di Salvatore Prinzi
Ha appena compiuto 200 anni, ma per qualcuno è ancora giovane. Di sicuro per Raoul Peck, il cui film su Il giovane Karl Marx al momento spicca, nel diluvio di articoli d’occasione e convegni accademici, come il miglior omaggio al filosofo e rivoluzionario tedesco. Dico “il migliore”, perché il film non solo permette di diffonderne la figura e l’opera, ma anche di farci appassionare, ritrovare un Marx più nostro, portarci a qualche riflessione di carattere generale, stimolarci ad agire. Mica poco, di questi tempi. Ma vediamo meglio.
L’idea e la realizzazione
Ammetto che la notizia di un film su Marx mi aveva fatto venire i brividi. Marx non è Guevara e manco Lenin, non spara e non arringa le folle da un autoblindo, difficile rendere da un punto di vista cinematografico i suoi concetti, l’avventura della sua vita, più legata a dispute intellettuali che a momenti epici. Due possibilità: o un polpettone a tesi, iperdidattico e noioso, o qualche trovata postmoderna per trasformarlo in qualcosa di commercialmente appetibile. D’altronde, mi dicevo, non è un caso che in cent’anni di storia del cinema non sia mai stato fatto un film su un soggetto così celebre: non funziona. Peck risolve abilmente il problema puntando sul giovane Marx, uno che in effetti in soli cinque anni cambia quattro paesi, scappa da altrettante polizie, incontra tutti i più folli rivoluzionari del tempo, passa dal benessere alla miseria, mette al mondo svariate figlie, fonda un “partito”… insomma, l’avventura non manca. E mentre si susseguono le scene la sorpresa semmai diventa: com’è che nessuno l’ha fatto prima, il film? Ecco, quando un autore fa sembrare naturale una cosa che sembrava impossibile, fa sembrare necessaria una cosa che mancava, vuol dire che l’operazione è riuscita.
Ma, al di là dell’idea, c’è la realizzazione tecnica. Che è fondamentale, perché i nostri rapporti con le idee sono anche rapporti con le storie, le immagini, i sentimenti che ci suscitano. E un film su Marx che fa schifo è più grave di un film che fa schifo e basta. Peck si era distinto due anni fa per un bel documentario su James Baldwin, I’m not your negro, davvero valido dal punto di vista politico, nella scelta delle interviste, nel montaggio, nella colonna sonora, ma appunto: un documentario. Un film è un’altra cosa, se poi è “storico” richiede una grossa produzione. E qui non ci sono americani. Invece, altra sorpresa: i costumi e gli interni curatissimi, le scenografie ben fatte, le colte citazioni pittoriche, la fotografia che riesce a dare il tono giusto a ogni snodo concettuale. Certo, non è un colossal, nessuna scena di massa, le inquadrature restano strette, ma le economie non si notano, perché il montaggio è dinamico, gli attori espressivi, la sceneggiatura incalzante. Già, la sceneggiatura: scritta da Pascal Bonitzer, laureato in filosofia, storico collaboratore dei Cahiers du cinéma, non proprio l’ultimo arrivato per conoscenza del soggetto. E infatti la storia non mente, né sulla biografia di Marx né nei suoi concetti, inseriti per lo più dentro i dialoghi con gli altri rivoluzionari. Ma soprattutto, nonostante qualche passaggio un po’ didascalico, tiene il ritmo, e vuoi sapere come va a finire anche se lo sai già. Mica facile appassionare senza potersi giocare la carta del finale a effetto!
Il Marx che ne esce e l’effetto sul pubblico
Il ritmo è dato anche dall’identificazione, dall’accordarsi dei personaggi con il mondo dello spettatore. Il Marx messo sullo schermo non è il monumento, il barbuto signore dell’iconografia classica: è un giovane inquieto, anticonformista, che gira l’Europa, fa del sesso, subisce colloqui di lavoro, viene pagato in ritardo, esulta per un buon pranzo. È un Marx umano, disordinato e geniale, poco rispettoso dell’autorità, anche di quella dei padri nobili del movimento socialista, che si muove in un Ottocento così simile ai nostri tempi, quello del lavoro precarizzato, dei controlli alle frontiere, della confusione ideologica. Una figura e un mondo, insomma, in cui il pubblico può riconoscersi – con tutto quello che ne può conseguire…
Qui va menzionato anche il plurilinguismo del film: nella versione originale i protagonisti passano continuamente dal tedesco al francese all’inglese, a seconda dei luoghi in cui sono, delle sfumature di senso che vogliono comunicarsi. Non è solo un espediente per rendere la sceneggiatura più brillante, e nemmeno la volontà di ricostruire filologicamente la vita di Marx e del suo entourage, ma uno stratagemma per far risuonare qualche corda nella generazione Erasmus, quella che è cresciuta in qualche modo con una coscienza europea, che in questi vent’anni è saltata di paese in paese, mischiando le lingue, adattandole allo scopo espressivo. Marx, Engels e soci, sono gli eroi della prima globalizzazione – e non a caso Peck cita le prime pagine del Manifesto sul mercato mondiale – che parlano senza intermediari ai figli dell’ultima globalizzazione, parlano come loro. L’intreccio delle lingue diventa così un rimando all’internazionalismo proletario, oggi ancora più necessario.
Ma ci sono altri due elementi che fanno da ponte fra il mondo del film e il nostro. Il primo: l’attenzione di Peck verso il ruolo delle donne. La figura di Jenny von Westphalen, la moglie di Marx, così come quella di Mary Burns, compagna di Engels, vengono restituite in tutta la loro importanza storica. Jenny e Mary sono donne che scelgono di emanciparsi dal destino previsto per loro: la prima rompe con la sua famiglia aristocratica, si impegna, lavora al fianco di Marx ed Engels alla stesura del Manifesto; Mary lotta nella fabbrica, accompagna Engels per i distretti operai per redigere la prima inchiesta sulle classi sociali, rifiuta il matrimonio in quanto convenzione borghese. Le loro figure sono contrapposte a quella della moglie di Arnold Ruge, che invece serve attentamente il marito e l’ospite, fa conversazione come si conviene, esprimendo la verità del loro essere borghese, quella verità che Ruge cela dietro grandi e inconcludenti proclami a favore del socialismo. Se la condizione della donna è l’indice su cui misurare il progresso di una società oltre quello che dice di sé, Jenny e Mary sono la verità di Karl e Friedrich, del loro tentativo di rivoluzionare davvero il mondo e se stessi.
Il mondo e se stessi, allo stesso tempo: questo è un altro elemento che fa da ponte fra i giovani sullo schermo e i giovani in platea. Peck ci mostra Marx vittima dell’arroganza poliziesca, il Marx stanco e affamato, con i creditori alla porta, il Marx che ha rotto i ponti con il mondo per bene, nel quale, con il suo talento e la sua formazione, si sarebbe potuto ben accomodare. Peck ci ricorda, cioè, che fare politica dalla parte degli sfruttati è una scelta etica, che investe tutto il comportamento e la persona, che si paga, anche duramente, che non fa entrare nei salotti buoni ma ce ne caccia, che non fa essere amati, ma disprezzati e dileggiati da quei pochi che però detengono le chiavi dell’opinione generale. Essere comunisti non è un passeggiata, non è qualcosa che sta al lato di altre scelte, una preferenza, è una scelta di vita. Anche qui l’Ottocento precipita nel presente senza mediazioni: dopo una lunga parentesi in cui essere comunisti poteva non alterare l’esistenza, anzi poteva pure aprire qualche porta, agevolare una carriera, siamo tornati all’anno zero, allo stigma, alla caccia all’estremista. Come se il film ci avvisasse: se cominci oggi, non t’aspettare niente di diverso da questo. Ma, proprio per questo, scegli di cominciare.
Le riflessioni che ci consente
Arriviamo qui al succo politico del film e alle sue eventuali precipitazioni teoriche e pratiche. Qui credo che il merito di Peck non stia tanto nell’offrire chissà quale innovativa interpretazione di Marx, ma di recuperare la potenza del suo gesto originario mentre sgombra alcuni sedimenti che oggi intralciano l’azione. Come in archeologia, disseppellire l’antico porta a una scoperta nuova.
Quale scoperta, ad esempio? Quella che il proletariato è a stento una classe, che è piuttosto una massa disgregata fatta di persone ricattate, ignoranti, invidiose, non più eroiche di altre. Il film si apre proprio sulla violenza delle classi dominanti: la carica della polizia in un bosco dove dei miserabili raccoglitori di legna stanno “rubando” i rami secchi. I miserabili scappano, si calpestano a vicenda, non impugnano le pietre, non resistono. Si fanno massacrare. Stessa scena nella moderna Manchester: le operaie protestano perché una di loro ha perso due dita nel macchinario, Mary si fa avanti e denuncia le condizioni di lavoro, il padre di Engels la licenzia: nessuno la difende, tutte abbassano la testa. Dov’è l’importanza di queste scene? Innanzitutto nel ricordarci, a noi che oggi tendiamo a pensare “una volta sì che si lottava, ora invece…”, e dunque a deprimerci, a viverci come inferiori rispetto ad un passato mitico, e dunque ad accettare il presente misero, che no, non è vero, una volta era come ora, la gente abbassava la testa, e solo a prezzi di sacrifici, di lotte, di un’accumulazione minuziosa di esperienza e di storia, il proletariato è riuscito a diventare una classe, capace di gesta queste sì eroiche come la Comune o le insurrezioni operaie del biennio rosso.
Peck toglie subito ogni illusione intorno alla bontà o libertà naturale dell’uomo – il comunismo non è un idealismo, è un materialismo: bontà e libertà sono concetti storicamente costruiti e pratiche socialmente prodotte. Gli uomini si comportano bene se vengono messi nella condizioni di farlo, i lavoratori lottano se vengono messi o si mettono in condizione di farlo. Qual è questa condizione? L’unità, quindi la coscienza di appartenere a una stessa classe, e l’organizzazione, che completa l’istinto, quell’istinto che nel film porta le operaie a sabotare il macchinario o i muratori ad aiutare Karl e Friedrich nella loro fuga dalla polizia, ma che da solo non basta a diventare una vera forza.
Conflitto e organizzazione: questo è il filo teorico che Peck segue dall’inizio del film fino alla scena clou. Quella in cui Marx ed Engels s’impongono al Congresso della Lega dei Giusti, cambiandone il nome in Lega dei Comunisti, e cambiandone il motto, che passa da un generico “Tutti gli uomini sono fratelli” al celebre “Proletari di tutto il mondo unitevi!”. Peck individua in questa mossa l’atto di nascita della sinistra contemporanea: da giusti a comunisti, da un dato morale, individuale, a un dato materiale, collettivo, attinente ai rapporti di produzione. Da un’affermazione di principio, dall’invocazione della gentilezza, a una realistica indicazione di carattere operativo, che innanzitutto divide il campo sociale – perché i “proletari” non sono i “tutti” – e poi lo ricompatta nell’“unitevi!”…
È chiaro che Peck enfatizza la scena per contrapporre quel gesto alla sinistra di oggi. Che in effetti, da trent’anni a questa parte, ha abbandonato una visione di classe e non ha voluto o saputo tracciare una linea di distinzione fra amici e nemici, regredendo a prima del 1848, alle astrazioni umanitarie, all’intellettualismo di un Bauer, alle utopie di un Proudhon, al nichilismo di un Bakunin. Ha perso un legame organico con la vita della classe, e da qui derivano opportunismo e settarismo, perfettamente speculari. Per questo il gesto che Peck immortala nel film oggi deve essere di nuovo ripetuto.
Come? Con tre cose, sembra suggerire il film. Innanzitutto con la teoria. Di fronte a Wilhelm Weitling, che nel suo misticismo rivoluzionario crede che basti fare appello allo spirito, Marx sbraita contro l’ignoranza. Agli sfruttati serve una teoria scientifica, non servono chiacchiere. Una teoria logicamente solida, che individui la dinamica storica e permetta di iscrivere lì dentro il proprio agire. Ma che abbia – e qui l’importanza dell’inchiesta, della partecipazione alle riunioni operaie, della presenza dei militanti nelle fabbriche e nei quartieri – un innesto nella realtà. Categorie salde, analisi concreta ma anche internità alla classe, connessione emotiva e vitale: questi sono i due elementi antichi che oggi appaiono nuovissimi, tutti da conquistare.
Ma la sottigliezza di Peck sembra suggerire anche un terzo elemento: la coesione del gruppo dirigente. Karl, Friedrich, Jenny, Mary, e i compagni che ruotano attorno a loro non sono politici di mestiere, ma ragazzi animati da una voglia di cambiamento, e per questo mettono in comune tutto, non si riservano nulla. Riescono nel blitz alla Lega dei Giusti perché sono uniti compatti, perché si vogliono bene. Peck coglie una movenza che accomuna quest’avventura con altre analoghe: il gruppo dell’Ordine Nuovo che fonderà il PCI, i barbudos cubani, le pantere nere… Esperienze di creazione di organizzazione che si basano non solo su una teoria o su un’internità al soggetto di riferimento, ma anche sulla potenza dei legami, su un vivere in comune, su un’amicizia in senso alto. Su una sorta di volontarismo senza il quale ogni operazione di costruzione organizzativa resta fredda, sterile.
Qualcosa di simile l’aveva intuito Gramsci ne Il nostro Marx, un articolo scritto nel 1918, in occasione del primo centenario del filosofo. Secondo Gramsci, attraverso Marx, riusciamo a conoscerci meglio e a prendere consapevolezza di quanto vale la nostra “individuale volontà, e come essa possa essere resa potente in quanto, ubbidendo, disciplinandosi alla necessità, finisce col dominare la necessità stessa”. Se Marx chiarisce le dinamiche materiali, insiste sull’oggettività, non è per asservircene, ma per permetterci di padroneggiarla e di poter produrre, con la compattezza dell’azione, cioè che sembrava impossibile. È quindi sbagliato intendere il volontarismo come puro arbitrio: “Volontà, marxisticamente, significa consapevolezza del fine, che a sua volta significa nozione esatta della propria potenza e dei mezzi per esprimerla nell’azione. Significa pertanto in primo luogo distinzione, individuazione della classe, vita politica indipendente da quella dell’altra classe, organizzazione compatta e disciplinata ai fini propri specifici, senza deviazioni e tentennamenti. Significa impulso rettilineo verso il fine massimo, senza scampagnate sui verdi prati della cordiale fratellanza, inteneriti dalle verdi erbette e dalle morbide dichiarazioni di stima e d’amore…”.
Rifiuto di un’astratta fratellanza, linea di classe, importanza di un’organizzazione affiatata e decisa, sentimento – finalmente – di una potenza: non so se Peck avesse letto questo testo di Gramsci, quel che è certo è che nel suo film sono svolti esattamente questi punti. Che sono capitali anche per noi. Solo su una cosa è lecito dissentire da Gramsci. Alla fine del suo articolo, ci raffigura Marx come un “vasto e sereno cervello pensante”, un “momento individuale” di uno “spirito” che lotta da secoli per manifestarsi, ma che finalmente sembra aver trovato la sua strada. D’altronde Gramsci scriveva all’indomani della rivoluzione d’Ottobre, mentre il socialismo cresceva – qualche mese dopo avrebbe raccolto il 32% alle elezioni politiche –, con la convinzione che l’avvenire andasse “soltanto” accelerato…
A noi quest’hegelismo non è concesso. La serenità non sappiamo bene che sia. L’avvenire non sappiamo se avviene. Il nostro Marx è giovane, agisce d’impulso, è ancora alla ricerca di una strada. Per noi è davvero tutto da fare. La storia è, ancora, allo stato nascente.