di Dario Clemente e Hernán Ouviña
[La svolta autoritaria in Italia, la politica europea, Gramsci, Fanon, il femminismo e le esperienze latinoamericane]
LA SVOLTA AUTORITARIA IN ITALIA
In Italia si è formato da poco un governo trainato da un partito “populista” e un partito di estrema destra che strizza l’occhio ai nuovi fascismi e nazionalismi europei, un governo anti-immigrati, ostile ai diritti LGBITQ. “Populismo” e “fascismo” sono elementi dicotomici o sono compatibili, arrivando persino a potersi articolare e fondere tra loro in uno stesso progetto politico reazionario?
Purtroppo nella declinazione italiana del termine si, infatti una difficolta che abbiamo avuto, anche nel parlare con compagni è spiegare cosa noi intendiamo per populismo. E abbiamo appunto dovuto richiamarci al modello sudamericano, perché in Italia e in Europa la parola populismo richiama più facilmente la destra che la sinistra, quindi in realtà si, questa conciliazione è possibile. Io credo che bisogna fare un ragionamento sulla questione dell’avanzata delle destre e del populismo di destra in Italia che vada oltre alla figura di Salvini. Salvini è un leader molto pericoloso perché a differenza della rappresentazione che spesso se ne dà, lui è riuscito ad attuare una strategia, che è una strategia tipica dei movimenti di estrema destra in Italia. Si tratta di un doppio livello, quindi un livello molto violento, le ronde contro gli immigrati e per controllare “l’ordine e la pulizia” nelle loro città e poi un livello istituzionale. Io credo che la parola giusta per definire questa situazione in Italia sia il ritorno ad un forte autoritarismo. L’impressione è che ci sia una grande disaffezione rispetto alla democrazia, e alla partecipazione, e che si voglia, di fronte ad una crisi che è molto forte, semplicemente qualcuno che risolva tutto. Quindi in questo senso è una forma di fascismo, di autoritarismo classica. Il grande rischio è che pero, proprio come Salvini e Di Maio sono una risposta netta a ciò che c’era prima, quindi al cosiddetto centrosinistra, è che loro restino al potere proprio perché vengono percepiti come elementi di rottura, quando non lo sono affatto. Come formazioni che vogliono tutelare le classi popolari, quando non lo sono affatto. L’altro rischio è che si pensi che l’unica alternativa a questa destra populista sia un centrosinistra che ormai ha svenduto completamente i diritti dei lavoratori, il welfare state, etc.
Non ci sono secondo te differenze importanti tra questo governo e l’anteriore?
L’unica differenza che io intravedo tra queste due formazioni è forse sui diritti civili. Non tanto il razzismo ma i diritti civili. Riguardo al razzismo Salvini è più diretto, più volgare, ma al tempo stesso ha fatto i complimenti al precedente ministro dell’interno, Marco Minniti, del Partito Democratico, dicendo che ha fatto un ottimo lavoro sulla questione degli sbarchi e dei migranti che arrivano in Italia. Dunque si è posto in continuità con quelle politiche. La questione del razzismo credo che si debba vedere su un doppio livello. Sul livello delle esternazioni certamente Salvini è più diretto, è più rozzo, è più volgare. Sul livello della messa in pratica delle politiche dobbiamo dire che il precedente governo è stato molto razzista e molto di destra nella gestione della questione migranti. Quello che un po’ fa la differenza, e certamente non è una questione da poco, è la questione dei diritti civili, perché Fontana, che è l’attuale ministro della famiglia, è una persona che ha un curriculum terribile da questo punto di vista e che è stato molto chiaro fin da subito. Rispetto al fatto che per lui le famiglie omosessuali non esistono, che le persone omosessuali sono deviate, che le donne devono fare figli per risolvere il problema della natalità in Italia, quindi è veramente medioevale. Ma io credo che il problema è che i governi precedenti nella forma sono stati molto meno diretti, molto meno violenti, ma nei fatti hanno fatto molto poco per le donne. Io vedo la differenza, ma è più una differenza nei linguaggi, nella propaganda, che nella concretezza, almeno al momento. Sicuramente anche i linguaggi e la propaganda sono importanti perché sono quelli che creano il senso comune, il modo di pensare in una nazione, quindi non sono da sottovalutare.
Nei primi giorni del nuovo governo girava molto la frase di Gramsci che dice che il fascismo si presento come l’antipartito, che voleva fare pulizia in parlamento e poi ha finito per dare il via a una dittatura sanguinaria…
Anche il fascismo storico, intendo quello del ventennio, di Mussolini, nasce, già dal nome, da un movimento che è quello dei fasci siciliani, un movimento populista, che aveva anche dei tratti socialisti. Quindi che il fascismo si sia sempre servito di maschere differenti per presentarsi, non è una questione legata a Salvini o all’autoritarismo generale che questo governo esprime, è una questione che riguarda il fascismo come forma storica in Italia. Il fascismo viene dai movimenti socialisti, è la trasformazione di quei simboli, quindi in qualche modo è sempre stato camaleontico, è sempre stato qualcosa che si trasformava, quindi chi dice che Salvini non è fascista perché non ha la camicia nera credo che non conosca bene la forma storica del fascismo in Italia.
Io non sono pero ovviamente contro il partito cosi, come una forma astratta. Salvini o Di Maio non hanno fatto un colpo di stato. Il grande problema sono stati i partiti che venivano prima e che hanno completamente disaffezionato e allontanato le persone dalla politica, facendosi odiare, ma non solo perché rubavano o perché erano corrotti o moralmente scorretti, ma perché hanno materialmente dimenticato le condizioni concrete delle persone.
Sia la Lega che il Movimento 5 stelle hanno fondato parte del loro successo elettorale su una critica serrata all’euro e alle istituzioni europee e la nomina di un ministro della economia anti-euro è stata al centro di un caso, mettendo a rischio la conformazione del governo a causa della contrarietà del presidente della repubblica. In qualche modo questa ostilità all’Unione Europea dell’austerity neoliberale sembra essere un “nucleo di buon senso” diffuso nella popolazione. Dopo l’instaurazione di questo governo di destra, qual è la strada per una formazione anticapitalista e antifascista senza rappresentanti in parlamento? Come articolare un blocco ampio di opposizione nella società? Si può pensare che “l’inciucio” dei 5 stelle liberi spazio a sinistra?
Sarei contenta se fosse cosi. La crisi istituzionale riguardava la nomina del ministro Savona, che poi è stato spostato ad un altro dicastero. Sono usciti dei sondaggi poco dopo in cui la flessione dei 5stelle era molto poca, minima, e c’era crescita della Lega. Io non so se i 5 stelle con questo patto con la Lega abbiano perso molto consenso tra gli elettori. La mia impressione, è che non sia cosi, perché gli elettori li avevano votati più che per il loro programma, e quindi per il loro orientamento, per un voto di protesta, e quindi di cambiamento. E infatti il ritornello che si sente continuamente è “lasciamoli lavorare”, “vediamo cosa fanno”. E a nulla vale dire: “sì, ma hanno già fatto un contratto, già sappiamo cosa vogliono fare, non sappiamo quando lo faranno, come lo faranno ma sappiamo qual l’orizzonte”. E’ inutile, perché le persone purtroppo ti rispondono “No, lasciamoli lavorare, perché quelli di prima erano peggio”. E’ un po’ questo il meccanismo. In più, l’antieuropeismo è effettivamente un sentimento che nella popolazione c’è, forse non in una forma consapevole ed elaborata politicamente ma c’è. E dunque, venendo a quelli che penso che debbano essere i compiti di una opposizione, fuori dal parlamento, perché siamo fuori dal parlamento e dentro il parlamento opposizione non c’è in questo momento, sicuramente ritradurre in chiave differente questo antieuropeismo può essere importante. Sicuramente bisogna iniziare a far capire che si è diversi, che si è avversari di quelli di prima, del PD, esattamente e radicalmente come lo si è di Salvini e di Di Maio, perché l’altra cosa che tutti dicono è “allora voi volete il PD”, che in questo momento in Italia significa “volete l’Europa”. Lo scontro istituzionale che c’è stato con Mattarella è stato anche questo, c’è stato uno scontro tra Europa-mercati e il governo che si andava formando. E’ per questo che ha di fatto rafforzato la Lega, che rappresentava la punta più avanzata in termini di esposizione di quel governo. Le persone hanno visto in qualche modo questa come intromissione e soprattutto un ritorno di quelli che loro considerano i “poteri forti” europei etc. Senza vedere che in realtà l’antieuropeismo sbandierato in maniera più o meno palese da Salvini e da Di Maio, devo dire da Di Maio molto meno, in realtà non ha niente a che vedere con la ridistribuzione della ricchezza, con l’aiuto alle classi popolari, ma è semplicemente uno strumento di propaganda. Faccio un esempio banale, Salvini sta parlando da giorni di come ridistribuire i soldi dati dall’Unione Europea all’Italia per l’accoglienza, ma in realtà a questi soldi non si può cambiare destinazione. Sono bugie continue, ma le persone sono talmente stanche, talmente arrabbiate che non colgono nemmeno queste contraddizioni.
Secondo te i 5stelle non hanno perso consenso.
No, pochissimi punti di calo a fronte di un contratto di governo con la Lega, un governo nel quale per giunta c’è una forte sproporzione verso la Lega nonostante il movimento abbia ricevuto il doppio dei voti. La Lega ha 6 ministri contro 7 e ministri più “pesanti”. Nonostante tutto questo non mi sembra ci sia un grande rifiuto da parte dei loro elettori. Ci sono stati consiglieri a livello locale che sono usciti dal m5s dopo il patto con la Lega ma si contano sulle dita di una mano. Quindi non c’è grande dissenso perché prevale il ragionamento dell’aspettiamo e vediamo cosa succede. Il m5s è il trionfo dell’antipolitica, quindi non è importante con chi sia alleato, se riesce a fare le cose che dice di voler fare va bene lo stesso, ma evidentemente è una contraddizione in termini perché con la Lega è difficile che tu possa fare dei provvedimenti che siano popolari e progressisti.
Altrove hai detto che la questione meridionale esiste ancora ma che non bisogna leggerla come passività delle masse e dei movimenti nel meridione, anzi, che sotto il punto di vista di laboratorio politico mostra più vitalità che il nord. Nelle recenti elezioni il centrodestra, e in particolare la Lega, ha dilagato in tutto il centro-nord, mentre il sud ha votato compattamente M5S. Il sud sarà la tomba del fascismo?
Mah, diciamo che non mi fa così contenta il fatto che abbiano votato i 5 stelle… avrei preferito altro. No, al di là degli scherzi, io penso che al sud, semplicemente, tutte le contraddizioni si sentono più forti. Arrivano giù dirette, mentre invece casomai al nord siccome c’era ancora un pochino di margine rispetto alla crisi da un punto di vista economico, si sono sentite in maniera meno forte. Quindi quando io dico che si può ripartire dal sud, è perché in un certo senso il sud è il posto più sfruttato e contemporaneamente quello che negli ultimi anni ha avuto un riscatto da un punto di vista politico. Rispetto al risultato elettorale, rispetto alla Lega, io non riesco ad essere poi troppo contenta, nel senso che è evidente che la Lega al sud non è andata poi così bene, ma è andata fin troppo bene comunque. Perché questi qua sono quelli che fino a pochi anni fa dicevano che noi eravamo…non so, che puzzavamo, che avevamo il colera, quindi il fatto stesso che qualcuno li abbia votati e’ comunque troppo significativo per dire che il sud può essere barriera rispetto al fascismo. Penso che al sud è leggermente meno forte l’intolleranza razziale. Questa e’ la mia impressione. Però la Lega ha più presa al nord, ha potuto lavorare per più anni. Però insomma non sarei così contenta, perché mi sembra comunque un risultato abbastanza negativo.
Il risultato del voto ci restituisce un’immagine di fortissima polarizzazione territoriale…
Forse la situazione di polarizzazione non è mai stata chiara come oggi. Però io ti rigiro il discorso e ti dico che hanno vinto alla fine due forze che sono molto simili, soltanto che una al Sud era praticamente invotabile. Sono molto simili nella funzione che avevano, non tanto o non solo nei programmi. Una funzione che era prima di tutto fare pulizia, cioè buttare giù tutto quello che c’era prima. Questo è stato un voto che ha voluto punire fortemente i partiti tradizionali, il PD, Forza Italia. Infatti sono andati molto male. E che ha premiato quindi le forze che si presentavano come nuove. Ovviamente al sud premiare la Lega risulta ancora un po’ indigesto, perché tu ce li hai ancora nelle orecchie i cori dei leghisti, e quindi si e’ optato per il cinque stelle. Non sono solo queste le ragioni, è una semplificazione la mia. Però secondo me sta lì la faccenda, e in più c’è questo elemento per cui la Lega al nord lavorava da tanti e tanti anni, quindi ha un radicamento differente e credo che il tema del razzismo al nord ha avuto un po’ più presa.
L’articolazione di un blocco di opposizione dev’essere più nel parlamento o nella società in questo momento?
Dev’essere dappertutto, ma in questo momento in parlamento non c’è, perché in questo momento il parlamento è ammutolito di fronte a questo governo, sono ammutoliti tutti. Il PD, altri…addirittura la Meloni, che è di Fratelli D’Italia, un partito molto lontano da me, si dice disposta a governare con loro. Quindi chi sarebbe questa opposizione, chi dovrebbe farla, Berlusconi? L’opposizione in questo momento è oggettivamente solo fuori, non è un discorso di opportunità o meno, è solo fuori perché dentro non c’è, e credo che si debba fare riprendendosi le piazze, tornando sui posti di lavoro, ricostruendo quello che in questi anni si è perduto, cioè il contatto con quella base che Salvini e Di Maio hanno saputo conquistare. Noi siamo già scesi in piazza a Roma con il sindacato Usb contro il governo.
LA CRISI IN SPAGNA E LE PROSPETTIVE DI PODEMOS: BISOGNA STARE ATTENTI A NON MISCHIARE L’ACQUA CON IL VINO
Alcune settimane fa si è generato un dibattito pubblico, ma anche interno a Podemos, a seguito dell’acquisto da parte di Pablo Iglesias e Irene Montero, di una casa del valore di 600 mila euro. Al di là dell’intenzione deliberata dei media egemonici di usare questa notizia per screditare l’organizzazione, bisogna rilevare che c’è stata un’accesa discussione e un certo malcontento nell’attivismo di sinistra e nelle persone che avevano sostenuto Podemos e che oggi sembrano sentirsi ingannate. A tal punto che è stato deciso di sottoporre a referendum la continuità di entrambi i dirigenti nei loro ruoli. Cosa pensi di questa situazione e in quale misura, al di là di questo caso specifico, pone un dilemma o una tensione caratteristici dei progetti di emancipazione e della coerenza in termini etici da parte di coloro che li guidano?
Ho due idee rispetto a questa questione. Intanto è evidente che c’è una richiesta forte, e questo mi sembra un segno del populismo aldilà delle sfumature che possiamo dare, a volte anche radicalmente opposte, a quel termine, una richiesta forte di immedesimazione. Qual è il problema nel momento in cui Iglesias e la Montero comprano una casa costosa, evidentemente non è un problema di carattere formale, legale, hanno diritto a comprare quello che gli pare. Non è questo che gli viene criticato. Cos’è che gli viene criticato? Gli viene criticato il fatto che non c’è più un legame con il loro elettorato, e come se la loro condizione, cambiando, spezzasse in qualche modo questo legame. E i loro elettori, la base di Podemos, può essersi sentita ingannata da questa interruzione del legame. Io pero credo che questo ragionamento sia un po’ pericoloso, nel senso che ritengo che sia importante la coerenza e che la morale non sia estranea alla politica, sono due cose che sono necessariamente intrecciate. Al tempo stesso mi preoccupa l’idea di questa immedesimazione con la vita privata delle persone. Certamente quando si tratta di una casa costosa posso comprenderlo di più, ma mi sembra che l’eccesso di leaderismo che è l’altra faccia dell’immedesimazione, e la pretesa che il leader ci assomigli, anche nelle scelte personali, sia qualcosa di pericoloso. Quindi io credo che Podemos abbia fatto bene a sottomettere a referendum questa scelta, perché loro hanno chiesto ai loro aderenti se i dirigenti si dovessero dimettere. Credo che abbiano fatto bene a vagliare il sentimento della base perché non va ignorato, pero credo che non bisogna eccedere in questa immedesimazione, perché il rischio è che piuttosto che le scelte politiche prevalga l’esempio o la retta via presa da un leader, che è un elemento importante ma non è tutto. Io posso fare un esempio di area sudamericana. Credo che Pepe Mujica sia oggettivamente considerato in Uruguay un personaggio difficilmente attaccabile da un punto di vista della condotta di vita, non è certamente uno che va a cene importanti, o che ha macchine, una villa, un attico, una piscina. Ma quello che a me interessa sono i provvedimenti che lui ha preso in questi anni di governo, e mi sembra che ci sia una sproporzione rispetto all’attenzione alla sua vita privata, che sarà certamente candida e intoccabile, e i provvedimenti che lui ha preso. Faccio un esempio al rovescio, quando si attacca Salvini perché avrebbe speso moltissimi soldi per una cena con Marine LePen, se lo si attacca perché ha abusato di soldi pubblici è giusto, ma se lo si attacca perché ha speso molto, per il lusso di quella cena, tanto che i giornali riportavano quante bottiglie di champagne erano state stappate o quanti piatti prelibati si erano mangiati, a me sembra un modo per attaccare un avversario politico ma anche un modo sbagliato, che non va a fondo della questione. Perché noi possiamo trovare un santo, che pero è di destra e massacra le classi popolari. Quindi vedo un elemento che può far perdere di immedesimazione nella questione dell’acquisto della casa, pero io credo che bisogna stare attenti a pesare i leader politici soltanto sulla scelta morale. La scelta morale è importante ma non è tutto, se no il problema di Salvini sarebbe che vino beve, ed io invece non penso sia questo.
Sulla stessa linea volevamo chiederti un’opinione sulla recente mozione di censura che ha destituito Mariano Rajoy in Spagna e permesso di creare il governo del PSOE con Pedro Sanchez come nuovo presidente, e con alcuni settori di Podemos possibilisti rispetto alla possibilità di fornire potenziali ministri al nuovo gabinetto. Questo ci ha fatto ricordare il dibattito scatenato all’inizio del XX secolo dall’ingresso di Millerand (Partito Socialista) al governo in Francia, contro il quale Rosa Luxemburg espresse il suo dissenso affermando che in tali situazioni “il governo borghese non si trasforma in un governo socialista, ma un socialista si trasforma in un ministro borghese”, dal momento che mentre in Parlamento “si possono ottenere riforme utili a combattere contro il governo borghese”, un governo di questo tipo, più che una conquista parziale dello stato da parte dei socialisti, vi è invece una conquista parziale della direzione socialista da parte dello stato borghese. Qual è la tua lettura al riguardo?
Intanto penso che la notizia che Rajoy venga destituito è una notizia che penso ci possa solo far gioire, perché comunque è un leader conservatore e reazionario, un nemico delle classi popolari, quindi se se ne va a quel paese io sono solo contenta. Detto questo, io credo che il gran problema sono le prospettive che si aprono. Io non credo che Podemos stia guardando al PSOE come un agente rivoluzionario. Non credo che si illuda di questo, ne penso che la possibilità per Podemos di accedere a dei ministeri in questo governo significhi per lavoro accedere a delle leve di potere che portino alla rivoluzione. Credo che loro non si illudano di questo. Mentre facevi la domanda, mi è venuta in mente un’immagine, di Brecht, che mi piace molto. Nel Me-ti, il “libro delle mutazioni”, affronta il tema dei compromessi attraverso Lenin. Come si fa a gestire i compromessi? Perché il problema del governo col PSOE sicuramente è il problema della relazione col compromesso, cioè qual è il compromesso che ti fa avanzare, che ti fa strappare una vittoria che tu poi puoi utilizzare per il tuo fronte e qual è il compromesso che invece semplicemente stempera le tue rivendicazioni, le indebolisce, ti compromette, ti fa perdere di credibilità. Allora Lenin, in questa trasfigurazione che ne fa Brecht, ha davanti due bicchieri, uno di acqua e uno di vino, e dice che sui compromessi bisogna sapere che se si vuole bere l’acqua e il vino l’importante è non mischiarli nello stesso bicchiere, ma lasciare un bicchiere con dentro l’acqua e un bicchiere con dentro il vino. Se li mischi non li puoi più separare. Quindi quello che Brecht suggerisce attraverso Lenin è che il compromesso è possibile nella politica, ma è possibile solo se si è disposti e si è nelle condizioni di sottrarsi a questo compromesso nel momento in cui diventa un elemento deteriore, che danneggia la tua prospettiva piuttosto che rafforzarla. Ovviamente messa in questo modo sembra molto meno problematica di quello che è in realtà, quello che voglio dire è che se Podemos ha la consapevolezza, e credo che lo sappiano molto meglio di me, dei limiti di un governo coi socialisti, può certamente utilizzarlo. Se Podemos si mescola con i socialisti, quindi mischia l’acqua e il vino insieme, non può più tirarla fuori. Credo che pero se si ha la consapevolezza forte di questo il problema non si ponga, io non lo vedo necessariamente come un abbassarsi o stemperarsi, lo vedo come una possibile occasione, anche perché Podemos non è un partitino che ha preso il 2% o il 3%, Podemos è una forza importante in Spagna. Se Potere al Popolo fosse entrata in parlamento, non si sarebbe alleata con nessuno, perché il nostro peso non sarebbe stato tale da consentirci di tornare eventualmente indietro su quella alleanza, ne saremmo stati semplicemente assorbiti. E quindi di fatto sarebbe stata semplicemente una alleanza di comodo, opportunistica, perché con una percentuale piccola non puoi pensare di strappare vittorie importanti. E quindi noi avevamo dichiarato fin dal principio che saremmo andati a fare opposizione. Una forza che ha invece un peso molto diverso, come Podemos in Spagna, forse ha la possibilità, e credo che loro nelle valutazioni che hanno fatto lo abbiano tenuto in conto, di spostare veramente qualcosa, di conquistare delle cose per le classi popolari, di fare dei provvedimenti che siano importanti, che migliorino le condizioni di vita, che rafforzino la loro base di consenso. Ma è anche perché non sono un partito dell’1% del 2 %, quindi non vanno lì, con il cappello in mano, non vanno a chiedere la carità, e a chiedere un posticino, una poltrona, ma vanno non dico da pari a pari ma sicuramente come forza importante a ragionare con i socialisti. Ad ogni modo credo anche, senza avere i poteri magici, che su alcune questioni i nodi verranno al pettine, le differenze sono molto forti e non sarà facile l’incontro tra Podemos e il PSOE, soprattutto riguardo alle questioni nazionali legate all’Unione Europea, credo che arriveranno a scontrarsi ad un certo punto. Pero il ragionamento che facevo è generale, non su se questa alleanza riesca o meno, cosa sulla quale ho qualche dubbio.
Quindi non fai differenza tattico-strategica tra il parlamento e il governo, se riesci a mantenere la tua autonomia…
La tattica e la strategia si declinano in base alla forza che tu hai. Io non credo che la scelta di Podemos sia strategica rispetto al Partito Socialista. Credo che sia una scelta tattica rispetto alla possibilità di essere loro ad essere ancora più egemoni, più forti, a strappare delle vittorie, dei consensi. Io l’ho intesa cosi questa possibile apertura poi posso sbagliarmi. Pero per poterlo fare devi essere credibile, devi avere forza. Quelli che mi dicono con il 3% che vanno a fare un’alleanza perché tatticamente serve a qualcosa, io ho la sensazione che la vanno a fare per una poltrona, perché con il 3% mi sembra difficile che tu possa orientare realmente, che possa fare delle cose importanti.
Secondo Rosa è più facile non mischiare l’acqua con il vino quando sei in parlamento e non al governo…
E’ certamente vero, è anche vero che al governo tu hai ben altra possibilità di intervento. Ci sono momenti per fare opposizione e credo che Podemos abbia ritenuto che questo era il momento per strappare qualcosa in più.
POPOLARE O POPULISTA?
Voi che vi siete denominati “Potere al Popolo”, il concetto di popolo come lo concepite, come lo lavorate?
Ci sono due ragioni per cui noi abbiamo scelto questo nome e utilizziamo il termine “popolo”. La prima riguarda quello che dicevo prima, e cioè che è un termine immediatamente comprensibile: se io dico ad una persona “tu sei parte del popolo”, questa intende immediatamente che lui o lei è parte di quelli che normalmente subiscono le decisioni, quindi che normalmente non esercitano il potere, non sono ricche, non sono privilegiate. Intende immediatamente il popolo in questo senso. La seconda è che per noi dell’ex OPG, che abbiamo proposto questa definizione, ci sono alcuni riferimenti storici che amiamo molto, per esempio le Pantere Nere o Frantz Fanon, che parlano di popolo come qualcosa che va oltre il proletariato. Cioè un proletariato che però include anche i non bianchi, e include anche chi è disoccupato, chi è iper-precario, e quindi che in qualche modo allarga ancora di più le maglie. Perché nel discorso della sinistra negli anni 70 è diventata preponderante una definizione di poletariato che non è quella di Marx, un proletariato cioè inteso solo come proletariato di fabbrica. Non è la definizione corretta, ma è quella che di fatto in Italia è la diventata dominante. Nel senso che quando dico proletario, sempre che qualcuno mi capisca, e sono pochi, immagina immediatamente l’operaio. Siccome noi vogliamo raccontare più sfumature dello sfruttamento, popolo ci sembrava adatto come termine.
Qual è la differenza tra popolare e populista e come si declina una prassi popolare senza annacquare la lotta di classe?
Io vedo principalmente due differenze tra popolare e populista. La prima riguarda è uno degli aspetti classici dei movimenti populisti, cioè il leaderismo. Un leaderismo esasperato. Io penso che, sebbene ci possano essere delle figure che incarnano delle istanze sociali, è giusto che sia così, perché si deve trovare una voce che racconti lo sfruttamento, il razzismo, etc. è necessaria una grande pluralità nei processi politici, una grande democrazia. Quindi intanto non siamo populisti nel senso deteriore in cui a volte in Italia si usa questo termine, e cioè di qualcuno che cerca un leader, una figura di riferimento carismatica. E poi, e questa è la seconda differenza, i movimenti populisti, in particolare il populismo di destra, tendono a parlare alla pancia delle persone, a dire delle cose che sono già nelle corde, che sono già nella testa delle persone e semplicemente le ripetono ripeterle fino a esasperarle. Penso alla questione del razzismo, perché in Italia questo è stato chiarissimo: sia in campagna elettorale che nei mesi precedenti, si andava ad enfatizzare questa questione, ed ha funzionato. Ovviamente lo dico in negativo. Perché è stato proprio palpabile, immediato, ed è incredibile come sia avvenuto in poco tempo, come la propaganda degli ultimi sei mesi, dell’ultimo anno, abbia portato ad una trasformazione non solo nel linguaggio ma anche nella relazione con le persone straniere, che vengono trattate ancora peggio dalle persone comuni, ci sono manifestazioni di razzismo più frequenti etc. Noi non vogliamo assecondare questi bassi istinti, ci poniamo un compito diverso: quello di trasformare quello che le persone pensano, e di tirare fuori la parte migliore, cioè in qualche modo di ricordare quali sono gli effettivi interessi di classe. Quindi siamo popolari perché parliamo alle classi popolari, ma non assecondando i loro peggiori istinti né li strumentalizziamo, come accade con il populismo di destra che utilizza il razzismo oppure l’odio nei confronti delle donne o dei poveri per avere consenso. Per rendere l’idea, nel nostro programma noi abbiamo messo dei punti che forse erano i più anti populisti che si potessero immaginare. Ad esempio, siamo stati molto criticati perché chiedevamo l’abolizione del “41 bis”, che è il regime di carcere duro che in Italia viene applicato, tra gli altri, ai mafiosi. Perché secondo tante organizzazioni internazionali è una tortura perché lede i diritti umani delle persone incarcerate, e noi questo lo abbiamo messo nel programma. Potete immaginarvi che chiunque ci ha fatto domande, anche provando a metterci in difficoltà, dicendo: “Allora voi volete che i mafiosi siano liberi, o che non vengano puniti abbastanza”. Chiaramente questo è quanto di meno populista ci possa essere, però secondo noi è giusto, quindi in questo senso non ci poniamo il problema di piacere a tutti. Non abbiamo il problema di dire, per esempio, che vogliamo alzare le tasse. No, non ci poniamo il problema di piacere a tutti o di parlare a tutti, ma, appunto, di essere popolari, cioè di rappresentare le classi popolari, che siamo noi stessi e noi stesse, dopotutto.
Qual è il rapporto che immaginate tra il potere popolare e le istituzioni?
Per spiegare questo, provo a raccontare qual è stato il rapporto che abbiamo avuto noi con le istituzioni e i dispositivi che abbiamo messo in campo. Parlo della mia realtà, Napoli. Noi abbiamo immaginato ed elaborato quello che chiamiamo “controllo popolare”, che ovviamente non è frutto solo della nostra riflessione, ma che è qualcosa che abbiamo preso da tante altre esperienze, da tanti altri movimenti. Ci sono alcuni temi, alcune questioni, che secondo noi sono cruciali, come il lavoro o le questioni legate all’accoglienza, o il diritto alla salute pubblica. Ebbene, noi andiamo con dei gruppi di persone, che sono le persone che partecipano alle attività sociali che noi facciamo all’Ex Opg, che vengono ai nostri sportelli o che vengono a curarsi al nostro ambulatorio, o che vengono al doposcuola a portare i bambini, e andiamo con loro a controllare che in questi servizi vengano rispettate le procedure, vengano fatti bene. Ad esempio, con le persone che vengono al nostro sportello legale per farsi aiutare, andiamo a fare pressione all’ispettorato del lavoro, per capire se, per esempio, gli sono stati versati i contributi o se sono stati retribuiti il giusto per le ore che hanno lavorato. Andiamo a fare pressione all’ispettorato, a occuparlo se serve, perché vadano a fare i controlli nei luoghi di lavoro in cui i contratti vengono fatti con forme non legali, o non vengono fatti affatto. Ci sono molti posti, a Napoli ma anche in tante altre città d’Italia, dove si lavora al nero, senza contratto. Noi andiamo in questi posti in gruppo, vediamo cosa succede, e facciamo pressione perché si facciano i controlli adeguati, affinché o che questi posti vengano chiusi o li si obblighi a fare regolare contratto ai lavoratori. Facciamo lo stesso, per esempio, nei centri di accoglienza per migranti o nei consultori ginecologici. Siamo riusciti a far chiudere tanti centri di accoglienza, o almeno a migliorare le condizioni di molti. Questo è il primo livello di rapporto con le istituzioni, quindi di controllo, dopotutto. Poi io credo che, con l’attività sociale, cioè andando ad intervenire in maniera diretta sui bisogni delle persone, e facendo sì che queste persone si attivino – perché noi non siamo un servizio, noi chiediamo a chi viene da noi di collaborare a questo servizio per ricevere beneficio – tutti noi impariamo a gestire il territorio.ss Cominciamo a conoscerlo, a imparare come si fanno le cose, e così possiamo portare delle rivendicazioni puntuali. È un modo di fare inchiesta sociale e di capire in dettaglio cosa serve nei nostri quartieri e nelle nostre città. E in questo modo impariamo a gestirlo, a amministrare il territorio. Quindi in questo senso anche il passaggio alla rappresentanza e alle elezioni è stato molto naturale. Perché imparando a gestire il territorio in maniera autorganizzata, ti dici: “ok ma allora posso provare a farlo anche come rappresentante, perché questo mi può aiutare, mi può dare più informazioni, mi può dare più possibilità”, così che è stato questo il passaggio che ci ha portato a dire che anche le lezioni potevano essere uno strumento utile.
PAP è un movimento anticapitalista?
Si.
È un movimento anti patriarcale anticoloniale?
Certo che sì. E sono anche temi che abbiamo esplicitato in maniera molto chiara, sia nel programma, che in tutte le esternazioni pubbliche. Sono tutti e tre temi urgenti in Italia. Quello che abbiamo provato a fare è raccontare e parlare di questi temi, quindi del problema dello sfruttamento, del capitalismo, della povertà, del sessismo e del razzismo, ma sempre in una chiave che potesse essere comprensibile. Cioè lavorando sul linguaggio, ma non nel senso di creare un linguaggio quasi tribale, che diventa interno ad un mondo, ad un meccanismo, ma che non parla a nessuno al di fuori di esso. Noi cerchiamo di usare un linguaggio chiaro e parole che possano arrivare, che possano essere semplici. Noi parliamo molto spesso di povertà, ma non usiamo quasi mai, se non nei documenti di approfondimento, il termine proletariato, non perché lo rinneghiamo, ma perché è poco utilizzabile, poco comprensibile, perché parlerebbe solamente a chi è già estremamente politicizzato, mentre noi proviamo a parlare anche ad altri. Quindi usiamo dei termini che siano immediatamente chiari a chi ascolta. Per esempio, se io dico che una persona è povera, non è lo stesso che se io dico è un proletario. Io sono consapevole, da marxista, di questo, di questa differenza, ma mo che è una parola utile, una parola che funziona.
Tu sei donna, precaria e meridionale. In Italia c’è una tradizione forte di lotte femministe ma anche di discriminazione verso i meridionali. In Argentina si sta finalmente aprendo la possibilità di conquistare una legge sull’aborto. Come pensare oggi la lotta contro il patriarcato, il capitalismo e la colonialità senza dissociare queste dimensioni?
Queste dimensioni in realtà si fa fatica ad associarle, cioè il problema è il contrario. Quando tu parli di patriarcato, parli comunque di qualcosa che si va ad inserire in un contesto che è appunto un contesto di discriminazione più complessivo e di sfruttamento più complessivo. Per la mia lettura politica non è che la lotta femminista e’ svincolata dalla lotta di classe. Io sono consapevole che è una contraddizione che sicuramente vive anche a sé, ma è contemporaneamente legata alle condizioni materiali delle donne. E quindi anzi, io trovo strano che una donna possa lottare contro il patriarcato ma non contro lo sfruttamento, perché sono due cose talmente collegate che sono due facce della stessa medaglia. Noi cerchiamo di articolarle in questo senso, nella connessione di queste contraddizioni e di queste forme di sfruttamento. Forse scegliere me come portavoce ha voluto dare un segnale di rottura anche in questo, perché e’ vero che in Italia, soprattutto negli ultimi anni, ma questo parte dal Sudamerica, c’è stato un forte movimento femminista, si sono rimessi al centro i temi di genere. È vero anche però che queste lotte sul piano della politica hanno sortito effetti molto relativi. Se poi tu vedi le candidature, i rappresentanti politici, le donne presenti sono poche, e una lotta femminista si fa anche in questa forma, quindi quella di dare voce, di rappresentare. Noi ci abbiamo provato con tante scelte, dalle candidature, alla portavoce, ecc. Penso che sia una lotta importante, che vada tenuta al centro, però assieme a tutte le altre questioni che viviamo perché altrimenti diventa una cosa molto astratta. È il grande rischio, io credo, delle contraddizioni legate all’identità, quindi all’identità di genere, l’identità etnica, religiosa. Se non riesci a metterle in connessione rischiano di diventare un po’ vuote.
COSTRUIRE UNA NUOVA SINISTRA IN ITALIA: USCIRE DAI CENTRI SOCIALI, USCIRE PAZZI
Tu sei membra del centro sociale “Je so Pazzo”, cuore della proposta di PAP. Da quanto tempo riflettete sulla creazione di un movimento politico-elettorale a scala nazionale?
Di un’organizzazione nazionale praticamente da sempre, da quando è nato il gruppo che poi ha occupato questo centro sociale, quindi da una decina d’anni. Ma non avevamo mai pensato in maniera specifica alle elezioni. Sentivamo la necessitá di una rete e di una organizzazione nazionale, perché ovviamente può dare più forza alle lotte, pero non pensavamo alle elezioni come strumento, perché in qualche modo la nostra storia politica è una storia politica extraparlamentare, non avevamo mai considerato la rappresentanza un tema di grande interesse, pur senza mai escluderla. Diciamo che non c’era un rifiuto strategico rispetto alla rappresentanza ma non ne avevamo mai discusso. Abbiamo iniziato a discuterne più seriamente quando ci siamo resi conto, quest’autunno, in un contesto nel quale comunque l’Italia si spostava a destra, che non c’erano reali alternative di sinistra nel paese; era un contesto nel quale ci sembrava che si aprisse uno spazio, quindi è un ragionamento che nel concreto, sul piano elettorale, è molto recente. Sul piano generale dell’organizzazione nazionale invece no, è parecchio che ci pensiamo, ci ragioniamo.
Da 10 anni immaginavate la conformazione di una organizzazione nazionale, a che tipo di organizzazione ti riferisci?
Immaginavamo una rete e in qualche modo da tempo eravamo in procinto di organizzarla. Una rete di realtà locali che si occupano di lotte territoriali, ambientali e in particolare sul lavoro, perché ci siamo sempre occupati di lotte sul lavoro.
Con l’idea di andare oltre ai centri sociali o una rete di centri sociali?
No, non per forza centri sociali, anche associazioni e comitati. Il centro sociale è uno strumento, può servire, non servire, dipende dal contesto. In alcuni contesti è più facile, in altri meno, quindi no, non era necessario che fossero centri sociali. Noi stessi, per tanto tempo, per due anni, in attesa di una nuova occupazione che poi è stata quella di Jesopazzo, siamo stati in un posto in affitto, quindi con un regolare contratto. Per noi non è importante il centro sociale, quello è solo un contenitore.
Alcuni hanno presentato questa scelta come una “rottura necessaria” con il patrimonio politico degli anni ’70. È così?
Io penso che il problema sia su due piani, Sul piano teorico sul concetto di avanguardia, che è stato importante In Italia, ma credo ovunque, negli anni 70, e su cosa noi pensiamo oggi significhi essere avanguardia. Per un altro verso il problema è che questa contrapposizione, questo scontro fra sinistra istituzionale e sinistra extraparlamentare oggi non c’è più perché non ci sono più nessuna delle due sinistre. Cioè non c’è una sinistra che sia degna di essere chiamata tale all’interno del parlamento, perché io non posso considerare il Partito Democratico come qualcosa di sinistra: non ha fatto niente per essere considerato tale. E non lo dico come esagerazione: è chiaramente così, è un partito liberista, quindi non ha niente di sinistra. D’altra parte la sinistra extraparlamentare ormai è ridotta all’osso, ci sono sì alcune esperienze molto interessanti in Italia, ma sono comunque limitate. Quindi questo scontro, non è che vada ripensato, non c’è più perché non c’è più né sinistra parlamentare né di fatto nemmeno sinistra extraparlamentare, che è ridotta a pochi nuclei. Soprattutto è assente nel senso comune, nel ragionamento collettivo. Rimangono sì alcuni nuclei forti in alcune città, in alcuni territori, ma che non hanno neanche l’ombra della potenza degli anni 70, dunque non è tanto che vada ripensato quel rapporto, è che i soggetti di quel rapporto non ci sono più.
Quando ti riferisci ad avanguardia intendi una critica a come si è inteso il concetto di avanguardia negli anni 70?
Penso che dietro a questo concetto si nasconda spesso una grande impotenza. Mi riferisco all’idea che essere avanguardia significhi dire cose diverse dagli altri, mentre invece secondo me significa costruire su ciò che è socialmente riconosciuto. Per esempio, quando io oggi dico che per me è importante fare il doposcuola, o fare l’ambulatorio popolare, se io lo avessi detto negli anni 70 avrei fatto una battaglia di retroguardia, perché se mentre nelle piazze si parlava di lotta di classe, o si rivendicava il controllo operaio della produzione, io parlavo di fare il doposcuola gratis ai bambini bisognosi, sarebbe sembrata una cosa da chiesa. Ma oggi, in un momento di disgregazione sociale assoluta, dobbiamo ripensare l’avanguardia rispetto al tempo che viviamo; dire o fare quindi qualcosa di avanzato, qualcosa che può innescare la trasformazione sociale e di trasformazione delle idee, ma a partire dal tempo presente. La mia impressione è che a volte si fa un uso sbagliato di questo concetto, proprio in relazione agli anni 70, pensando che essere avanguardia significhi dire cose che nessuno dice e quindi socialmente non sono riconosciute, ma io non credo che questo sia avanguardia, perché se non hai dietro nessuno non sei avanguardia.
Hai descritto la realtà della sinistra di base italiana come parcellizzata, incapace in grande misura di parlare al resto della società, spesso chiusa in un autismo autoreferenziale. La storia dei centri sociali è finita?
Penso che dire parcellizzata è addirittura poco, nel senso che non è solamente fatta a pezzi, ma il fatto è che tante forze si sono proprio disperse. Quindi non si tratta solo di rimettere insieme i pezzi, perché se tu hai tanti pezzi, puoi anche pensare di appunto ricucire, di metterli insieme, e risolvere così il problema. La questione invece, è che tanta gente non si non si considera più di sinistra, non fa più lavoro militante, non si riconosce più in determinate parole d’ordine, in determinate lotte, e dunque il problema è più radicale della parcellizzazione, della divisione. Io penso che la storie dei partiti, come dei centri sociali o dei movimenti, non sia terminata. Sicuramente alcune forme sono finite, quindi non è che io butto via il passato – un passato di cui ho fatto parte anch’io e non me ne pento – ma va radicalmente ripensata la modalità di fare politica. Quindi se per centro sociale pensiamo, come qualche volta è stato in Italia, un luogo che è molto proiettato all’interno del movimento, che parla ad esso, e non al’esterno, un luogo di aggregazione quasi esclusivamente giovanile, sì, penso che quella formula abbia poco da dire oggi e debba essere ripensata.
In Argentina la parola “locura” (pazzia) ha una tradizione storica molto lunga. Le madri di Plaza de Mayo, per esempio, vennero accusate durante la dittatura di essere pazze, e fecero di questa definizione un’identità politica radicale. Credi che sia necessaria oggi essere un po’ pazzi per pensare di poter fare la rivoluzione?
Per forza, è impossibile senza, perché secondo me la situazione è molto grave, soprattutto in Italia, perché negli altri paesi c’è stata comunque una miglior risposta alla crisi e alle destre, e se non sei un po’ pazzo non ti viene voglia di fare politica seriamente. E poi non si può trovare delle formule nuove senza un po’ di follia, ma si continua a fare cose che non funzionano, Quindi si, il nome lo abbiamo scelto anche per quello. È il titolo di una canzone napoletana, ma l’abbiamo scelto perché ci piaceva il significato.
GRAMSCI, FANON, IL FEMMINISMO E L’ARTICOLAZIONE DELLE LOTTE
Cosa recuperate di Gramsci? Come vi posizionate rispetto alle letture “istituzionaliste” che si sono fatte recentemente della sua opera?
Come sempre quando qualcuno diventa un “padre della patria” lo si depotenzia nel messaggio. Quindi Gramsci, non solo nelle letture recenti ma anche in alcune letture classiche, e’ stato secondo me molto addomesticato dai marxisti, tanto che è un autore molto poco frequentato dai movimenti. Se vedi, non c’è praticamente traccia di Gramsci nei movimenti extraparlamentari degli anni ‘70. Non è un caso, no? Perché veniva considerato come istituzionale per eccellenza. Per noi non è così. Quello che credo sia interessante del suo pensiero riguarda intanto, per noi che siamo del sud, la questione meridionale, quindi come lui ha saputo leggere quella questione. E, per quello che riguarda più in generale Potere al popolo, e non quindi solo la mia specifica realtà di appartenenza, la necessità della trasformazione del senso comune. Quindi di operare, di lavorare sul senso comune e di fare egemonia. Che è un po’ un gioco di prestigio, perché si tratta di far credere a chi non è immediatamente e del tutto dalla tua parte che invece lo è. Il compito adesso è più facile proprio perché c’è un impoverimento complessivo. Tante figure, tante persone che prima probabilmente si ritenevano parte di un’altra classe, non delle classi popolari, di fatto si trovano ad esserlo, quindi dovrebbe essere più facile il gioco oggi. Poi non lo è ovviamente per tante altre ragioni. Quindi sicuramente noi Gramsci lo recuperiamo in questo, nel tema dell’egemonia, nella questione del sud e molto nella questione del rapporto al senso comune, del lavoro sul senso comune.
Ti sembra che il concerto di subalternità sia pertinente per considerare i settori popolari?
Sì, credo che sia la definizione più corretta. Una definizione poco spendibile, un po’ per i problemi che dicevamo prima, quindi di non essere ovviamente una parola di uso comune. Ma credo che sia la definizione corretta perché riesce a tenere dentro sia l’elemento materiale sia l’elemento culturale in maniera molto sintetica, molto diretta. Quindi è un termine che fa parte del patrimonio che utilizziamo.
Tu credi che, come diceva Gramsci, sia possibile anticipare o prefigurare oggi la società futura per la quale si lotta, senza aspettare la presa del potere?
Io penso che deve essere così, perché, immaginiamoci, per esempio, che domani prendiamo il potere, noi dobbiamo sapere come amministrare questo potere, quindi se si fa la rivoluzione si deve già avere una capacità di gestione del territorio, della cosa pubblica. E non passa, necessariamente, dall’essere deputato o senatore; passa dall’avere a che fare con la trasformazione della propria realtà quotidiana. Penso quindi che la società futura bisogna costruirla oggi, anche se ovviamente ci devono essere dei cambiamenti di struttura che implicano momenti di rottura, in cui tu si fa un salto di qualità in questa trasformazione. E sebbene questo vada fatto tutti i giorni, c’è però una trappola alla quale bisogna sfuggire: a volte noi scherzando diciamo che non è possibile costruire la casa sull’albero, come quando i bambini vanno a fare una casa sui rami degli alberi e là dentro si immaginano una vita perfetta. Si immaginano di essere adulti e di poter gestire la propria vita, dimenticando che poi ci sono i genitori a casa che comandano davvero. Noi dobbiamo trasformare i nostri territori, le nostre città, a partire dai comitati, dalle associazioni, dai centri sociali, da tutte le esperienze che lottano in questi territori, ma ci dobbiamo ricordare che non possiamo costruire delle isole felici, altrimenti il rischio è adagiarsi e pensare che vada tutto bene perché si sta tra compagni e magari perché si è riusciti ad ottenere qualche piccola vittoria. Mentre invece, secondo me, la trasformazione deve essere generale, e quindi in questo tipo di attività sociali dovremmo riuscire a tenere sempre la guardia alta a livello politico, in modo che quello che facciamo non si riduca solo a piccole vertenze e vittorie parziali, ma che dia frutto in termini di organizzazione politica, di aggregazione di nuove persone, di strutturazione di organismi, della possibilità di impossessarci di strumenti per cambiare la realtà. Altrimenti il rischio della “casa sull’albero” secondo me è forte.
Nell’ultimo comunicato di PAP si lancia l’apertura delle “Case del Popolo” come sedi politiche ma anche e soprattutto presidi sociali nei territori. Le Case del Popolo sono un simbolo della tradizione socialista Italia, fin dalla fine dell’800, poi egemonizzate dal PCI. Aldilà del fatto che quel partito abbia finito per integrarsi al sistema, c’è qualcosa della sua capacità di radicamento e di costruire una base popolare, della sua forma organizzativa a livello territoriale che secondo te si può riscattare?
Beh intanto, già si stanno aprendo, io proprio ieri sono stata in Calabria e si è aperta la Casa del Popolo a Lamezia, si è aperto un ambulatorio, due sportelli del lavoro…è un processo che già sta andando molto velocemente. Quando tu fai riferimento alle vecchie Case del Popolo ci sono secondo me due cose da dire. La prima e’ che le prime Case del Popolo nascono proprio come mutuo aiuto, cioè come luogo di incontro ma anche come luogo dove ci si aiutava, dove ci si incontrava per aiutarsi. Siccome credo che in Italia siamo, soprattutto per quel che riguarda il lavoro e per quanto riguarda i servizi sociali, la sanità, la scuola, in una situazione che e’ quasi ottocentesca, penso che alcuni modelli, rinnovati, di quelle organizzazioni operaie, di quelle organizzazioni popolari, potrebbero essere utili da riprendere. Perché siamo in quella situazione lì, senza diritti e senza una grande forza di massa, disorganizzati come lo si era allora. E dunque in questo senso ci piaceva il nome Case del popolo. Rispetto al PCI, se oggi vai, per esempio, nel centro Italia, e vai in una Casa del Popolo, questi spesso sono diventati dei circoli, una sorta di bar. Quindi dei luoghi che hanno poco a che fare con la politica, pero un tempo sono stati luoghi molto importanti e il PCI, la cui storia personalmente
non salvo integralmente, non mi ci riconosco, è stata oggettivamente una grande forza progressiva in questo paese che ha portato avanti molte battaglie importanti e che soprattutto ha saputo essere popolare. Si diceva, per ogni campanile una sede del PCI, e viceversa, quindi una capillarità che in Italia ha avuto solo la Chiesa, e la chiesa è la più potente organizzazione politica italiana, credo forse ancora oggi. Il PCI in questo è stato eccezionale, è riuscito a fare egemonia culturale in questo paese, è riuscito ad essere iper capillare, credo che sia molto importante. Ed è un pezzo di quella storia politica che io certamente non avrei nessuna remora, nessun problema a recuperare. Quello della capillarità territoriale, del lavoro sul territorio.
L’ultimo comunicato di PAP recita: “Il mutualismo permette di stabilire una connessione sentimentale e materiale con la classe”. Sembra una citazione quasi letterale di Gramsci…
Eh sì, perché ci piace Gramsci, credo che il compagno che ha inserito il termine “sentimentale” non l’abbia fatto ovviamente a caso. Rispondere ai bisogni significa certamente dare un contributo materiale, ma significa anche ricostruire una connessione, un senso di unità, un senso comune. E credo che sia importante perché noi abbiamo perso questo. Parlo di noi come persone che vogliono trasformare il mondo, gli attivisti. In alcuni casi abbiamo perso questa connessione sentimentale, cioè veniamo visti come degli alieni, come dei marziani, e non come parte della classe a cui apparteniamo. Quando parliamo con le persone come noi, sembriamo staccati dalla realtà. E invece è questa connessione che va riattivata, e Gramsci in questo e’ per noi una fonte di ispirazione.
Rispetto a “Dove sono i nostri”, il libro che avete scritto con i Clash City Workers, sembra che ci sia stato un giro gramsciano nel vostro discorso…
Quel testo aveva una funzione molto interna rispetto ad un dibattito che c’era nel movimento, quindi su questo devo contraddirti. Nel senso che Gramsci c’era tanto anche prima, noi avevamo scritto altre cose che non avevamo pubblicato in forma di libro, ma come documenti, opuscoli, su Gramsci. Quel libro non è un libro che, come alcuni avevano interpretato, parlava della struttura, e dunque non aveva che fare con l’aspetto della trasformazione culturale o sovrastrutturale, ideologica. Quel libro rispondeva ad una esigenza. Siccome noi già da allora avevamo iniziato ad aprire le camere del lavoro in varie città d’Italia, l’esigenza era dire: guardate che il lavoro in Italia esiste ancora, e’ ancora un problema. E che non bisogna fare confusione tra la forma del lavoro, quindi il nome che noi diamo, e il rapporto di sfruttamento che invece sussiste. Per cui anche chi fa l’operatore di un call center è un lavoratore, anche chi fa le consegne delle pizze è un lavoratore, mentre queste figure venivano quasi ignorate. Come se non si potessero mai collocare. Quindi l’intenzione era quella, analizzare in Italia il lavoro per dire che la classe esiste ancora, anche se ha assunto delle forme diverse. Quindi quello era lo scopo, non abbiamo mai trascurato l’aspetto sovrastrutturale, però quel libro aveva quel obiettivo.
E’ possibile un dialogo tra Fanon e Gramsci?
Si, credo che sia una strada che è stata già percorsa, anche se mi sembra che sia legata ad una interpretazione di Fanon che non è precisamente la mia. Un Fanon che è quello declinato dagli studi postcoloniali, che secondo me tradisce un po’ quello che e’ un elemento originario di Fanon che credo sia molto interessante e che invece negli ultimi anni è stato quasi completamente rimosso, che è quello della violenza, dell’organizzazione necessaria. Si è puntato su un altro Fanon, un po’ il Fanon di Baba, e a quel Fanon li si è abbinato spesso Gramsci. Ma siccome a me è più simpatico il Fanon cattivo, più quello di “Dannati della terra” che di “Maschere bianche”, faccio fatica a tenerli assieme Gramsci e Fanon. Perché secondo me l’aspetto culturale in Fanon è importante ma non è urgente come altri, è secondo me in secondo piano rispetto a quello che è in Gramsci.
La questione della violenza e’ centrale nella lotta di classe ma anche nel momento di crisi che stiamo vivendo, come declinarla nel contesto per esempio dell’autodifesa contro il fascismo?
Io credo prima di tutto che la violenza sia sempre presente in una società, ed è quello che fanno a noi, quella è la forma prevalente. Rispetto alle altre forme, io penso che il problema sia sempre quello della leggibilità. Perché noi non siamo in una fase rivoluzionaria in cui il problema della violenza si pone rispetto alla lotta armata, non è questa la fase. E dunque quando parliamo di violenza parliamo del conflitto, degli scontri di piazza, tanto per fare un esempio. Io credo che possa essere uno strumento utile ma deve essere leggibile, non deve essere usato per colpire ma per manifestare una potenza. Posso fare un esempio, quando per esempio dei lavoratori vanno sotto al Ministero perché da tanti mesi non hanno il rinnovo del contratto, sono in cassa integrazione, e ci sono degli scontri, quegli scontri sono immediatamente leggibili. Una persona guarda la tv e si immedesima, dice “anch’io sono come loro, anch’io non prendo lo stipendio, anch’io non ho risposte e dunque fanno bene”. In altri casi, la violenza non è violenza, è solo rappresentazione della violenza. In quei casi diventa assolutamente muta rispetto a chi guarda. E quindi diventa uno strumento inutile, a volte addirittura controproducente. Io penso che ad esempio in alcuni casi, rispetto al neofascismo, diventi uno strumento che non è sempre utile. E non è sempre leggibile, perché chi guarda non riconosce le differenze. Questo ovviamente perché c’è un’involuzione sociale, e si tende a mettere le cose sullo stesso piano. Questo è un errore, è frutto della propaganda, ma bisogna secondo me essere intelligenti, e bisogna quindi utilizzare degli strumenti che siano comprensibili. Non è un duello medievale, una guerra tra singoli, è una guerra vera. Per vincere qualcosa, per vincere consenso, per vincere potere, deve essere fatta con gli strumenti giusti. Altrimenti non funziona. Quindi, rispetto al neofascismo, io credo che in tanti casi, quando è leggibile perché è stata fatta una violenza, perché in qualche modo è una risposta che è chiara, che è allargata, perché fatto da soggetti che vengono riconosciuti come legittimi, e legittimi detentori di quella forza, allora è giusto fare la violenza. Quando invece diventa qualcosa di incomprensibile per chi guarda, per chi casomai parteggerebbe anche, ma non capisce cosa sta succedendo, e’ solo confusione. Allora è uno strumento stupido. Quindi la violenza, ma questo anche per lo stesso Fanon, che passava per essere un violento, la violenza è uno strumento, non è mica un obiettivo, quindi non c’è da fare apologia.
È interessante l’esempio del neofascismo perché è una situazione in cui sembra che sia necessario mantenere un equilibrio tra la giusta reazione, evitare che rialzi la testa, che si prendano spazi pubblici, e di ridimensionarli, di sgonfiare un po’ il mostro che i media presentano. È complicato…
Sì, io sono stata anche un po’ criticata per quella battuta sul fatto che fossero quattro provoloni. Dicevano “ah, tu allora prendi alla leggera questo problema”. Io non lo prendo alla leggera, però penso che l’antifascismo proprio perché è una cosa seria va affrontato in maniera seria. Quindi levandogli i consensi. In Italia, ma anche in Grecia, loro fanno lavoro sui territori. Per esempio distribuiscono pacchi con generi alimentari, oppure vanno ad aiutare le persone nelle occupazioni delle case, ovviamente solo le persone italiane. Hanno un grande aiuto, perché hanno il favore dei media, quindi hanno una grandissima visibilità e queste cose che fanno sembrano delle attività importantissime. Resta un fatto, che se loro queste cose le possono fare e’ perché tu in quei territori non ci sei. E non sei tu, in qualche modo, a rispondere a necessità, bisogni, a spiegare, a parlare con le persone. Quindi intanto ci devi essere, poi è chiaro che se loro prendono una sala comunale è giusto andare lì fuori a protestare, anche in maniera vigorosa, perché no, ma va fatto in una maniera leggibile. Se io vado solo a protestare ma non costruisco sui territori, io gli lascio intatto lo spazio che loro hanno, e in più li metto nelle condizioni di poter fare le vittime. Cioè di dire “non ci lasciano parlare, noi siamo così buoni, facciamo tante belle cose, e non ci lasciano parlare”. Questo è sbagliato. Quando io li ho ridimensionati, e’ perché secondo me anche nel racconto di queste persone non bisogna mitizzarli. Questi qua in tanti territori sono forti, ma in tanti altri sono veramente quattro gatti, e vanno descritti per quello che sono. A me fanno paura i neofascisti, però mi fa più paura il Ministro degli Interni che fa delle leggi fasciste e che è uno che sta lì in giacca e cravatta. I fascisti mi sembrano, come sempre, dei cani da guardia. È un’espressione degenerata, però si tratta di una parte sociale che esiste, che vive, e che vive in ben altre figure più pericolose come Salvini, Minniti, non soltanto in Casapound, che poi alla fin fine ha un riscontro molto molto relativo nella società. Non bisogna farsi distrarre, guardare il dito invece che la luna.
IL CROCEVIA DELLA SINISTRA IN EUROPA
PAP nasce in un momento in cui le nuove forze della sinistra europea attraversano un momento delicato: Syriza ha subito un’involuzione, Podemos non è riuscita a sfondare. In quale movimento o partito vi ispirate maggiormente? Cercherete alleanze?
Noi ci siamo ispirati a tanti movimenti Europei ed internazionali, sapendo che non è possibile “trasferirli” nel tuo paese, non puoi fare Syriza in Italia, non puoi fare Podemos in Italia, perché ognuno ha le proprie specificità. Abbiamo seguito molto il processo di France Insoumise perché ci sembra che come modello organizzativo possa essere interessante. Anche Podemos può essere un modello organizzativo interessante, ma non puoi rifarli uguali perché le condizioni in Italia sono molto diverse. Una fra tutte, in Italia c’è il MoVimento 5 stelle, che ha drenato, ha portato via, moltissima rabbia sociale, l’ha indirizzata altrove.
Che aspetto della struttura organizzativa di France Insoumise ti risulta interessante?
Sia Syriza che Podemos utilizzano gli strumenti telematici ma anche le strutture territoriali. Ci interesserebbe mantenere questo criterio, quindi una organizzazione non intesa come un partito classico, nel quale possono esserci anche organizzazioni diverse. Perché all’interno di Potere al popolo ci sono soggettività partitiche alle quali noi non chiediamo di sciogliersi, di non avere più la propria specificità partitica, ma alle quali chiediamo semplicemente di far parte di questo percorso. Ma ci deve essere a mio avviso anche la possibilità di adesioni individuali, cioè di singole persone che non si riconoscono in nessuna struttura. In questo c’è una similitudine per esempio con France Insoumise.
France Insoumise ha un leader forte, come si possono costruire leadership collettive?
È complicato, questo deve essere frutto di ragionamento e discussione. Io penso che ci possa essere una pluralità di figure, oppure che comunque la figura del leader, la figura del portavoce non deve essere necessariamente così importante com’è per la Francia, com’è per France Insoumise. Non è una critica, è una constatazione, non è detto che ciò che funziona in Francia possa funzionare anche in Italia. Faccio un esempio, in Francia utilizzano moltissimo la bandiera nazionale, io non so, mi interrogo su questo, se funzionerebbe come simbolo in Italia. E quindi non è detto che anche quella figura di leader, quel meccanismo leaderistico possa funzionare in Italia, Non è detto che quell’aspetto tu debba necessariamente copiarlo, però puoi prenderne altri come per esempio quello di tener dentro realtà e soggettività costituite, partiti ma anche singoli individui, realtà, associazioni.
In un’intervista hai citato come spunto il processo dal basso, il lavoro sul territorio di tanti collettivi che ha portato Syriza al governo e al famoso referendum popolare. Alcuni critici potrebbero usarlo come precedente per non appoggiare l’esperienza di PAP, dato come quello sforzo abbia finito per aiutare un’esperienza politica che ha oggettivamente tradito le aspettative iniziali.
Io non credo che il problema di Syriza sia quello di essere partiti da una rete associativa territoriale. Io credo che se mai si può individuare un elemento critico, questo riguarda le scelte che sono state fatte post referendum. E quindi io non so quanto questo abbia a che fare con la costruzione di quel soggetto, credo che abbia più a che fare con scelte politiche della sua dirigenza, dunque non vedo il nesso in questo. Sicuramente c’è, invece, e qui mi faccio autogol, un altro problema. Cioè c’è il forte problema della gestione del consenso nel momento in cui tu vai al governo, vai al potere, perché e’ diverso ovviamente costruire una rete di realtà di opposizione, essere una forza di opposizione, ed essere una forza di governo. Ma questo forse per noi è presto, ce lo porremo più avanti questo problema.
Parlando di Syriza, secondo te nel momento delle decisioni post referendum è venuto meno il collegamento tra la leadership e questa base di associazioni?
Io sinceramente ho ascoltato e letto parole molto pesanti rispetto a Syriza e ovviamente a Tsipras, che non condivido. Non condivido la retorica del tradimento, sinceramente non la condivido, non in quei termini. È una parola che in generale in politica non amo molto, ma credo che si ci sia stato uno scollamento rispetto a quello che la base voleva e che aveva espresso chiaramente con il referendum.
PER UN INTERNAZIONALISMO DEI POPOLI E DELLE LOTTE
Come possono i movimenti sociali europei praticare una decolonizazione concreta, andare oltre una dichiarazione d’intenti ed uscire da una logica europea ed eurocentrica? Forse c’era più attenzione alla periferia negli anni ’70…
Io penso che nello specifico devi anche vedere di chi parli. I militanti, le persone che sono più attive, che sono più attente, io credo che invece queste connessioni le vedano, le vivano. Si occupino tanto di solidarietà internazionale…di comprendere anche quali sono i legami economici, strutturali tra il loro paese o il loro continente e gli altri. Noi questo, almeno nel nostro piccolo, abbiamo provato sempre a farlo, in articolare con l’America Latina. Ti posso fare un esempio, tra poco noi avremo un incontro con Rafael Correa all’O.P.G., il quale rappresenta comunque secondo me un’esperienza importante, un’esperienza passata ma secondo me interessante. Ci siamo anche sempre occupati di solidarietà con il Venezuela. Quindi sia sul piano della solidarietà che della conoscenza, del riferimento, per noi c’è sempre stato. Allo stesso tempo e’ complicato trasferire questi discorsi su un piano più allargato, diffuso, chiamiamolo così di propaganda….
Rafael Correa è contro l’aborto, contro alcuni movimenti indigeni in Ecuador. Parlava del pericolo della gender theory…
Si, lo so. Da questo punto di vista, anche Chavez, che per noi e’ sicuramente da tanti punti di vista una figura importante… non ho apprezzato sempre tutte le esternazioni che ha fatto, ecco. Non mi sembra che sulla questione di genere sia stato sempre avanzatissimo, Quindi, e’ il solito discorso, non ti prendi tutto, vai a conoscere un’esperienza, ti fai raccontare come sono le cose. Non è detto che ti prendi tutto, che sostieni in toto una determinata esperienza. Anche col chavismo io potrei, su alcune cose, non essere d’accordo. Anche con la esperienza cubana su alcune cose potrei non essere d’accordo. Però mi sembra che siano esperienze interessanti da conoscere, modelli ai quali bisogna imparare ad avvicinarsi. Io la vedo così, forse la vedo in maniera troppo trasversale. Da donna sicuramente mi offendono una serie di questioni, una serie di cose, Ma voglio conoscere, voglio capire cosa c’è stato di positivo in determinate esperienze.
Ma mi pare che manchino le relazioni tra i popoli, tra movimenti, non tanto con i leader mediatici. Si finisce sempre a cercare collegamenti con figure carismatiche che poco hanno a che fare con i movimenti reali, soggetti di base che magari sono molto più simili a Potere al Popolo….
Questo però è normale. È chiaro che tu, trattandosi di un’esperienza lontana, prendi quello che riesci a comprendere, a capire, quello a cui riesci ad arrivare. E’ anche questo il problema, che manca una connessione internazionale. Ma questa connessione si costruisce, e si costruisce da ambo le parti. Io posso aver studiato delle cose, letto, ma ho relativamente poca occasione di poter arrivare a poter comprendere fino in fondo questo qualcosa. Perché manca un livello organizzativo, perché di fatto siamo in un grande momento di reflusso, di depotenziamento delle lotte. Basti pensare a quello che è stato da un punto di vista della connessione internazionale la lotta palestinese. Oggi non c’è paragone. Io oggi posso conoscere quello che accade lì soltanto dalla voce di poche persone, che raccontano quello che fanno, ma non ho un organizzazione di riferimento forte. Faccio questo esempio perché secondo me e’ un’esperienza emblematica su questo, perché loro avevano tanto lavorato sulla connessione internazionale. Esiste il problema che non ci sono rapporti continuativi, e tu l’unica possibilità che hai e’ di parlare con le figure che emergono. Noi, per farti un altro esempio, abbiamo fatto da poco un incontro con l’MST, i Sem Terra del Brasile. Anche lì, è qualcosa di cui possiamo automaticamente appropriarci, possiamo farla nostra, e’ un’esperienza che si può riprodurre nello stesso modo? Io non credo, perché è molto radicata, riflette molto la questione brasiliana. Però proviamo ad incontrarli, a capire, a parlarci.
Quando dici li incontriamo, stai parlando dell’OPG o di Potere al popolo?
Si, come OPG, perche’ Potere al popolo non e’ ancora completamente strutturato da un punto di vista di movimento, quindi è difficile. Ci sono i rapporti internazionali che in qualche modo già avevano le singole organizzazioni, i singoli gruppi di riferimento.
Oggi è fondamentale l’internazionalismo dei movimenti, dei popoli. Ti pare che sia centrale costruire un internazionalismo di nuovo tipo?
Sì, ma deve essere un internazionalismo delle lotte reali, concrete. Mi spiego, io posso essere appassionata di tante cose, ma ci deve essere una connessione tra i movimenti che trasformano poi la società. Io non so in questo momento cosí complesso come si possa articolare un nuovo internazionalismo. C’è da ragionare. Quello che so è che noi esistiamo da 7 mesi ed esistiamo come realtà già in tanti paesi che non sono l’Italia. Abbiamo fatto assemblee territoriali in 15 città in Europa. In pochi mesi, mentre facevamo una campagna elettorale in Italia ci siamo posti il problema di mettere in campo questa connessione. Ci siamo posti il problema, a livello internazionale, di andare a capire a chi fare riferimento. Sono percorsi molto lunghi e molto complessi, non è un qualcosa che si fa nell’immediato. Più che leggere, più che studiare, più che provare a trovare dei contatti, cosa puoi fare oggi?
Quindi l’idea e’ quella di aprire sedi in altri paesi, di diventare un canale per entrare in contatto diretto con i movimenti organizzati?
Questo in Europa già è così, già abbiamo le assemblee territoriali. Ma qui ovviamente è più semplice, anche perché sono più semplici i collegamenti.
In America Latina c’è una discussione sul neo sviluppismo, sull’estrattivismo, in Potere al popolo si discute su come fare a costruire un sistema produttivo non sviluppista?
Sì, c’è stata questa discussione. Soprattutto rispetto alle questioni legate all’agricoltura e in generale alle questioni ambientali e all’opposizione alle grandi opere. Dentro Potere al popolo ci sono tanti attivisti che fanno parte di comitati contro le grandi opere. Discutiamo anche di come ripensare l’economia in un senso sostenibile, la produzione in un senso sostenibile.
C’è qualche esperienza latinoamericana, a argentina, con cui vi sentite identificati particolarmente?
L’esperienza cubana per noi rimane un riferimento molto importante, anche di resistenza popolare, e poi quella venezuelana. Lo dico senza problemi, e in particolare rispetto alla questione del rapporto con le istituzioni, quindi nel rapporto tra orizzontalità e verticalità, e’ secondo noi il tema per cui è importante seguire quell’esperienza. Rispetto alla questione argentina, ho seguito il dibattito che c’è stato da voi, e più in generale in Sudamerica, sui beni comuni, e credo che sia stato di ispirazione per il dibattito successivo che c’è stato in Italia.
Che significa Diego Maradona per te e per voi?
Noi abbiamo un murales di Maradona e Che Guevara all’OPG, il che ti dice tutto. Io so che è una figura controversa, però per noi, per Napoli, è stato una figura di immedesimazione assoluta. Perché lui era un poveraccio che veniva da un posto che sembrava assomigliare molto a Napoli, e che dava l’idea della possibilità di un riscatto. So che non è un santo, però per noi è stato veramente una figura importante, addirittura da un punto di vista politico, e non solo perché aveva il tatuaggio di Che Guevara. Ma proprio perché rappresentava questo, gli ultimi che se ne fregano, che ce la fanno, che vanno contro le regole. Poi è chiaro che lui rappresentava anche tanto altro, non è che stiamo parlando della figura di un rivoluzionario. Però ancora oggi quando vengono i bambini del quartiere, che sono bambini di famiglie molto popolari, poco colte, e vedono il murales, prima vedono Maradona, poi vedono Che Guevara e dicono “Quello là è il tatuaggio di Maradona”. Per loro Che Guevara è il tatuaggio di Maradona. Lo conoscono per altre motivazioni, quindi Maradona ha portato anche un pochino di quello spirito lì. Ci sarebbe anche da capire antropologicamente che cos’è il calcio per Napoli.