di Armando Lancellotti
Cecco Bellosi, Sotto l’ombra di un bel fiore. Il sogno infranto della Resistenza, Milieu edizioni, 2018, pp. 239, € 16,90
Il senso complessivo ed il messaggio principale del libro di Cecco Bellosi stanno entrambi già nel sottotitolo – Il sogno infranto della Resistenza – del suo romanzo – Sotto l’ombra di un bel fiore – e nella breve Introduzione, in cui l’autore espone ed argomenta il tema del tradimento della lotta partigiana, di una guerra cioè che, vittoriosa sulle montagne, nella campagne e nelle città italiane a nord della Linea Gustav e della Linea gotica, ha conosciuto poi una sostanziale sconfitta politica subito dopo il 25 aprile e la Liberazione del paese dal fascismo e dall’occupazione nazista.
Nelle considerazioni iniziali ed introduttive, così come in tutto il romanzo, risuona l’eco delle analisi di Claudio Pavone, tanto quelle che articolano la Resistenza sui tre piani della “guerra patriottica”, “di classe” e “civile” e che a inizio anni Novanta – all’uscita del suo Una guerra civile – hanno suscitato soprattutto a sinistra accese discussioni, poi ampiamente superate, quanto quelle che dettagliano lo scontro “civile” all’interno del Paese dall’8 settembre ’43 al 25 aprile ’45 come una contrapposizione tra la continuità con il passato e la rottura con esso, tra chi avrebbe desiderato mutare in profondità le strutture economico-sociali e la basi giuridico-politiche di un’Italia finalmente repubblicana che usciva dal ventennio fascista, dai suoi crimini e dalle sue guerre e coloro che, abbandonato il regime al suo ineluttabile destino, auspicavano una sostanziale continuità tra il vecchio e il nuovo Stato.
Per Cecco Bellosi, come per Pavone, la continuità con il passato fascista e la conservazione dello Stato pre-repubblicano hanno prevalso nettamente sulle istanze di rinnovamento e di trasformazione di cui il movimento partigiano si era fatto portavoce e per le quali aveva coraggiosamente combattuto. E perché sia successo questo lo si può spiegare con le stesse parole di Mussolini, che – riporta l’autore – aveva detto «per una volta non a torto: “Io non ho creato il fascismo, l’ho solo tratto dall’inconscio degli italiani”» (p.9).
In sostanza, per indiretta ed inconsapevole ammissione del suo duce, il fascismo sarebbe “l’autobiografia della nazione”, per dirla alla maniera di Piero Gobetti, la sintesi delle sue storiche malattie, che purtroppo non sono state sanate dal passaggio del Paese attraverso la lotta partigiana, ma si sono conservate per poi manifestarsi sotto diverso aspetto sintomatico nella storia repubblicana. Il fascismo – riflette Bellosi – «in sonno, ma mai estirpato, giace nel ventre molle della gente fino a quando gli apprendisti stregoni lo risvegliano», come può accadere ancora oggi in Italia, in «un Paese senza dignità e senza memoria» (p. 9).
E quello della memoria è uno dei grandi temi del romanzo di Cecco Bellosi, che ricostruisce e narra le vicende delle formazioni partigiane delle Brigate Garibaldi nell’area dell’Alto Lago di Como ed in particolare le cruciali giornate dei fatti di Dongo, dell’arresto e della fucilazione di Mussolini, dei gerarchi di Salò e della Petacci. E come spesso succede per i grandi eventi della storia, le molteplici versioni dell’accaduto non coincidono, talvolta addirittura divergono, talaltra si intrecciano e si confondono, soprattutto quando la memoria storica è in stretta correlazione con la narrazione politica che si vuole dare della realtà. Il libro che Cecco Bellosi scrive in forma di romanzo intende pertanto fornire un contributo alla ricostruzione dei fatti e delle vicende della Resistenza nella regione dell’Alto Lago di Como e lo fa partendo dalla ferma convinzione che siano soprattutto le memorie dirette, i racconti e le parole dei protagonisti a costituire il materiale più autentico con il quale ricostruire la cornice e il quadro del passato storico, per ovviare tanto alle storture di letture ideologicamente prevenute e tendenziose o semplicemente conformiste, quanto all’ufficialità cattedratica della storiografia accademica, rispetto alla quale Bellosi in più punti del libro tende a voler segnare le distanze. E forse eccessivamente, perché se è pur vero che il ricordo del vissuto di chi la storia l’ha fatta ha un valore prezioso, quasi inestimabile, è altresì evidente che il lavoro dello storico, per punto di osservazione, metodo di analisi e finalità di ricerca, sia e debba opportunamente essere altro dalla memoria diretta di chi fu attore di un evento storico, anche grande e di cruciale importanza come la lotta partigiana in Italia.
Sotto l’ombra di un bel fiore è un libro che si colloca in una posizione intermedia tra la narrazione e la ricerca storica: è un romanzo che per ricchezza di dati, per meticolosità di osservazione e ricostruzione dei fatti e per profondità di analisi assomiglia a un saggio di storia; ma un saggio reso coinvolgente ed avvincente dalla forma del romanzo in cui è scritto e dall’epica eroica delle vicende narrate.
La parte principale del libro è dedicata al ricordo e alla ricomposizione di momenti fondamentali della lotta partigiana attraverso le memorie e le conversazioni, ad anni di distanza dai fatti e quando ormai disillusione e frustrazione politiche si sono sostituite agli entusiasmi e alle speranze di un tempo, di due attori di quelle vicende: Pedro e Paolo. Pedro, ovvero Pier Francesco Luigi Bellini delle Stelle, nobile toscano, ma combattente con i comunisti della 52^ Brigata Garibaldi sulle montagne attorno al lago di Como e Paolo, nato a Como nel 1911, lavoratore emigrato in Svizzera come tipografo, antifascista, attivo negli ambienti del socialismo libertario italiano in Svizzera, rientrato in Italia dopo la Liberazione. I due in comune, oltre all’amicizia che li unisce, hanno soprattutto un obiettivo, quello di onorare la memoria, attraverso l’attenta ricostruzione dei fatti, di Luigi Canali, ovvero il partigiano comunista Neri – amico d’infanzia di Paolo e capitano della stessa 52^ Brigata Garibaldi in cui militava Pedro – uno dei leader della Resistenza nella regione di Como e protagonista sia delle convulse giornate che hanno portato alla cattura e alla fucilazione di Mussolini sia di un’oscura vicenda di cui tragicamente ed ingiustamente è rimasto vittima assieme a Gianna, ovvero Giuseppina Tuissi, staffetta della 52^ Brigata e compagna del capitano Neri.
Neri e Gianna, catturati dall’Ovra e torturati, dopo l’evasione del primo e la scarcerazione della seconda, sono sospettati, ingiustamente, dai loro stessi compagni e dal partito comunista di tradimento; reintegrati nella Resistenza, partecipano ai fatti di Dongo, ma nel frattempo il Tribunale popolare del Comando delle Brigate Garibaldi ha emanato per Neri una sentenza di morte. Essa verrà eseguita agli inizi di maggio e alla fine dello stesso mese anche Gianna finirà uccisa – come Neri – per mano dei suoi stessi compagni di militanza politica e di lotta partigiana. Bellosi ricostruisce nei minimi particolari l’insieme delle vicende, sia quelle relative alla fucilazione di Mussolini sia in particolare quelle riguardanti il caso di Neri e Gianna, avanza le proprie interpretazioni dei fatti e ricompone il quadro, molto intricato e ancora oggi per nulla chiaro, dei differenti punti di vista e delle letture di entrambi gli episodi.
Ciò che complessivamente emerge dalle riflessioni di Bellosi è che della Resistenza, delle sue pagine gloriose come di quelle meno limpide, fin da subito siano state elaborate narrazioni distorte e si sia fatto un uso politico sfavorevole alla Resistenza stessa, teso a gettare fango o comunque a screditare e a dimenticare velocemente l’impegno ed il sacrificio, le battaglie, le speranze e i progetti dei partigiani italiani. Scrive Bellosi: «Nella guerra di Liberazione, chi ha vinto ha perso, chi ha perso è tornato, chi è stato a guardare ha conservato il potere di sempre» (p. 48). E a dare il via a questa tragica e venefica eterogenesi dei fini è stata la cosiddetta “amnistia Togliatti”, che Bellosi considera attraverso lo stupore e l’indignazione di Pedro e Paolo, che assistono alla mortificante sconfitta dei loro ideali in un’Italia in cui i fascisti di un tempo, svestita la camicia nera, riprendono le loro posizioni di potere e comando come se nulla fosse accaduto. L’ennesima pagina – la più grave – di trasformismo politico italiano, di tradimento degli ideali resistenziali di rinnovamento politico e morale del Paese, di suicidio della memoria storica italiana.
Nel viaggio di Bellosi attraverso i venticinque anni successivi alla guerra che hanno visto seccarsi e disperdersi inesorabilmente i fertili semi gettati dalla lotta partigiana, segue il momento del processo di Padova del 1957, quello per il presunto furto dell’“oro di Dongo”: un procedimento giudiziario i cui fini politici – screditare complessivamente la lotta partigiana, insinuare la tesi della differenza tra una Resistenza buona e una cattiva (quella comunista), individuare facili capri espiatori – sono evidenti non solo per lo storico che studia le carte a distanza di tempo, ma lo erano anche per i contemporanei, soprattutto per i partigiani che dovevano subire l’ennesima onta del disconoscimento del loro operato.
Il libro si conclude con l’analisi di due momenti della storia italiana, milanese, apparentemente diversi e cronologicamente distanti quarant’anni, che Cecco Bellosi però collega alla luce dell’intuizione visionaria di Jorge Louis Borges, per cui «sono i posteri a creare gli antenati» (p. 212): la strage di Milano del 12 aprile 1928, in piazza Giulio Cesare, all’ingresso della Fiera Campionaria e in occasione del passaggio del convoglio reale, in cui morirono nell’immediato e nei giorni successivi venti persone e la strage di piazza Fontana, a Milano, del 12 dicembre 1969, con i suoi diciassette morti ed ottantotto feriti. Dei due tragici episodi il più noto è senz’altro il secondo, mentre di quello di novant’anni fa – forse il primo esempio di quello stragismo come arma politica di Stato che l’Italia repubblicana ha ampiamente conosciuto – si sa pochissimo. Quasi certamente furono ambienti dissidenti e frondisti del fascismo repubblicano milanese e apparati dello Stato e della Polizia, attraverso l’uso di infiltrati negli ambienti dell’antifascismo, soprattutto giellista, ad organizzare la strage. Un atto provocatorio poi ampiamente sfruttato, anche attraverso indagini depistanti, per accusare e screditare gli antifascisti, in Italia e all’estero, per perseguitare, arrestare, incarcerare e torturare centinaia di oppositori, in particolare comunisti, socialisti, anarchici, giellisti, repubblicani che finirono nelle grinfie del Tribunale speciale, dell’Ovra e della MVSN.
E proprio per questo, conclude Bellosi, si può dire che «Tra la strage di Piazza Giulio Cesare del 1928 e quella di Piazza Fontana corre il legame tra il passato remoto e il futuro anteriore, in cui il futuro anteriore è il modello del passato remoto» (p. 212). Insomma per comprendere più a fondo la strage di Piazza Giulio Cesare è utile partire da quella di Piazza Fontana di quarant’anni dopo. A conferma di quell’idea che attraversa tutto il romanzo di Cecco Bellosi, per cui il fascismo – nato nel 1919, salito al potere e divenuto regime per oltre un ventennio, caduto per ben due volte nel 1943 e nel 1945 e sconfitto dalla Resistenza – in realtà ha continuato in modo carsico ad attraversare la storia e la vita della nostra società e del nostro Paese, costituendo un paradigma politico di cui forse non abbiamo ancora concluso di conoscere tutte le possibili nefaste declinazioni.