di Giacomo Marchetti
Il movimento politico sociale sviluppatosi in Catalogna lo scorso autunno è stato uno dei momenti più alti del conflitto attuale in Unione Europea.
Il suo sviluppo ha mostrato il vero volto dello stato spagnolo ed ha reso evidente il mancato passaggio da un regime franchista ad una formazione statuale effettivamente post-franchista.
La sconfitta della mobilitazione per mano della reazione spagnola ha segnato il definitivo fallimento di una transizione democratica progressiva che aveva animato l’ottimismo delle forze social-democratiche “spagnoliste” dalla morte di Franco in poi ma di cui il carattere illusorio era sempre stato denunciato dalle sinistre indipendentiste e dalle forze rivoluzionarie iberiche.
Come sempre, si potrebbe dire, la storia procede per il suo lato cattivo…
L’output politico di questo aspro scontro di classe è stata una nuova “torsione autoritaria” e un “bilanciamento a destra” con, come pivot, una formazione populista come Ciudadanos che coniuga un orientamento fortemente reazionario (in particolare rispetto alla questione dell’indipendentismo) ad uno spiccato neo-liberismo.
Questo movimento ha reso evidente la capacità di protagonismo di una significativa porzione sociale ben oltre i perimetri della presa organizzativa specifica dell’indipendentismo catalano, in cui comunque le parti “più avanzate” e anagraficamente più giovani di questa compagine politica hanno avuto un ruolo rilevante in questo processo
Questa componente ha saputo portare contenuti e pratiche pregresse che nei picchi della mobilitazione si sono generalizzate ed è stata in grado di porre la questione della de-connessione della Catalogna dalla Spagna al centro dell’agenda politica, senza però – come riconosciuto dal bilancio fatto su quella esperienza – aver posto l’attenzione su come articolare materialmente lo sganciamento da Madrid.
Non è superfluo ricordare che la marea umana che ha invaso le strade catalane ha illustri precedenti che inquadrano il retroterra e l’orientamento di questa mobilitazione, che di fatto tutt’altro che focalizzatasi su un indipendentismo “chiuso” di matrice identitaria ripiegato su sé stesso: la mobilitazione di Barcellona (unica nel suo genere in Europa) per l’accoglienza dei profughi contro le politiche razziste del PP e quella successiva agli attentati jihadisti sulle Ramblas che ha di fatto annullato ogni tentativo di strumentalizzazione da destra dell’accaduto, senza tralasciare i vari movimenti sociali d’opposizione dallo sciopero globale femminista ai movimenti per il diritto all’abitare.
Questo movimento reale ha coagulato, seppure in un arco temporale circoscritto, un blocco sociale antagonista variegato che andava da una piccola borghesia radicalizzata sempre più stretta dalla crisi nella morsa della polarizzazione sociale, a parti di classe lavoratrice “tradizionale” – dai lavoratori portuali che si sono rifiutati di far sbarcare le navi con le “truppe d’occupazione” mandate da Madrid ai Vigili del Fuoco che hanno protetto i seggi dove si è svolto il referendum – fino ai settori di quel precariato sociale diffuso che hanno animato i “blocchi” durante gli scioperi generali e che hanno costantemente spinto alla mobilitazione, facendo una costante opera di pressing su chi, dal lato istituzionale, portava avanti questo processo, talvolta con notevoli tentennamenti.
In questo contesto l’organizzazione di stampo territoriale soprattutto a Barcellona ha offerto uno squarcio delle possibilità di sviluppare un substrato organizzativo funzionale alle esigenze del conflitto in ambito metropolitano ricco di suggestioni, al di là della specificità della “capitale” catalana e dell’involucro indipendentista che hanno assunto le principali rivendicazioni politico-sociali.
Quello che si è consumato in Catalogna è stato l’affossamento definitivo di un patto sociale con cui era stata governata questa porzione della penisola iberica da parte di attori politici che coniugavano insieme alla richiesta di un maggior margine d’azione rispetto a Madrid un orientamento neo-liberista, questa sepoltura è avvenuta da un lato a causa delle esigenze di ri-centralizzazione del processo decisionale da parte dello stato spagnolo e dall’altro dalla perdita di consenso di quei ceti direttamente interessati dalle politiche di austerity in salsa “autonomista”.
In sostanza la decennale crisi ha ridotto i margini di azione che Madrid aveva precedentemente concesso durante un ciclo economico espansivo “drogato” dall’intreccio tra speculazione edilizia, settore creditizio e rendita politica consolidata. Con la fine di questo artificioso “boom economico” che ha avuto conseguenze dirette disastrose sul corpo sociale su cui questa crisi è stata scaricata sono state polverizzate le possibilità di trattativa con il governo centrale su qualsiasi aspetto minimamente rilevante dell’agenda politica.
Contemporaneamente ha preso sempre più consistenza un sentimento popolare che vedeva nello “sganciamento” da Madrid una possibile exit strategy da questa situazione, anche in virtù del fatto che ogni avanzamento anche parziale su ogni piano veniva di fatto annullato dal governo centrale che nella sua strategia di pervicace arroccamento sulla propria rendita di posizione politica si appoggiava sulle parti più reazionarie e retrive del blocco sociale dominante.
La chiusura ad ogni possibilità di trattativa con il governo centrale e la militarizzazione imposta da Madrid hanno costituito una strategia conseguente all’annullamento di ogni ipotesi anche solo velatamente “riformista”, in cui la governance spagnola recupera l’ingombrante arsenale che la lotta di classe dall’alto dello Stato iberico non ha mai smantellato – tra cui un monarca “fuori tempo massimo”, le istanze più retrive del clero cattolico e il riemergere di una ideologia apertamente fascista – riconfigurato secondo le esigenze delle élites oligarchiche europee che governano a Bruxelles.
I limiti del processo di transizione appaiono evidenti quando i protagonisti politici, gli apparati dello stato e la configurazione di valori a cui gli uni e gli altri esplicitamente si rifacevano hanno mostrato come il sistema di potere iberico più che un profilo liber-democratico ha il volto della “democradura” come un famoso scrittore latino-americano definiva i regimi “post-dittatoriali” sud-americani.
Gli attori politici che governano la UE hanno legittimato in pieno un livello repressivo operato su diversi piani dalla Spagna, dal tentativo di impedire manu militari un referendum fino al “commissariamento” del governo catalano costretto all’esilio, dall’incarcerazione dei militanti delle organizzazioni sociali che hanno animato il movimento (tutt’ora in carcere), allo sdoganamento dell’estrema destra spagnola dichiaratamente fascista in funzione “anti-catalana”.
Questa prassi concertata tra Madrid e Bruxelles – la Spagna è un Paese strategico sia per l’UE che per l’Alleanza Atlantica – crea un precedente pericoloso per le sorti del conflitto di classe in tutto il continente e di fatto un innalzamento della soglia del livello repressivo che investe direttamente le forme residuali della democrazia rappresentativa se con un “colpo di mano” si esautora una rappresentanza politica eletta, o si nega la possibilità di esprimersi per via referendaria scatenando una offensiva a tutto campo che è andata dall’oscuramento dei siti che informavano sul referendum ad una tragicomica “caccia alla scheda” fino alle cariche di persone in fila per votare ad un seggio.
D’altro canto questo pronunciamento in favore della prassi di Madrid da parte della UE ha fatto mutare il “senso comune” di una popolazione facendola diventare euro-scettica come dimostrano i sondaggi dedicati a questo momento: la UE non è più certo percepita come l’ancora di salvezza dalla maggioranza dei catalani perché si è dimostrata una pesante camicia di forza ad il proprio anelito di libertà al pari di tutti gli attori politici istituzionali “spagnoli”, tra cui Podemos che ha dimostrato i suoi limiti strutturali di fronte alle istanze espresse da un movimento reale e di massa e la stessa inadeguatezza del movimento politico della sindaca di Barcellona Ada Colau.
In Italia le vicende catalane hanno avuto un colpevole deficit di attenzione e di capacità di lettura da parte sia di ciò che rimane della “vecchia sinistra” ex-istituzionale, sia delle varie componenti che animano il ceto politico residuale dell’antagonismo sociale, che quello strato non particolarmente cospicuo di intellettuali marxisti che non hanno gettato il cervello alle ortiche, mentre i settori più dinamici di “movimento” hanno colto per varie ragioni e con approcci differenti l’importanza di ciò che stava avvenendo e la necessità di interloquire con il movimento reale che stava animando le strade e le piazze catalane.
Quando poi il cono di luce dei media si è allontanato da quel quadrante e il movimento ha esaurito la sua forza propulsiva e sono iniziati il bilancio di ciò che era successo, con un pesante fardello repressivo che tuttora grava su quel contesto, quella parziale e fugace attenzione è praticamente sfumata e le questioni poste da quel movimento sono state velocemente rimosse dalla riflessione e dal dibattito.
Il volume: La Sfida Catalana. Cronaca di una rivoluzione incompiuta, scritto da Marco Santopadre e curato dal sottoscritto, pubblicato da Pgreco cerca di colmare questo deficit offrendo una riflessione più organica che partendo dalla minuziosa ricostruzione della cronaca di quei giorni evidenzi i nodi politici al centro della vicenda dentro una prospettiva storica di più ampio respiro che investe più piani d’indagine e che cerchi di fare una “fotografia in movimento” di ciò che è accaduto.
La Sfida Catalana parte dalla convinzione che lo studio di un movimento reale se storicamente collocato e compreso nella sua sperimentazione pratica di un processo di avanzamento politica non è una mera operazione intellettuale, ma uno stimolo per ripensare la propria pratica quotidiana e gli orizzonti che apre.