di Giovanni Iozzoli
Deve essere il 1982. E la luce indecifrabile è quella di una domenica pomeriggio di marzo. E siamo tutti seduti sui gradoni di cemento – 8000 cristiani e qualche cane – ad aspettare che abbia inizio l’evento culminante e conclusivo della settimana: Avellino-Ascoli (o Avellino Cagliari, boh! – comunque una partita di seconda o terza fascia, una di quelle che al Novantesimo minuto avrà l’onore del primo collegamento, il meno atteso, a inizio programma).
A proposito di Novantesimo: se avessi un binocolo, lì in curva, potrei vedere in sala stampa il faccione da tricheco premuroso di Luigi Necco, che è tornato da poco in giro dopo le pistolettate alle cosce. E se avessi un dispositivo ottico ancora più potente, salendo sull’ultimo gradone della curva – quello dove le sagome si stagliano nel lucore bluastro del cielo come se fossero ritagliate e appiccicate –, potrei contemplare le baraccopoli che sorgono ai quattro angoli della città: i campi prefabbricati, i container di lamiera, le roulotte e le coorti di botteghe-baracche che hanno sostituito i negozi nella zona commerciale. E se potessi salire su una mongolfiera e gettare lo sguardo ancora più lontano, potrei cogliere lo strazio polveroso e irredimibile dei borghi cancellati, dei paesi squartati, dei quartieri cancellati, dei montarozzi di macerie ovunque, che custodiscono i loro tristi segreti. L’Irpinia è un cimitero, un enorme bacino di raccolta corpi: quelli dei cadaveri propriamente tali, da poco sepolti senza pace, sotto stele e cippi improvvisati; e quelli dei sopravvissuti, che vagano come anime perse in mezzo a quello sventramento quotidiano, in attesa di indovinare un qualche futuro plausibile per le loro vite.
Lo stadio Partenio svolge la funzione di santuario per migliaia di devoti dimessi, che ogni 15 giorni si recano in pellegrinaggio in quel tempio laico della bestemmia: vengono dal centro cittadino, dalle periferie malurbanizzate che erano già brutte prima del sisma e immaginatevi dopo; scendono dai paesi più prossimi alla città ma anche da quelli del cratere, carichi di angosce, lutti, disagi da tempo di guerra, allo scopo di celebrare un rituale che li illuda per tre ore – solo tre orette – che tutto presto riprenderà, le case risorgeranno, gli storpi cammineranno e i morti torneranno a nuova vita. Ma non è solo l’Irpinia squassata, è tutta l’Italia che è un paese duro, difficile da cavalcare. A Palermo e a Napoli le guerre di mafia stanno lasciando sul selciato centinaia di morti – il mercato nazionale dell’eroina è l’unico che tira forte e noi impariamo a districarci nel caos della nostra libanizzazione: drusi, maroniti, cutoliani e corleonesi…
Gli ultimi fuochi della guerriglia italiana si vanno spegnendo come lampi lontani all’orizzonte, mestamente, colonna dopo colonna.
I politici, poi, non ne parliamo: sono gente pericolosa, senza scrupoli, avvezza alle trame della guerra fredda, all’omicidio, alla strage, al ladrocinio sistemico – però hanno lauree, lignaggi ed eloquio, che gli attuali analfabeti di governo non si sognano neanche.
Sta piombando su tutto e tutti quella cappa che poi avrei imparato chiamarsi “riflusso”, con il prefisso post appiccicato a ogni resa.
Anche nelle nostre contrade, un tempo tranquille – quasi bucoliche – si muore con disinvoltura: attentati, overdose, omicidi bianchi in serie, dentro cantieri totalmente fuori controllo. La forza lavoro è tanta, giovane, disponibile, sovrabbondante. Tra poco aprirà il mattatoio dell’Isochimica – esempio quasi didascalico di colonialismo interno contro i ragazzi irpini, mandati al macello a mani nude, a rimuovere l’amianto dai vagoni ferroviari che nel nord Italia il personale FS ha saggiamente rifiutato di trattare. Invaso di manodopera e discarica globale, questo. Siamo nel 1982.
Forse anche per via di questo clima plumbeo e pericoloso, il calcio è diventato una roba maledettamente seria, giù in città. Antonio Sibilia non è ancora stato arrestato, troneggia a bordo campo insultando e minacciando, come suo solito. Tra qualche mese finirà in galera insieme a Enzo Tortora e altre 856 persone di varia umanità (tra cui il mio odiato professore di religione, cappellano delle carceri, più un paio di monache in offerta speciale). Ma noi all’epoca non possiamo prevederlo e non stiamo a preoccuparci: il fatto che abbia portato Juary in udienza in tribunale, a omaggiare Cutolo è un dettaglio di colore. Chi potrebbe osare la messa in discussione di quel giocattolino artigianale che è l’US Avellino – il miracolo della permanenza in serie A nel posto più scassato e disastrato d’Italia?
Io faccio parte di quel gregge anonimo e belante che ritrova un entusiasmo posticcio per quelle due o tre ore dell’evento sportivo. Ho solo 15 anni ma ho già le mie belle rogne. Non mi piace il posto in cui vivo, trovo insopportabile tutto quello squallore rassegnato – ma non so spiegare bene perché. La mia città è smozzicata, come se un lucertolone gigante l’avesse attraversata tirando codate capricciose e azzannando qua e là palazzi e casarelle. Detesto la mia scuola, che infatti vedo molto poco: per i registri risultiamo sempre latitanti o irreperibili; quando siamo lì dentro rilasciamo bigattini nei cessi per renderli inagibili, o programmiamo macchinose telefonate anonime per far chiudere la scuola; una certa indulgenza post-terremoto si protrarrà almeno per un altro paio d’anni e solo questo clima permissivo consentirà a noi caproni, anno dopo anno, di avvicinarci a un qualche immeritatissimo diploma.
Insomma, il contesto è quello giusto per vivere con disagio il mio ingresso ufficiale nell’adolescenza; l’unico antidoto alla depressione collettiva sembra nascosto, come un’essenza segreta, tra le gradinate sbrecciate del Partenio.
Mi guardo intorno, in Curva Sud. Manca poco, eppure non c’è nessuna agitazione visibile. L’atmosfera è ovattata. O meglio, si avverte una specie di fremito silenzioso, interno, sottotraccia. Di solito noi ragazzotti, tutti vestiti in modo precario (prevale il terribile azzurrognolo del Piumone Zamberletti), sputiamo, urliamo, ci tiriamo schiaffoni nel cuzzetto e palline di carta di giornale – dobbiamo far calare l’adrenalina prepartita e ingannare l’attesa, che nei match importanti può protrarsi anche di diverse ore.
Quella domenica no. Il clima è speciale. L’aria è immota. La luce è un liquido amniotico che produce una specie di consapevolezza vibrante. Tutti e 8000 sembriamo sospesi, collocati in una condizione vuota e soprannaturale. Non sento sbraitare, anzi, quasi nessuno parla – solo l’impianto audio continua a propinare musica a casaccio che nessuno ascolta.
Sembra il preludio di qualcosa – un evento, una rivelazione – e non c’entra con il clima prepartita, che era fin dal principio blando e pigro.
È come se fossimo stati convocati tutti là, in quel pomeriggio domenicale, per ricevere una iniziazione misteriosa. Anche se sono un ragazzetto, queste sensazioni mi sono chiarissime e me le ricordo nitidamente ancora oggi. Il verde chiazzato del prato assorbe luce senza rifletterla. I padri di famiglia stanno fermi, con la sigaretta in bocca, a cercare di afferrare un pensiero preciso a cui legarsi; nessuno guarda il campo o il tunnel prezioso, gli sguardi sembrano smarriti nel vuoto, assorti, accigliati, forse pronti alla meraviglia. Il sottofondo musicale anonimo continua ad accompagnare quella quiete innaturale. Il Partenio è un vascello fantasma sganciato dal mondo.
All’improvviso, dagli altoparlanti Pierangelo Bertoli irrompe con “So che sembra facile” – solo voce e pianoforte. So che sembra facile. E mi entra in vena fortissimo e non capisco perché. Ho voglia di piangere, forse tutti gli 8000 stanno per scoppiare nel pianto sommesso della brava gente. Cosa vuole quel cantante in carrozzella, che ci tortura così, con quella voce lugubre che ci scava dentro? Cosa vuole questa luce opaca che congela il tempo e non lo lascia fluire, cosa vuole Dio, da questa massa sbrindellata, più o meno povera e sottomessa: perché ci sta sottoponendo alla tortura della consapevolezza, prima del fischio d’inizio di Avellino-Ascoli? Mi afferra una nostalgia struggente (ma ho solo quindici anni, per Dio!), nostalgia di ciò che non ho vissuto e mai vivrò, nostalgia di nobili altezze, di elevazione, di ascesi, di una vita densa, generosa, eroica, che vorrei fosse già lì, pronta, squadernata davanti ai miei 15 anni, ma che intuisco lontana distanze siderali. Lo so, lo sento che tutti loro stanno provando il medesimo nodo alla gola e al cuore. Tutti vorrebbero liberarsi del loro peccato originale, delle loro meschinità, delle limitatezze in cui la loro esistenza li ha confinati e schiacciati. Vorrei qualcosa dalla vita e non so dare un nome a questa cosa. Mi mancano le parole. I bagliori di rivolta ai quattro angoli del mondo che senti nei telegiornali, l’idea di infilarti dentro la Storia senza mai (che beffa) averla studiata. E la parola Ricostruzione che senti invocare mille volte al giorno, nella fantasia di un adolescente diventa impresa epica, cosmica, di rigenerazione antropologica. Sto per piangere, mi giro affinché Cucciniello non mi veda, ma dall’altra parte c’è Ciccio che mi sta guardando e devo coprirmi gli occhi – mentre Bertoli picchia dolcemente – preferisco fingere che tu mi capirai – e vorrei dirlo anche a loro: ma non sentite niente, ma non riusciamo a trattenere per sempre questo sublime nulla che ci balla in corpo?
All’improvviso una voce divina, la Voce del Sinai, la voce della Montagna:
PER UNA VITA LUNGA E SANA, MANGIATE PASTA LA MOLISANA!
È il primo avviso, tra pochi istanti scenderanno in campo le squadre.
L’incantesimo inizia a rompersi. La gente ricomincia a borbottare, guardarsi intorno, stiracchiarsi, ruttare. Solo io resto immobile, nel mio minuscolo angolino di Curva Sud, a contemplare quel che resta nell’aria di quella malia. I ruminanti tirano fuori noccioline, lupini e Caffè Borghetti, qualche mentecatto si mette a urlare, per trascinarsi dietro gli altri e incitarli alla contesa contro il nemico ascolano. Io vorrei invece che tutto si fermasse. Bertoli in sottofondo non si sente più. Il cielo e la luce hanno ripreso la loro colorazione consueta. No, vi prego. Ci stavo arrivando. Stavo afferrando quella cosa. Due petardi pigri scoppiano in pista, come echi di una guerricciuola che sta finendo. Due o tre fumogeni, puzza, coriandoli, fischietti – bisogna tornare al proprio dovere.
ATTENZIONE ATTENZIONE: OGGI SI BEVE ARNONE!
LA FIAT PARTENAUTO E’ LIETA DI OFFRIRVI LE FORMAZIONI.
La zucca pelata di Di Somma emerge dalla caverna platonica, lo stendardino dei colori sociali in mano e la fascia di capitano bianca con al seguito gli altri della banda che si guardano intorno, accennano qualche passettino di corsa e qualche torsione laterale in movimento. Da quello stesso tunnel avevo visto in passato uscire tante volte Luis Vinicio De Menezes caracollante con la sua sciatica e le mani in tasca, quasi a chiedersi come avesse fatto a finire lì, nel buco del culo del calcio.
La quinta, o sesta, o decima dimensione – quello che era – si è richiusa. Siamo ripiombati tutti e ottomila nel panem et circenses che è la nostra vita quotidiana. Domani dovremo assolutamente inventarci qualcosa per non andare a scuola. La telefonata della bomba non funziona più, il preside lo sa che siamo noi.
P.S. Ho rivissuto qualche altra volta, in età adulta, quella speciale sensazione. Raramente.
Non sono mai riuscito a decifrarla, farla mia. L’unica cosa che so, è che ogni tanto tutto si sospende. Poi ritorna.