di Luca Baiada
Come il filo di un gomitolo misterioso, tira tira, la storia della strage del Padule di Fucecchio ha sempre qualcosa in più da raccontarci.
Il 23 agosto 1944, senza contare le altre violenze di quell’estate di sangue, sono 174 morti, la più piccola di quattro mesi. Poi il massacro è inghiottito dall’oblio, dall’indifferenza, da commemorazioni spesso fiacche o monumentali.
Debole e monumentale anche la giustizia, con quattro processi. In quello al feldmaresciallo Albert Kesselring, Fucecchio è la più grave, fra le stragi del sistema di ordini riconducibile a lui; ma Kesselring, condannato a morte per finta, è libero e loquace già nei primi anni Cinquanta. In quello al generale Peter Eduard Crasemann il condannato muore presto in carcere, prima della liberazione di Kesselring (è improbabile che se fosse vissuto più a lungo sarebbe rimasto dietro le sbarre). Ancora un processo, al maggiore Josef Strauch: una condanna ridicolmente bassa fa sì che sia libero nel 1950, in ottima forma per una carriera politica nella Germania federale. E c’è il giudizio – fatto il Muro di Berlino, disfatto il Muro di Berlino – dopo la riapertura dell’Armadio della vergogna, con due condannati nel 2012, che la Germania non ha consegnato: Fritz Jauss e Johann Robert Riss. Nessun risarcimento economico è mai stato pagato; a carico delle famiglie delle vittime sono rimaste anche le spese per gli avvocati.
Circuito perverso, quello di una giustizia inadeguata e di una memoria pubblica di circostanza, mentre i ricordi veri sono costretti a convivere col dolore muto, le privazioni, la consapevolezza dell’impunità dei complici fascisti locali. È un circuito talmente robusto da far nascere il sospetto che sia un unico modello politico, a sorreggere narrazioni accomodate e sentenze mai eseguite. In questo Fucecchio, per dimensioni la terza strage in Toscana e la quinta in Italia, è esemplare. Così trascurata da essere ignota anche a poca distanza, come uno dei piccoli eccidi che punteggiano l’Italia occupata; e invece trattata in quattro processi, come le Fosse Ardeatine. Così dimenticata dagli intellettuali che, dopo un volumetto di un frate nel 1945, dovette attendere il 1974 per entrare nel libro di un giornalista, e addirittura il 2001 per un conteggio attendibile dei morti; e invece tanto capillare nella memoria locale che la campagna è disseminata di marginine, tabernacoli, cipressi votivi, dove mani pietose lasciano fiori o poesie avvolte in fogli di plastica. Cose scomode: qualche settimana fa, a Ponte Buggianese, tre di questi monumenti sono stati devastati; la riparazione è stata veloce, ma il fatto resta orrendo. Si sono accaniti specialmente contro Lia Parenti Moschini, ventisette anni, che ebbe il coraggio di lasciare il suo rifugio per salvare il marito, e morì. Per chi ha scempiato la sua lapide, venga il giorno del pericolo, quando i sentimenti distinguono le persone dalla paglia.
C’è sempre chi si domanda se i morti fossero vittime, come propone la lettura più immediata, o ribelli, Banditen, come voleva la propaganda tedesca. Non bastano generazioni, per strappare queste maschere. Eppure, già la ballata di un oscuro barrocciaio della Valdinievole, Popolo se m’ascolti, immediatamente dopo la Liberazione raccontava il massacro, difendendo gli italiani e accusando i tedeschi, senza ammettere né negare che i morti fossero combattenti. Il suo termine di riferimento era appunto il popolo, soggetto collettivo che si afferma anche nel dolore, e che non distingue fra da un lato il partigiano Enrico Magnani e Giuseppe Incerpi, in contatto con gli Alleati, e dall’altro Maria Malucchi, quattro mesi, e Carmela Arinci, novantaduenne cieca e sorda. Erano 174 persone: tutti, tutte caddero. Solo all’apparenza, questo spariglio delle categorie riguarda i morti; i protagonisti sono i vivi, siamo noi, noi che guardiamo e ricordiamo. Il rifiuto dell’insiemistica imposta dal carnefice va rivendicato: è il riscatto del superstite, dei suoi cari, dei nati dopo. Chi adesso vive, può dirsi vittima senza sentirsi un imbelle, e anche se non ha uno Sten sotterrato nell’orto può sentirsi combattente di un conflitto che sembra finito, e invece riemerge ogni volta che si prova a chiedere giustizia, a non accontentarsi di commemorazioni o spettacoli.
A ridimensionarsi è anche la differenza fra pace e guerra, e chi ne dubita provi solo a sollevare questioni scottanti, nelle zone colpite, nei circoli di paese, dove il sangue è sepolto, non cancellato. Allora, si capisce perché a Guido da Montefeltro che chiede «dimmi se i Romagnuoli han pace o guerra», Dante risponde sulla Romagna con un’osservazione dura che va bene per tutta l’Italia, e che andrebbe ripresa, il prossimo anno, centenario della fondazione dei Fasci di combattimento: «Non è, e non fu mai, / sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni, / ma ’n palese nessuna or vi lasciai». Amaro realismo: l’esule fiorentino è nell’inferno, il suo viaggio è cominciato da poche ore, ma non può escludere che ci sia già guerra dove ha lasciato la pace.
D’altra parte, l’illusione di una completa pacificazione, o come si usa dire di una riconciliazione, piace ai tedeschi, oltre che ai loro amici. Dopo la guerra, ci fu persino chi nei luoghi delle stragi ci venne in villeggiatura.
Ancora adesso, un sopravvissuto di Sant’Anna di Stazzema ricorda un tedesco che venne in vacanza, anni dopo, e ammise di aver partecipato all’immane massacro; l’assassino offrì diecimila lire a quell’uomo, per mettere fiori al monumento delle vittime. Il sopravvissuto fu sin troppo paziente: gli disse semplicemente di metterceli lui. Macroscopica scissione di coscienza, ecco un caso di tentativo di gestione delegata del rimorso: un rimorso sdentato, che non deve mordere. Sono stato io, ma tu prendi questi soldi, vai a comprare fiori.
Anche dell’SS Ludwig Stamm, si ricorda che nel 1954 tornò a Baveno, nello stesso albergo dove era stato col comando, durante la guerra e la repressione. Chissà quanti altri casi ci sono stati.
In Valdinievole ci sono ritorni, per nulla benvenuti. V.T., allora bambina di sei anni, nel 1944 perse la madre e due sorelle. Anche nel 1997 parla di quel turista speciale, dopo:
«Ritornò un capo dei tedeschi alla Grotta Giusti e dissero che era quello che dette ordine di spara’ in padule. S’andò una ventina di noi con la falce sotto il braccio, ma quando s’arrivò lassù ’un c’era più. E se si trovava, li si levava il capo da sulle spalle, la prima ero io! Dice che tornò e disse: “Eh, qui io ci sono stato…”, e insomma con le parole sue dette a capi’ che lui era il capo di quelli del fatto del padule. E allora sa’, nei piccoli paesi la voce corre. Subito si partì… Però non c’era più. Era venuto in vacanza a rivede’ i su’ posti delle su’, delle su’ bravure. Ma se si ’riva là e ci si trova, e li si fa la toelette!».
Questa storia non sembra un po’ esagerata? Invece è sottodimensionata. Al Grotta Giusti, allora come oggi un lussuoso albergo termale, nell’estate 1944 aveva alloggiato Kesselring. Nel dopoguerra, però, l’ospite dell’albergo non è né uno dei soldati materialmente colpevoli né il feldmaresciallo, ma un altro militare, qualcuno più in alto. Davvero molto in alto.
«Corriere della sera», 9 settembre 1964, Fa i bagni a Monsummano. L’ex ammiraglio Dönitz è in Toscana per curarsi:
«Il successore di Hitler nelle ultime ore del terzo Reich, ammiraglio Karl Dönitz, è dall’altro ieri in Toscana, a Monsummano Terme, nello stesso albergo che, prima della Liberazione, ospitò il quartier generale di Kesselring. L’ultima visita in Italia di Dönitz, di cui si è avuta notizia, risale al ’61, quando egli si recò a Livorno. Si è tuttavia appreso che Dönitz tutti gli anni ha trascorso lunghi periodi di riposo in Italia; ma dal ’61 ad oggi aveva sempre evitato che fosse resa nota la sua presenza. Dönitz, che ha 72 anni, sembra aver sopportato bene i dieci anni trascorsi nelle prigioni di Spandau, dove ha scontato la pena inflittagli dalla corte alleata di Norimberga. […] A Monsummano Terme egli è in compagnia di un nipote e di altre persone che si incaricano regolarmente di smentire ogni voce sul “vice-Hitler”. Nel ’61, a Livorno era in compagnia della moglie e fu ospite di un ex-ufficiale della marina italiana».
Amici fascisti italiani, viaggi in Italia, anche sulle orme di Kesselring, per motivi mai chiariti (ufficialmente: riposo, cure termali). Il tedesco che ricompare non può essere Dönitz mentre lui è detenuto, ma in seguito è lui; probabilmente ne viene più di uno. I padulini non fanno discorsi, cercano quell’uomo per fare i conti alla vecchia maniera. Lo credono coinvolto nella strage del Padule, ma almeno dal 1964 si tratta dell’erede di Hitler. Un po’ la cattiva sorte, un po’ la velocità delle chiacchiere di paese, un po’ il fatto che le vittime, invece, erano lente e appiedate: quella volta o era un soldato, o era l’ultimo capo del Reich millenario, di certo svanì.
Resta la questione del perché, della presenza dell’ammiraglio. La Germania non ha abbastanza terme, fra Bad Tölz e Baden-Baden? Forse la cosa va messa nel conto dei passaggi in Italia dei criminali nazisti, da Erich Priebke, dopo la sua liberazione dalla prigionia bellica e prima di essere estradato dall’Argentina nel 1995, a Adolf Eichmann, che soggiornò sull’Appennino emiliano, anche lui prima di raggiungere l’Argentina, fingendosi un ingegnere francese, per poi dileguarsi e lasciare sbigottiti i paesani quando lo rividero in televisione. Lo notarono, sullo schermo in bianco e nero dell’apparecchio pubblico, nell’osteria, come si usava. Al telegiornale si vede un uomo, fra le guardie, a Gerusalemme: «Ehi, hanno arrestato René!».
Malgrado grovigli di reticenze e di oblio, vent’anni dopo c’era chi ricordava bene, in Valdinievole, e prendeva posizione anche con schieramenti che oggi sembrano impensabili. «Corriere della sera», 18 settembre 1964, Volantini contro Dönitz lanciati a Monsummano:
«Alcuni giovani, in auto, hanno lanciato stasera lungo le strade della cittadina volantini ostili nei confronti dell’ex ammiraglio del Reich Karl Dönitz, in cura alle locali terme. Il testo del volantino è il seguente: “Nel nostro Paese si trova in villeggiatura un criminale nazista. Egli, assieme ad Hitler e ad altri fanatici, ha la pesante responsabilità di aver scatenato l’ultima guerra ed in nome della razza superiore operò con essi lo sterminio in massa del popolo ebraico. Il suo nome è Dönitz. Nel ventesimo anniversario della Resistenza, nel ricordo dei 185 trucidati nel Padule di Fucecchio dall’orda nazifascista, di cui egli era uno dei capi supremi, si leva alta la nostra voce di protesta richiedendo l’allontanamento di un tale ospite indesiderato”. Il volantino reca le seguenti firme: Associazione giovanile nuova resistenza, Federazione giovanile socialista, Federazione giovanile comunista, Movimento giovanile anarchico, Federazione giovanile Psiup, Federazione giovanile repubblicana».
Il Pci con gli anarchici, il Psiup coi mazziniani. L’impensabile può accadere, e vale per il bene come per il male.
Fu Dönitz a firmare la resa della Germania. Nel racconto Golia, di Beppe Fenoglio, un atletico prigioniero tedesco è convinto che Hitler non si arrenderà mai, e si fa beffe del suo custode ragazzino. In realtà la Germania si arrese, e nel racconto di Fenoglio il gigante è eliminato dal partigiano bimbetto, che non ha paura di sparare. Anche la battaglia per la giustizia sulle stragi, quindi per i risarcimenti, è in salita ma non è ferma: a giugno il Tribunale di Roma ha condannato la Germania per un caduto alle Fosse Ardeatine, un crimine trattato a Norimberga, proprio nello stesso processo in cui Dönitz ebbe la sua condanna.
«Di fùcili e mitraglie / il Padule fu accerchiato / dall’ìnfame canaglia / del tédesco spietato», ripeteva il cantastorie di Popolo se m’ascolti, mentre ce la metteva tutta per spezzare l’accerchiamento della cattiva memoria e dell’ingiustizia. A ciascuno il suo.