomi, economisti e scienziati di altre discipline. Secondo la teoria di Veblen alcuni capitalisti operavano un deliberato sabotaggio della produzione industriale in modo da realizzare profitti personali sempre maggiori e non per sviluppare e migliorare la società attraverso l’uso delle nuove tecnologie. Se diverse associazioni professionali di ingegneri avevano iniziato a costituirsi con finalità corporative, l’idea di Veblen, che si era ispirato ad alcuni aspetti della rivoluzione bolscevica del 1917, assume contenuti decisamente utopici teorizzando una società guidata da esperti, organizzata e meccanizzata, liberata dal denaro e dal lavoro, pacifica e democratica. È chiaro che la democrazia ipotizzata dai tecnocratici si basa sull’idea stessa di trasformazione professionale e culturale totale del popolo, pensando di arrivare a una società costituita da soli tecnici, e il Technocracy Movement dimostra di avere trasformato elementi del populismo statunitense, dell’elitarismo e del socialismo attraverso la matrice tecnologica verso concetti di democraticismo che vedono la promozione a tecnici dalle classi operaie e contadine, e l’eliminazione di ceti borghesi parassitari. La stessa immagine dell’imprenditore capitalista è soggetta a profonde ristrutturazioni, mitizzando figure come Thomas Edison ed Henry Ford, ma elaborando violente critiche contro le forme di produzione della ricchezza che non avvenissero attraverso l’innovazione, l’invenzione e, soprattutto, con la conseguente raggiungimento di un benessere generale. Hugo Gernsback è sicuramente tra gli imprenditori che seguono con maggiore sincerità il sogno tecnocratico, animato da una critica razionale contro lo spregiudicato mondo della finanza e la corruzione della classe politica. Nell’editoriale del primo numero di Amazing Stories, Gernsback scrive: “La scienza, attraverso discipline come la meccanica, l’elettricità, l’astronomia e altre, oggi entra nelle nostre vite molto profondamente, e noi siamo così immensi in questa realtà scientifica, e noi siamo diventati piuttosto inclini a dare per scontate le nuove scoperte”[15]. Sempre secondo Gernsback, gli scrittori di scientifiction si ispirano a queste rapide trasformazioni del presente, e sono in grado di descrivere tecnologie non ancora sviluppate, ma, soprattutto, offrono ai lettori conoscenze che non sono disponibili altrove. È nelle pagine delle riviste di Gernsback che la letteratura costruisce, racconto dopo racconto, un immaginario in cui i nuovi eroi sono scienziati, inventori e ingegneri che lottano per un mondo reso migliore dalle nuove fantastiche fonti di energia. Tra gli autori “tecnocratici” più importanti spicca Nat Schachner, il chimico autore della trilogia The Revolt of the Scientists[16] e del racconto “The Robot Technocrat”, tutti pubblicati su Wonder Stories nel 1933, la nuova rivista di Gernsback, e che sono considerati il manifesto della tecnocrazia fantascientifica.
Il coinvolgimento di Gernsback nel Technocracy Movement è originale e sincero, e lo vede editore della rivista Technocracy Review (1932-33), un organo di propaganda politica che si affianca alle sue riviste di fantascienza e di divulgazione scientifica. Se il New Deal rooseveltiano, con la sua carica di socialismo nazionale, ha risposto alla irrazionalità del mercato e all’avidità capitalista che aveva gettato gli Stati Uniti nella Grande Depressione attraverso un eccezionale sistema di accentramento e pianificazione statale, non eccessivamente dissimile da quello che i totalitarismi europei stavano attuando (si veda a questo proposito il saggio 3 New Deal di Wolfgang Schivelbusch), è evidente che un programma “rivoluzionario” come quello tecnocratico abbia progressivamente perduto la propria spinta. Nonostante le vittorie sociali di Franklin D. Roosevelt avessero dimostrato che lo stato federale era in grado di disciplinare il sistema capitalista assumendo direttamente il controllo di alcune attività strategiche, sottraendole al libero mercato (almeno temporaneamente), l’idea tecnocratica continua a svilupparsi nella fantascienza almeno fino all’entrata in guerra degli Stati Uniti. A partire dal 1937, John W. Campbell diventa direttore di Astounding Stories, la rivista in cui diventa sempre più esplicito il modello di impegno sociale tecnocratico che vede coordinarsi fantascienza e la divulgazione scientifica. In particolare è interessante come, ben prima delle esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki, siano proprio le riviste di fantascienza a monopolizzare il dibattito sull’energia nucleare e sulla sua possibilità, potenzialmente infinita, di fornire quell’energia a basso costo, che, nelle visioni tecnocratiche, avrebbe sostenuto quell’impressionante progresso tecnologico che le copertine colorate dei pulp diffondevano con il loro milione e mezzo di copie al mese. Il nuovo eroe tecnocratico che la fantascienza esalta è l’ingegnere nucleare, l’uomo capace di ogni sacrificio nella sua lotta di strappare la nuova fonte di energia alla natura e ai monopoli dei capitalisti. La fantascienza di questo periodo descrive un’umanità del futuro che ha raggiunto un differente rapporto con il lavoro rispetto ai modelli reali degli anni Trenta; gli abitanti di queste proiezioni sociali offrono il loro contributo all’interno di un sistema altamente razionalizzato dove, seppure con livelli di complessità e di gerarchia, dove tutti svolgono mansioni tecniche e sono utili, e dove i nemici sono le élite, i burocrati, gli aristocratici, gli accentratori del sapere e dei sistemi di produzione. La prospettiva politica mondiale che descrivono è caratterizzata da un radicale superamento dei nazionalismi a favore di un modello di evoluzione della Società delle Nazioni, ed è evidente quanto il quadro europeo dell’espansione fascista in Germania e in Spagna possa avere influenzato questa aspettativa. Nell’ideale tecnocratico il capitalismo è apertamente messo in discussione, separando un uso positivo del capitale, se impegnato in ricerca e sviluppo, produttore di innovazione e progresso, e all’interno di un sistema di ingegneria sociale, da uno negativo che crea ricchezza per pochi attraverso la speculazione, accentrando il benessere e sfruttando il lavoro altrui. Nell’immaginario tecnocratico lo scienziato-imprenditore riveste il ruolo dell’eroe, spesso sacrificandosi per gli ideali di progresso e lottando contro una società bieca e retrograde.
Tuttavia, proprio nel momento in cui il New Deal raggiunge il suo straordinario successo, e negli Stati Uniti sono molto attivi i comitati che sostengono la Repubblica spagnola contro l’aggressione del fascismo italiano e tedesco, gruppi di lettori e di giovani scrittori di fantascienza iniziano a portare una critica molto feroce al sistema che consideravano corporativo ed elitario dell’idea tecnocratica e dell’utopia tecnologica. Il Communist Party of the United States of America (CPUSA), dopo gli anni di persecuzione dell’immediato dopoguerra e la sovietizzazione dei suoi apparati, si era trovato ad affrontare, tra il 1932 e il 1933, la novità dell’elezione di Roosevelt e l’ascesa al potere di Hitler, e, a partire dal 1935, aveva optato per la politica più aperta del Popular Front. Nel mondo degli scrittori di fantascienza le conseguenze furono sorprendenti. Soprattutto grazie all’idea di Gernsback, che aveva concepito la fantascienza come un apprendistato per la realizzazione della sua utopia tecnologica, questa letteratura mostrava delle proprie specificità che la differenziavano dagli altri generi letterari della cultura popolare. Nella visione tecnocratica la narrativa aveva lo scopo di collegare il lettore ai temi della ricerca scientifica e di orientarlo al lavoro tecnico, e di conseguenza il contenuto delle riviste pulp non era a predominante letterario, ma esprimeva un valore politico legato a un esplicito progetto di trasformazione sociale. Ne consegue che, a differenza di altri generi letterari, si era instaurata una progressiva interazione tra lettori, scrittori ed editori, che, attraverso rubriche, editoriali e lettere, tendono a condividere il progetto e a praticare un’intensa collaborazione. Nasce così quella figura un po’ strana del cultore della fantascienza, a metà tra l’appassionato e l’attivista, che ben si accorda alla visione che Gernsback aveva mutuato dal mondo della tecnologia e della scienza sperimentale. Infatti per Gernsback la tecnologia era una tipologia di cultura popolare e si era sviluppata attraverso le riviste e che aveva consentito al lettore di conoscere e costruire dispositivi elettici, apparecchiature e, soprattutto, e radio, condividere con altri appassionati i risultati delle proprie sperimentazioni. Il risultati di questa popolarizzazione della tecnologia sono molti. Il primo è legato alla costruzione dell’immaginario dagli anni Dieci del secolo fino alla fine degli anni Trenta, in cui la fantascienza sviluppa a livello di massa una entusiastica celebrazione della modernità. Il secondo corrisponde alla propaganda di un ruolo privilegiato dell’appassionato di tecnologia all’interno del percorso di progresso sociale che gli Stati Uniti ritenevano di vivere. Il terzo mette le basi per l’esistenza di “amateur cultural workers”[17], una figura ancora oggi rilevante all’interno della fantascienza e dei movimenti culturali tecnologici che sintetizza gli aspetti apparentemente opposti di produttore e consumatore di cultura[18]. Queste peculiarità della fantascienza si presentano nel magmatico contesto del Popular Front con risultati sorprendenti grazie a quattro giovani appassionati di fantascienza newyorkesi: John B. Michel, Robert W. Lowndes, Frederik Pohl e Donald A. Wollheim. Provenienti da famiglie della classe operaia della East Coast, avevano subito l’impatto più violento della crisi del 1929 e avevano drammaticamente constato il fallimento politico del progetto di Gernsback. Si situavano tutti nell’area politica del CPUSA e militavano nella Young Communist League (YCL), un’organizzazione di sinistra molto attiva nei quartieri di Brooklyn dove Michel, Pohl e Wollheim abitavano. La Depressione aveva pesantemente incrinato l’ottimismo verso la scienza e la tecnologia, accusate di avere consentito al capitalismo di attuare le sue politiche più spregiudicate e di avere provocato una selvaggia disoccupazione che aveva colpito anche ingegneri e tecnici. Inoltre la diaspora degli scienziati tedeschi aveva dimostrato la debolezza della comunità scientifica verso i regimi totalitari, tuttavia il marxismo, specialmente nella visione ortodossa del CPUSA, propagandava un’immagine positiva della scienza all’interno della tradizione del materialismo scientifico. Per un gruppo di appassionati di fantascienza così politicizzato la contraddizione tra le due visioni della tecnologia e della scienza era talmente rilevante da proclamare apertamente la “Gernsback delusion” e da richiedere l’elaborazione di un nuovo paradigma. Criticando dall’interno la tecnocrazia e l’elitarismo degli scrittori e delle riviste, osservando anche che la comunità degli appassionati, che si erano riuniti nella Science Fiction League, escludeva di fatto la working class, le persone di colore, le donne e gli immigrati più recenti, elaborano una teoria della fantascienza come una combinazione tra immaginazione, marxismo e cultura popolare. Dal punto di vista politico erano intervenuti in una Convention che non consentiva di presentare relazioni a “selvaggi africani, cinesi, giapponesi, indiani e abitanti di Venere”[19]. Wollheim, Michel, Lowndes e Pohl attaccarono verbalmente gli organizzatori e ottennero che la Fantasy Amatour Press Association (FAPA) introducesse l’espulsione per le discriminazioni razziali. Il gruppo, constatando che “la collaborazione tra fantascienza e capitalismo aveva fallito (…) era pronto a promuovere una nuova alleanza in grado di far rivivere le promesse della fantascienza”[20] ridefinendone le funzioni politiche e sociali. Per fare questo andava abbandonato il paradigma scientifico propagandato da Gernsback e Campbell, e condiviso da molti scrittori e appassionati, per abbracciare una visione della scienza in termini dialettici, in modo da teorizzare correttamente una fantascienza marxista. Donald Wollheim esplicita molto chiaramente questa idea[21], elaborando un’estetica che stabilisce come la fantascienza debba operare, recuperando l’originale utopismo, ma dirigendolo verso la rappresentazione della società senza classi, esprimendo il punto di vista positivo per gli oppressi e l’avversione contro gli oppressori. Per Wollheim la componente utopica e di liberazione poteva essere più forte del fascino per la tecnologia, ma, soprattutto, aveva compreso che il progresso tecnologico non implicava un progresso sociale. Rifacendosi agli scritti di Herbert G. Wells, Olaf Stapledon e Aldous Huxley, teorizza una fantascienza sociale che studiasse le reazioni dell’uomo alle innovazioni tecnologiche e alle loro implicazioni sui sistemi di potere, un laboratorio letterario che, ambiguamente, sondasse mondi di schiavitù e di liberazione. In questo senso il gruppo di Michel, Lowndes, Pohl e Wollheim supera anche la visione strumentale e propagandista del realismo proletario, non limitandosi a una mera rappresentazione del comunismo futuro, ma incamminandosi verso modelli di speculazione scientifica e sociale molto sofisticati. Nel mondo degli appassionati di fantascienza questo progetto estetico e contemporaneamente politico inizia a diffondersi sotto il termine di Michelism, riconoscendo a John Michel il maggior contributo elaborativo. Nell’idea di Michel, la comunità della fantascienza, modificando il proprio giudizio sulla scienza e accettandone la visione sociologica e critica, avrebbe costituito una avanguardia politica che lavorava all’interno della rete culturale comunista. Nell’ottobre del 1937 lo scontro tra Michel, Lowndes, Pohl, Wollheim e i settori conservatori della comunità degli appassionati di fantascienza si fa aperto. Alla Third Eastern Science Fiction Convention di Philadelphia, Wollheim prende la parola per leggere un intervento scritto da Michel intitolato “Mutation or Death”, un vero e proprio manifesto di una fantascienza progressista, antifascista e radicale. Tutti i temi su cui il gruppo ha lavorato vengono affrontati attraverso la denuncia del fallimento dell’utopismo di Gernsback e della minaccia che il fascismo sta portando avanti (Mussolini è esplicitamente chiamato “dirty rat”), alla prospettiva di un impegno politico collettivo di scrittori, editori e lettori per realizzare una fantascienza radicale patrimonio di una comunità. Si tratta, nel discorso di Michel, di una scelta tra civiltà e barbarie (letteralmente “civilization or barbarism”), di una mobilitazione culturale contro l’ignoranza che genera diseguaglianza, ingiustizia, povertà e guerra, una battaglia che la comunità della fantascienza può combattere grazie alla sua tradizione di cultura popolare collettiva e alla sua capacità di superare la distanza tra lettori, scrittori ed editori. Le reazioni al proclama dei Michelists sono molto eterogenee, si registrano alcuni consensi ma la comunità sostanzialmente rifiuta il loro programma. Nel gennaio del 1938, in una pubblicazione amatoriale di fantascienza britannica, Novae Terrae, Wollheim interviene in un dibattito sulla guerra come risposta al fascismo europeo sostenendo i temi della mobilitazione totale. Intanto tre appassionati newyorkesi, Harry Dockweiler, Jack Rubinson e Walter Kubilus, si uniscono al gruppo dei Michelists per formare il Committee for the Political Advancement of Science Fiction (CPASF), un’organizzazione all’interno della rete di iniziative del Popular Front, apertamente comunista, con lo scopo di smascherare il fascismo dentro la fantascienza e spingere verso sinistra la comunità statunitense degli appassionati. Tra le loro attività troviamo la pubblicazione di una serie di pamphlet e dei due numeri della rivista Science Fiction Advance[22]. Wollheim aveva scritto a Campbell per sostenere la loro versione marxista della fantascienza; l’editore si era diplomaticamente dichiarato interessato, ma sostenne una visione apolitica anche se si dichiarò disposto a pubblicare narrativa di taglio sociale, purché di buona qualità. Tuttavia la pubblicazione di una serie di racconti ritenuti apertamente fascisti su Astounding provocò la reazione violenta del CPASF. Si trattava, per esempio, di “Three Thousand Years” di Thoma Calvert McClary, una storia basata sulla lotta tra un capitalista e uno scienziato per dominare la Terra e imporre la propria visione politica. Ma la dialettica tra capitalismo e tecnocrazia, secondo la critica di Pohl e Wollheim, si riduce a proporre un futuro di sole possibilità autoritarie. La dimensione dichiaratamente fascista risiedeva anche nella descrizione di un popolo comunque supino alle ambizioni dei leader, incapace di esprimere un’opinione automa, organizzarsi e lottare per la propria emancipazione. Secondo Pohl e Wollheim l’immagine del popolo che veniva presentata nel racconto era irrealista perché molto diversa da quella del loro presente, dove la mobilitazione contro il fascismo sembrava intensa e diffusa. Secondo Campbell, che risponde alle critiche con una lettera, il racconto di McClary è invece un’interessante estrapolazione politica sulla complessiva inesistenza di una forma di governo perfetta. Gli attivisti del CPASF ribattono ancora, ma Campbell decide di ignorare ogni ulteriore richiesta di spiegazioni; il tentativo di avviare una collaborazione con l’editoria per realizzare quel complesso progetto di “educazione attraverso la narrativa” dei lettori di fantascienza per farne dei militanti di sinistra si spegne. Tuttavia sono molti i semplici appassionati che simpatizzano per la fantascienza radicale e molte iniziative autonome si affiancano alle attività del CPASF e della rivista Science Fiction Advance. Si trattava per lo più di appassionati di fantascienza che erano già militanti di organizzazioni comuniste o che avevano aderito alla mobilitazione contro il fascismo in difesa della repubblica spagnola. Ma più lo “science fiction popular front” si diffonde più le componenti conservatrici si organizzano per contrastarlo. Sam Moskowitz, certamente il più autorevole tra gli appassionati di fantascienza statunitense, li apostrofa apertamente come “lacchè del Partito Comunista” e li accusa di voler trasformare le riviste di fantascienza in organi di propaganda. Nel maggio del 1938, mentre la situazione europea è sempre più tragica con la vittoria del fascismo in Spagna e l’incontrata espansione territoriale nazista, gli appassionati comunisti di fantascienza si presentano in massa a Newark per la prima National Science Fiction Convention. Nel loro stile rivoluzionario diffondono il materiale politico tra il pubblico, ma il comitato organizzatore gli nega la possibilità di tenere delle conferenze, sostenendo che i veri appassionati di fantascienza non erano interessati alla politica e che le loro idee erano offensive verso gli editori presenti. Alla fine del 1938 i membri del CPASF affrontano i risultati poco confortanti della loro azione politica e decidono di sospendere le attività per dedicarsi a una riflessione strategica. In una lettera a Wollheim, Michel cita esplicitamente la loro organizzazione come “Communist Science-Fiction movement” e attribuisce la loro temporanea sconfitta a un momento di difficoltà che l’intero movimento comunista sta attraversando. Per superare questa crisi viene sciolto il Comitato per dare origine a una nuova organizzazione, la Futurian Society of New York. Se i Futurians abbandonano apparentemente la forma tipica del comitato politico del Popular Front, tuttavia sono ben lontani dal fondare l’ennesimo fan club e intendono raccogliere attorno alla fantascienza persone che abbiano interessi sociali, culturali, politici, letterari e artistici, rifiutando la ghettizzazione a là Gernsback che rifiutava un allargamento della fantascienza ad altre forme culturali che non fossero tecnologiche. Nel gruppo entrarono diversi appassionati, alcuni dei quali sarebbero diventati scrittori molto importanti come Isaac Asimov, Damon Knight, Cyril Kornbluth, Judith Merril e James Blish. “Le tipiche pubblicazioni redatte dai Futurians contenevano articoli sul Michelism e reportage delle loro attività, ma il loro approccio era diventato critico e creativo, e meno polemico. La retorica tipica del Popular Front sulla democrazia statunitense era uno degli argomenti centrali, enfatizzando il contributo del PCUSA alla politica del New Deal come incarnazione della ‘tradizione di Jefferson, Paine, Jackson, Lincoln e della Dichiarazione di Indipendenza’”[23], mentre la divulgazione scientifica, che aveva accompagnato la fantascienza sin dalle origini, scompare dalle loro pagine a vantaggio della poesia. Nel 1939, a luglio, mentre il mondo sta precipitando nell’orrore, New York è la sede della prima convention mondiale dei cultori della fantascienza. I Futurians si illudono di partecipare, ma il comitato organizzatore non gli consente di iscriversi, e tiene fuori dalla porta Wollheim, Michael, Gillespie, Lowndes, Pohl e Kornbluth. Gli esclusi denunciano gli organizzatori, Moskowitz in testa, di autoritarismo e proclamano una contro-convention (una “democratic convention”). Alcuni Futurians riescono a entrare di nascosto e inscenano una protesta disturbando le attività ufficiali, proclamando le attitudini creative e progressiste della fantascienza[24]. La contro-convention si tiene nella sezione della Young Communist Legue di Flatbush, un sobborgo di Brooklyn, dove Pohl era il segretario. I partecipanti denunciano l’autoritarismo e il conservatorismo della World Convention, ribadiscono i temi della fantascienza antifascista e progressista. “Credevano che il futuro sarebbe appartenuto alla sinistra, e che la comunità degli appassionati di fantascienza avrebbe collaborato con le strutture politiche comuniste”[25], ma l’esplodere della guerra in Europa e l’evolversi delle loro carriere professionali smorza progressivamente la combattività del gruppo dei Futurians. Molti di loro iniziano la carriera professionale come scrittori, agenti ed editor, ma rimanendo attivi nell’area della sinistra radicale statunitense. Michel e Lowndes lasciano la YCL e diventano militanti del CPUSA, Pohl, che è diventato agente letterario[26], rimane ancora per qualche tempo nella YCL, ma abbandona il partito nel 1939, a causa del patto di non belligeranza tra Germania e Unione Sovietica, ma mantiene inalterate le sue posizioni antifasciste. Nel 1942 abbandona i Futurians in polemica con Wollheim e Lowndes, accusati di aver pubblicato materiale scadete sulla loro rivista, Futuria. Wollheim compirà la stesa scelta nel 1945, ma a quel punto i Futurians si sono praticamente sciolti. Quando gli Stati Uniti entrano in guerra, Pohl si arruola in aviazione e sarà in Italia con il 456 stormo bombardieri, Wollheim mantiene il suo atteggiamento radicale ma abbandona la militanza attiva, e il suo maggiore contributo alle idee dei Futurians è l’antologia The Pocketbook of Science Fiction, in cui inserisce racconti in linea con le sue idee di fantascienza politica e sociale. Lowndes abbandona il CPUSA nel 1945 a causa del crescente dogmatismo e asservimento alla politica sovietica mentre Michelist rimane nel Partito e collabora a testate importanti come Daily Worker e New Masses, fino al 1949, quando viene espulso.
Di questa appassionante stagione politica, al ritorno dalla guerra mondiale, in una nuova realtà che ha visto in azione la macchina della morte del fascismo europeo, le distruzioni di massa dei borbardamenti a tappeto e delle armi nucleari, e che risponde all’orrore con la Guerra Fredda e una nuova Red Scare che attacca frontalmente i sindacati statunitensi, i progressisti e gli intellettuali, la fantascienza riparte proprio dai temi per cui il e i Futurians avevano lottato. Gli anni del dopoguerra sono caratterizzati dal progressivo abbandono della fantascienza tecnocratica a vantaggio dei temi sociali, ingaggiando uno scontro radicale contro la riduzione delle libertà personali, il consumismo, la pubblicità, il razzismo e il totalitarismo. La fantascienza diventa il luogo privilegiato per una critica aperta a un processo liberticida che, in nome della lotta contro il comunismo, sta dispiegando una società autoritaria ed elitaria. Riviste come IF e Galaxy, dirette da Pohl, sono l’avanguardia di quella social science fiction che era stata rigettata da Moskowitz e dal suo clan conservatore. Le opere di autori come Robert Sheckley e Philip Dick, assieme agli scrittori che utilizzarono la guerra atomica come tema della loro narrativa, sono letterariamente debitori della stagione dei Futurians, e dopo di loro anche gli scrittori della New Wave, che affiancano il rilancio delle lotte sociali, dei diritti civili e pacifiste, come Ursula Le Guin, Samuel Delany, Norman Spinrad, Philip Jose Farmer, Robert Silverberg, Barry Malzberg, Michael Moorcock e James Ballard.
Questo saggio è originalmente apparso del volume dedicato ad Antonio Caronia, Mondi Altri dell’editore Mimesis e curato da Amos Bianchi e Giovanni Leghissa. Una sua versione dedicata alla nascita della fantascienza sociologica è apparsa sulla rivista Robot.
Bibliografia e note
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[1] H. P. Segal, Technological Utopianism in American Culture, Syracuse University Press, 2005.
[2] K. Marx, “Macchine. Impiego delle forze naturali e della scienza”, cit., p. 17.
[3] Ivi, p. 18.
[4] Ivi, p. 34.
[5] Ivi, p. 41.
[6] Ibidem.
[7] D. Noble, La religione della tecnologia, cit., p. 5.
[8] Ivi, p. 15.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, p.
[11] A. Stephanson, Destino manifesto, cit., p. 51.
[12] Ivi, p. 23.
[13] A. Etzler in The Paradise within the Reach of all Men, without Labor, by Powers of Nature and Machinery, cit., p.
[14] R. Luckhurst, cit., p. 3.
[15] H. Gernsback, A New sort of Magazine, cit., pag. 3.
[16] Il ciclo Revolt of Scientists si compone di tre racconti: “Revolt of the Scientists”, “The Great Oil War” e “The Final Triumph”.
[17] S. F. Cashbaugh, A Popular Front, a Popular Future, cit., p. 28. La citazione è tratta da un’interessante tesi per il Master of Art presso University of Texas e che costituisce, a oggi, lo studio più completo sul rapporto tra fantascienza e politica durante gli anni del Popular Front statunitense.
[18] A questo proposito si veda A. Caronia, D. Gallo, Houdini e Faust. Breve storia del Cyberpunk.
[19] Il fatto, accaduto durante la Newark Fourth Eastern Science Fiction, nel 1938 è documentato nella tesi di Cashbaugh. Il tono ironico dell’esclusione dei venusiani non deve trarre in inganno perché, all’epoca, nonostante molti tra gli appassionati fossero convinti che la fantascienza trascendesse il problema razziale, si verificavano esclusioni di fatto di natura razzista e sessista.
[20] S. F. Cashbaugh, A Popular Front, a Popular Future, cit., p. 37.
[21] Si veda D. Wollheim, “Thughts Upon the Defeat of a Resolution”, cit.
[22] Per molti versi la storia del gruppo dei Michelist, del Committee for the Political Advancement of Science Fiction e poi dei Futurians ricorda le vicende del Collettivo Un’Ambigua Utopia. In qualche modo il contesto culturale del Popular Front statunitense si ripropone in Italia, con le debite differenze ma con il proliferare di iniziative autonome, durante gli anni della contestazione post ‘68 e, soprattutto, all’interno del Movimento del ’77.
[23] S. F. Cashbaugh, A Popular Front, a Popular Future, cit., p. 79.
[24] Nel 1978, a Ferrara, il collettivo Un’Ambigua Utopia contesta il convegno che riunisce gli appassionati di fantascienza italiani invitandoli ad abbandonare l’incontro. Qualche mese dopo i contestatori si riuniscono a Milano per la prima Invasione dei Marziani. A Stresa, nel maggio del 1980, i collettivi riuniti di Un’Ambigua Utopia, Pianeta Rosso (Napoli), Lucifero (Carrara – Reggio Emilia), Collettivo delle Ombre e Crash (Genova) contestano lo svolgimento dell’Eurocon 5, il convegno della fantascienza europea, autoriducono la tassa di entrata, disturbano alcune conferenze di esponenti filofascisti della fantascienza italiana, contestano l’editoria conservatrice e animano la manifestazione con performance e reading alternativi. Curiosamente, senza saperlo, Un’Ambigua Utopia riprende alcune delle critiche e delle forme di contestazione del Committee for the Political Advancement of Science Fiction e dei Futurians.
[25] S. F. Cashbaugh, A Popular Front, a Popular Future, cit., p. 82.
[26] Pohl inizia a rappresentare Ray Bradbury e il suo vecchio amico Isaac Asimov. Su una lettera tra Pohl e Asimov è riportata l’intenzione di Pohl di versare al CPUSA la sua parte del guadagno. In S. F. Cashbaugh, A Popular Front, a Popular Future, cit., p. 83.