di Daniele Gambetta
[È da poco tempo in libreria Datacrazia, a cura di Daniele Gambetta: una raccolta di saggi che si interrogano sulla crescente importanza della raccolta di dati sui nostri comportamenti e della loro interpolazione con l’intelligenza artificiale, gestita da organismi mai neutrali. Lo scandalo Cambridge Analytica ha portato alla ribalta una questione che investe le nostre libertà personali ma anche il più generale controllo sociale e lavorativo della collettività, ma non si tratta che dell’emersione parziale di un iceberg, come Datacrazia ben dimostra. Per gentile concessione dell’editore e del curatore pubblichiamo un estratto dell’introduzione al volume]
Divenire cyborg nella complessità
Verso la metà del diciottesimo secolo, in varie città europee si diffuse la pratica di numerare sistematicamente le abitazioni di ogni via in ordine crescente. Prima di allora, per poter consegnare una lettera, il postino doveva sapere dove viveva il destinatario, e non sempre questo era facile. È difficile attribuire una data precisa all’invenzione del numero civico, ma quel che è certo è che la sua introduzione non fu accolta felicemente dall’intera popolazione. Più che per esigenze degli abitanti, si iniziò a numerare le case per venire incontro alle richieste del fisco, dei militari e della polizia, per mappare e rintracciare più rapidamente cittadini che avessero problemi con la giustizia. Di questo malcontento ne fece i conti il re Giuseppe II d’Asburgo, contro il quale si scagliò la popolazione ungherese, contraria alla misura. Ma a pagarne le conseguenze furono i soggetti vittime di discriminazioni, come gli ebrei in Boemia alla fine del Settecento, obbligati a installare numeri civici in cifre romane anziché arabe per essere meglio riconosciuti. Come racconta Ivo Andric nel suo romanzo Il ponte sulla Drina, nell’Impero Austro-Ungarico la popolazione escogitò a lungo stratagemmi per eludere la sorveglianza dei numeri: targhe capovolte o imbrattate “per sbaglio” durante una verniciatura del cancello erano all’ordine del giorno. Ma è Walter Benjamin, nei suoi scritti del 1938, che si scaglia senza mezzi termini contro la pratica di numerazione urbana:
Sin dalla Rivoluzione Francese, una vasta rete di controllo serra nelle proprie maglie in maniera sempre più salda la vita borghese. La numerazione delle case nelle grandi città può essere utilizzata per documentare la progressiva standardizzazione. L’amministrazione di Napoleone aveva reso tale numerazione obbligatoria per Parigi nel 1805. Nei quartieri proletari, in verità, questa semplice misura di polizia aveva incontrato resistenza. Ancora nel 1864 a Saint- Antoine, il quartiere dei carpentieri, fu riportato quanto segue: “Se si chiede a un abitante di questo sobborgo quale sia il suo indirizzo, darà sempre il nome della sua casa, e non il suo freddo, ufficiale numero.” […] Baudelaire trovava questa azione di forza come un’intrusione di un criminale qualsiasi. Cercando di fuggire ai suoi creditori, sostava nei bar o ai circoli letterari. A volte aveva due domicili allo stesso tempo – ma nei giorni in cui l’affitto incombeva, passava spesso la notte in un terzo posto con gli amici. […] Crépet ha contato quattordici indirizzi per Baudelaire negli anni dal 1842 al 1858.
Benjamin continua, attribuendo all’invenzione della fotografia un punto di svolta nello sviluppo del controllo amministrativo e dell’identificazione. Rileggendo oggi queste parole è inevitabile chiedersi cosa penserebbero, Benjamin o Baudelaire, dei tempi in cui viviamo. Identità digitalizzate, geolocalizzazione e registrazione quasi costante di spostamenti, ma anche transazioni finanziare, dati relativi al nostro stato di salute e ai nostri gusti musicali. Mai come ora, nella storia dell’umanità, si è disposto di una quantità così grande di informazioni immagazzinate su fenomeni e comportamenti sociali. Questo fenomeno ha raggiunto una tale importanza nei processi sociali odierni che si è sentita la necessità di dover coniare un termine specifico: big data.
Se fino ad ora, con piccole quantità di dati, un esperto o un gruppo di ricerca poteva avvalersi di macchine e algoritmi classici per l’analisi e l’estrapolazione di informazioni utili, i big data rendono insoddisfacenti e quindi obsoleti i vecchi metodi, mettendoci nella condizione, mai avuta prima, di possedere una quantità di dati maggiore di quella che i mezzi più accessibili ci permettono di gestire.
Per avere una stima delle quantità di cui parliamo, e dell’accelerazione che il processo di digitalizzazione e datificazione sta subendo, Martin Hilbert della Annenberg School for Communication and Journalism (California del Sud) ha calcolato che, mentre nel 2000 le informazioni registrate nel mondo erano per il 25% supportate da formato digitale e per il 75% contenute su dispositivi analogici (come carta, pellicola o nastri magnetici), nel 2013 le informazioni digitalizzate, stimate attorno i 1200 exabyte, sono il 98% del totale, lasciando all’analogico solo il 2%. Se si stampasse una tale quantità di informazioni in libri, questi coprirebbero l’intera superficie degli Stati Uniti 52 volte. Vi è poi da considerare come la proprietà di questi dati sia in larga parte accentrata in poche mani. Come riportava Tom Simonite in un suo editoriale pubblicato sul MIT Technology Review, «Facebook ha collezionato il più vasto insieme di dati mai assemblato sul comportamento sociale umano. Alcune delle tue informazioni personali ne fanno probabilmente parte».
La peculiarità di questi dati, oltre alla loro quantità, è il fatto di provenire da fonti e metodi di estrazione estremamente variegati, costituendo così dataset infinitamente ricchi ma destrutturati, dai quali estrapolare regolarità e pattern richiede elevate capacità di calcolo ed efficienza algoritmica. Allo stesso tempo i dati non sono raccolti solo da veri e propri addetti ai lavori del settore, ma anche estratti dalle azioni quotidiane di milioni di utenti, autisti, lavoratori diffusi.
La pervasività delle nuove tecnologie apre la strada del possibile a scenari fino ad ora considerati fantascientifici. La polizia di Los Angeles sta già implementando un programma, Predpol, che grazie all’analisi di dati online dovrebbe riuscire a prevedere i futuri crimini, come nella dickiana Precrimine di Minority Report (e non mancano le distorsioni dovute ai pregiudizi razziali), mentre negli ultimi mesi del 2016 si è molto discusso di una proposta del partito comunista cinese che vorrebbe fornire un voto complessivo di ogni cittadino basandosi sui dati online, secondo un metodo di social credit system che a tanti ha ricordato l’episodio Caduta libera di Black Mirror.
Un testo molto recente, che analizza in maniera dettagliata vari casi di usi e abusi dell’analisi dati e degli algoritmi in vari ambiti sociali, dall’istruzione al luogo di lavoro, è Armi di distruzione matematica di Cathy O’Neil, dove l’autrice mette giustamente a nudo le disparità economiche e i soprusi sociali al tempo della “dittatura degli algoritmi”.
È importante sottolineare, in questo contesto, che i processi di controllo sociale, di valutazione come strumento disciplinare, di estrazione di valore dalla vita quotidiana, non sono certo fenomeni nati con i social network. Si può invece provare a ragionare di come le nuove tecnologie, ai tempi della datacrazia, costituiscano spesso una lente di ingrandimento per studiare le dinamiche di questi processi.
Datacrazia, a cura di Daniele Gambetta, D Editore, Roma, 2018, 364 pagine, € 15,90