di Gioacchino Toni
«Non esiste idea più catastrofica di quella secondo la quale ci si deve sempre schierare con il proprio paese, che sia nel giusto o che sbagli, e che chiunque esiti ad aderire ai crimini commessi nel nome del patriottismo merita di essere punito» (Joyce Carol Oates)
A Garden of Earthly Delights (1967), Expensive People (1968), Them (1969) e Wonderland (1971) sono i romanzi che, tradotti e pubblicati nel 2017 da Il Saggiatore, compongono la tetralogia Wonderland Quartet dell’americana Joyce Carol Oates.
Quella della scrittrice è una produzione letteraria caratterizzata da frequenti cambi di registro narrativo: «I miei interessi hanno sempre oscillato tra il “mondo reale” e il “mondo surreale”. Ovvero, tra il mondo fatto di realtà navigabili e il mondo dominato dalla logica onirica. Non ho mai fatto distinzioni qualitative tra una dimensione e l’altra, anche perché non ho mai ragionato in termini di reale e fantastico. Per fare un esempio, nei racconti di Poe e nella letteratura gotica la virata verso il surreale è una diretta conseguenza dell’immersione nella coscienza di un individuo, e della decisione di privilegiare una narrazione in soggettiva rispetto a uno sguardo più distaccato e onnicomprensivo. In altre parole, la scelta tra “reale” e “surreale” è una diretta conseguenza del tipo di struttura narrativa che, di volta in volta, decido di privilegiare» (Intervista rilasciata a Luca Briasco, «Il Venerdì di Repubblica», 28 luglio 2017).
In Wonderland Quartet, cambiando più volte registro narrativo, così come ambientazione e contesto sociale, l’autrice costruisce una parabola sociale e morale degli Stati Uniti attraverso storie in cui le speranze e le ambizioni di alcuni individui vengono mandate in frantumi dalla falsità, dall’individualismo, dal cinismo e dalla violenza di una società davvero impietosa. Oates non si limita però a narrare storie di perdenti: racconta, piuttosto, di una società in cui, indipendentemente dal successo economico, moralmente non ci sono vincitori. Una società ipocrita, violenta e totalmente priva di sensibilità in cui non si salva nessuno. Una società fondata sulla violenza più crudele, sulla sopraffazione, sull’inganno e sull’individualismo non può che tramutare i propri sogni in incubi da cui risulta impossibile uscire senza mettere in discussione le fondamenta del sistema.
Joyce Carol Oates, Il giardino delle delizie, Il Saggiatore, Milano, 2017, pp. 520, € 21,00
Il giardino delle delizie narra l’America profonda, maschilista, rurale e proletaria degli anni Cinquanta e Sessanta. Un mondo in cui ci si spacca la schiena sul lavoro, di giorno, e il naso nelle bettole, di sera, dopo qualche bicchiere di troppo. Gli sterminati campi di segale avvolti dall’afa e illuminati da un sole accecante che fanno da sfondo alle vicende del romanzo non concedono davvero nulla al pittoresco. Clara, venuta al mondo in un canale di scolo, figlia di due braccianti in balia di un mondo che a loro concede solo guai e miseria, sin da adolescente sogna di poter fuggire da quell’ambiente misero, violento, apatico e privo di prospettive in cui si trova a crescere. Sogna amori idilliaci e ricchezza ma soprattutto Clara desidera andarsene e cambiare vita, disposta ad avventurarsi lungo strade sconosciute e in storie al buio: la relazione con Lewroy, che l’abbandonerà non appena restata incinta, poi la storia con il ricco Revere, che sembrava poterle garantire la tranquillità economica e con il figlio di questo, Swan, che si rivelerà un essere spregevole e violento. Per Clara la fuga si rivelerà inutile; l’infame destino da cui intendeva fuggire sembra ineludibile per la giovane donna e che si tratti del misero universo di quel violento ubriacone di Carleton, il padre, o di quella squallida figura di Swan, il degrado non muta. Soltanto sogni infranti e disillusioni, abusi e violenze. Il giardino delle delizie si rivela una dannata terra arida e desolata così come i personaggi che la popolano, da cui sembra davvero impossibile sfuggire per chi è nato tra i miserabili e non è in grado di sgomitare a sufficienza per soggiogare i suoi simili.
Joyce Carol Oates, I ricchi, Il Saggiatore, Milano, 2017, pp. 329, € 18,00
Le cose sembrano poi non cambiare granché nemmeno ne I ricchi, secondo capitolo dell’Epopea americana, in cui l’autrice, rispetto al romanzo precedente, narra di un altro spaccato sociale. Il naufragio dell’american dream viene qui messo in scena ricorrendo al registro della commedia nera che mostra impietosamente la maschera grottesca e violenta che si nasconde dietro ai colori pastello «e nessuno steccato bianco, nessun filo di perle, nessun cocktail party può nasconderlo: è il cuore nero e pulsante dell’America più irreprensibilmente wasp, l’America democratica e progressista, l’America di Kennedy e di Carter, l’America delle magnifiche sorti e progressive, l’America che cela, dietro le sue medaglie al valore, un volto sinistro». Un racconto acido e tagliente, dall’ironia straziante, costruito attorno a una villa del Midwest e alle figure di Natashya Romanov Everett e del figlio Richard, che si sente uno dei tanti personaggi a cui ha dato vita la madre nei suoi romanzi e che per certi versi è vittima del successo della donna. Una narrazione in cui l’intrecciarsi di realtà e finzione, di falsità e apparenza, lascia il lettore disorientato, proprio come accade ai protagonisti del racconto.
Joyce Carol Oates, Loro, Il Saggiatore, Milano, 2017, pp. 653, € 23,00
Il terzo romanzo del Wonderland Quartet, Loro, «riscrive il racconto epico dell’America spregiudicata e selvaggia, dalla Grande depressione fino alla sommossa di Detroit del 1967». Le storie di Loretta, Maureen e Jules, i protagonisti, sono raccontate ricorrendo a una crudele vena satirica capace di mostrare come il destino si accanisca nel trasformare anche i piccoli sogni in incubi senza possibilità di soluzione. Nell’America di fine anni Trenta un colpo di pistola mette fine alla vita di Bernie, l’amante clandestino di Loretta che porta in grembo Jules, il frutto di quel rapporto nascosto. A fare da sfondo alle vicende di quella che la stessa autrice ha definito «un’opera storica in forma narrativa», è «un’America patriarcale e sanguinolenta: le prostitute passeggiano davanti ai collegi cattolici, l’aria odora di polvere da sparo e temporali, i giovani crescono nell’ossessione del potere, delle macchine costose, del denaro facile». L’american dream è qui minacciato anche dallo spettro della guerra che si avvicina e Loretta e i figli Jules e Maureen si troveranno a doversi spostare continuamente in cerca di fortuna per finire poi travolti dal crimine e dalla violenza sullo sfondo di una Detroit grigia e dura. Il destino sembra davvero accanirsi nei confronti di questi poveri disgraziati: Loretta andrà incontro ad un nuovo fallimentare matrimonio, Maureen finirà in balia della prostituzione e della violenza più feroce, mentre Jules tenterà di trovare un’occasione di riscatto nell’intreccio tra politica e malaffare.
Joyce Carol Oates, Il paese delle meraviglie, Il Saggiatore, Milano, 2017, pp. 651, € 23,00
Il quarto volume della tetralogia, Il paese delle meraviglie, assume le forme del romanzo gotico per raccontare la trasformazione del sogno americano in incubo: «le ataviche colpe familiari che avvelenavano gli interni di Nathaniel Hawthorne sono, qui, quelle di un’intera nazione, che ha smarrito ogni innocenza, ogni grazia originaria». Il racconto ruota attorno Jesse che, dopo essere scampato da bambino dal massacro che ha sterminato la famiglia, divenuto uno stimato neurochirurgo, nel tentativo di riportare a casa la figlia fuggita in una inquietante comunità alternativa, finisce col fare i conti con il mostruoso che regna attorno a lui. Anche in questo caso non ci sarò alcun happy end; la salvezza della ragazza si trasformerà inevitabilmente in una vera e propria dannazione e, giunti a questa ultima storia, il giardino delle delizie sembra davvero aver lascito definitivamente il posto a «un soffocante paese delle meraviglie da cui nessuna Alice può fuggire. È il paradiso perduto. L’America di oggi».
In questo Wonderland Quartet Joyce Carol Oates non ha alcuna intenzione di fare sconti alla società americana in cui vive. Anzi. Nessuna indulgenza per un paese incapace persino di provare pietà per i vinti. Vinti che, a loro volta, non sempre possono essere considerati semplicemente vittime.